|
di
Primo Di Nicola, L'Espresso
Concorsi che non garantiscono un posto di lavoro. Incarichi
a termine. E il rischio di pressioni politiche. È la riforma
Moratti
Fine del posto sicuro e della cattedra a vita. Per gli aspiranti
professori che vorranno accedere agli atenei, mantenere l'incarico
e progredire nella carriera, gli esami non finiranno mai. Dovranno
rassegnarsi a convivere all'interno di un mondo accademico ridisegnato
all'insegna di una nuova parola d'ordine: flessibilità. Il
trattamento economico? Sarà sempre più legato alla
produttività. L'autonomia intellettuale e di ricerca? Sempre
più esposta ai rischi di condizionamenti esterni.
È allarme rosso sulle ipotesi allo studio
per la riforma dello stato giuridico dei professori. Il timore è
che anche negli atenei si apra la strada dell'epurazione inaugurata
dalla Casa delle Libertà con lo spoils system nei piani alti
della dirigenza statale. Un'esagerazione? Di certo c'è che
sul tavolo del ministro per l'Istruzione Letizia Moratti è
pronto un disegno di legge che preannuncia un autentico terremoto
nelle università. E che rischia di provocare una sollevazione
sindacale nel mondo accademico. Il ministro ha fatto calare il silenzio
sul documento, imponendo a tutti i suoi collaboratori la massima
segretezza. Persino le commissioni parlamentari competenti, nonostante
le richieste d'informazione ne ignorano il contenuto. "L'espresso"
è riuscito a leggerlo ed è in grado di anticiparne
i contenuti.
Il disegno di legge, messo a punto dallo staff
del ministro con il supporto di una titolata commissione di consulenti
coordinati dal rettore del Politecnico di Milano Adriano De Maio,
nella sua ultima versione è composto da cinque articoli,
il primo dei quali contiene tutte le norme destinate a introdurre
nelle università la rivoluzione morattiana. Innanzitutto,
si decreta la fine del sistema di reclutamento basato sul ruolo,
che attualmente garantisce la stabilità dell'incarico a tutto
il corpo docente, ricercatori e professori, associati e ordinari
che siano. Oggi, infatti, una volta vinto il concorso per l'accesso
ai diversi gradi della carriera, la cattedra e l'inamovibilità
sono assicurate. A questo assetto, che mette tutti al riparo dalle
possibili pressioni, condizionamenti e ritorsioni della dirigenza
universitaria e del mondo politico, è stata sempre attribuita
una grande importanza dal corpo accademico, che in esso vede una
garanzia per l'autonomia intellettuale e il libero esercizio della
ricerca. Con la riforma ipotizzata, il sistema salta completamente.
Innanzitutto alle cattedre si accede tramite un concorso nazionale:
si metteranno in palio tanti posti quanti sono quelli richiesti
dalle varie università aumentati del 20 per cento. Dov'è
la stranezza? Nel fatto che anche se si vince il concorso non si
ha il posto assicurato. Il suo superamento somiglia più che
altro ad una specie di abilitazione all'insegnamento: le varie facoltà
saranno infatti lasciate libere di chiamare o meno i vincitori del
concorso. Se la chiamata non dovesse arrivare, questa abilitazione
resterà valida per un certo numero di anni (tre o cinque,
sul punto si discute ancora), poi perderà il suo valore.
E a quel punto gli aspiranti professori che vorranno rimanere in
corsa dovranno partecipare a un nuovo concorso.
Se invece le facoltà decidessero di
chiamare qualcuno degli "abilitati", il fortunato potrà
certo gioire, ma non quanto si potrebbe pensare. La sua assunzione
sarà infatti provvisoria, visto che le università
faranno contratti a tempo determinato, rinnovabili fino a un massimo
di sei, dieci anni. Dopodiché possono, se lo ritengono meritevole
e all'altezza, assumere a tempo indeterminato il docente. Oppure,
se non lo ritengono idoneo e capace, lasciarlo con un pugno di mosche
in mano. Cosa farà a questo punto lo sfortunato prof? Dovrà
uscire dall'università, cercando consolazione nei titoli
preferenziali acquisiti per il lavoro svolto, e che lo Stato gli
riconoscerà per insegnare nelle scuole medie superiori o
inserirsi nel pubblico impiego.
Una magra consolazione, cui si aggiunge un
altro aspetto curioso. Sommando i periodi di provvisorietà
del posto legati ai contratti a tempo determinato stipulabili dalle
università per i diversi gradi di carriera e funzioni (ricercatori,
professori associati, ordinari), si arriva a oltre 15 anni di precarietà,
quasi la metà della vita professionale di un docente. Un'autentica
via crucis.
Di pari passo con la flessibilità dell'impiego,
marciano i nuovi orari di insegnamento da svolgere e il nuovo sistema
retributivo. Per quanto riguarda i primi, attualmente i docenti
possono scegliere tra il tempo pieno (350 ore) e il tempo definito
(250) che, ovviamente, hanno un trattamento economico differente.
Con la riforma, viene introdotto il tempo definito per tutti. Quanto
ai compensi, saranno imperniati su un doppio canale retributivo.
Ci sarà una parte fissa, uguale per tutti e stabilita a livello
nazionale. E una parte variabile legata alla "produttività"
individuale, cioè ai corsi aggiuntivi che i docenti potranno
fare a livello locale, accordandosi con le università di
appartenenza. Con un'ulteriore innovazione: la libertà lasciata
ai docenti di fare altro, consulenze e prestazioni professionali,
fuori dagli atenei.
Fine della rivoluzione? Macché. La riforma
morattiana stabilisce anche un nuovo tetto per l'età pensionabile,
fissato a 70 anni. E riconosce alle università il diritto
di chiamare all'insegnamento professionisti e personalità
esterne al mondo accademico, stipulando con loro contratti fino
a sei anni. Inoltre sopprime un mito del nostro sistema universitario,
quel Consiglio universitario nazionale (Cun) considerato dalla comunità
scientifica un vero organo di autogoverno (è interamente
composto da professori), visto che al suo vaglio i ministri hanno
sempre dovuto sottoporre tutti i loro provvedimenti, istituzione
di nuove università e cattedre comprese. Verrà rimpiazzato
da un Consiglio scientifico nazionale (Csn) la cui sezione universitaria
sarà, guarda caso, solo per metà composta da professori
universitari. E il resto appannaggio di esperti di nomina ministeriale.
Un altro escamotage per mettere la mordacchia
all'autonomia dei professori? Dal fronte sindacale non hanno dubbi:
«Se questi sono i progetti della Moratti, siamo di fronte
ad un pesantissimo attacco», commenta Valerio Marco Broccati,
segretario generale della Cgil università. Che ha da ridire
praticamente su tutto: «Mi sembra evidente che si miri ad
introdurre un modello di organizzazione privatistica che snaturerebbe
la natura pubblica e la missione istituzionale dell'università.
I contratti a tempo determinato», aggiunge, «introducono
infatti una precarizzazione dei posti di lavoro inaccettabile: l'inamovibilità
è sempre stata una garanzia per l'autonomia intellettuale
dei professori. Abolendola, si creano le premesse per l'instaurazione
di un pericoloso controllo delle attività accademiche da
parte del potere politico. Davanti a questi pericoli», annuncia
Broccati, «siamo pronti a chiamare alla mobilitazione tutto
il mondo universitario».
|