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articolo tratto da "l'Espresso" del 7 novembre 2002
 
università / il disegno di legge segreto
Scacco matto ai prof

 

 

 

di Primo Di Nicola, L'Espresso

Concorsi che non garantiscono un posto di lavoro. Incarichi a termine. E il rischio di pressioni politiche. È la riforma Moratti

Fine del posto sicuro e della cattedra a vita. Per gli aspiranti professori che vorranno accedere agli atenei, mantenere l'incarico e progredire nella carriera, gli esami non finiranno mai. Dovranno rassegnarsi a convivere all'interno di un mondo accademico ridisegnato all'insegna di una nuova parola d'ordine: flessibilità. Il trattamento economico? Sarà sempre più legato alla produttività. L'autonomia intellettuale e di ricerca? Sempre più esposta ai rischi di condizionamenti esterni.

È allarme rosso sulle ipotesi allo studio per la riforma dello stato giuridico dei professori. Il timore è che anche negli atenei si apra la strada dell'epurazione inaugurata dalla Casa delle Libertà con lo spoils system nei piani alti della dirigenza statale. Un'esagerazione? Di certo c'è che sul tavolo del ministro per l'Istruzione Letizia Moratti è pronto un disegno di legge che preannuncia un autentico terremoto nelle università. E che rischia di provocare una sollevazione sindacale nel mondo accademico. Il ministro ha fatto calare il silenzio sul documento, imponendo a tutti i suoi collaboratori la massima segretezza. Persino le commissioni parlamentari competenti, nonostante le richieste d'informazione ne ignorano il contenuto. "L'espresso" è riuscito a leggerlo ed è in grado di anticiparne i contenuti.

Il disegno di legge, messo a punto dallo staff del ministro con il supporto di una titolata commissione di consulenti coordinati dal rettore del Politecnico di Milano Adriano De Maio, nella sua ultima versione è composto da cinque articoli, il primo dei quali contiene tutte le norme destinate a introdurre nelle università la rivoluzione morattiana. Innanzitutto, si decreta la fine del sistema di reclutamento basato sul ruolo, che attualmente garantisce la stabilità dell'incarico a tutto il corpo docente, ricercatori e professori, associati e ordinari che siano. Oggi, infatti, una volta vinto il concorso per l'accesso ai diversi gradi della carriera, la cattedra e l'inamovibilità sono assicurate. A questo assetto, che mette tutti al riparo dalle possibili pressioni, condizionamenti e ritorsioni della dirigenza universitaria e del mondo politico, è stata sempre attribuita una grande importanza dal corpo accademico, che in esso vede una garanzia per l'autonomia intellettuale e il libero esercizio della ricerca. Con la riforma ipotizzata, il sistema salta completamente. Innanzitutto alle cattedre si accede tramite un concorso nazionale: si metteranno in palio tanti posti quanti sono quelli richiesti dalle varie università aumentati del 20 per cento. Dov'è la stranezza? Nel fatto che anche se si vince il concorso non si ha il posto assicurato. Il suo superamento somiglia più che altro ad una specie di abilitazione all'insegnamento: le varie facoltà saranno infatti lasciate libere di chiamare o meno i vincitori del concorso. Se la chiamata non dovesse arrivare, questa abilitazione resterà valida per un certo numero di anni (tre o cinque, sul punto si discute ancora), poi perderà il suo valore. E a quel punto gli aspiranti professori che vorranno rimanere in corsa dovranno partecipare a un nuovo concorso.

Se invece le facoltà decidessero di chiamare qualcuno degli "abilitati", il fortunato potrà certo gioire, ma non quanto si potrebbe pensare. La sua assunzione sarà infatti provvisoria, visto che le università faranno contratti a tempo determinato, rinnovabili fino a un massimo di sei, dieci anni. Dopodiché possono, se lo ritengono meritevole e all'altezza, assumere a tempo indeterminato il docente. Oppure, se non lo ritengono idoneo e capace, lasciarlo con un pugno di mosche in mano. Cosa farà a questo punto lo sfortunato prof? Dovrà uscire dall'università, cercando consolazione nei titoli preferenziali acquisiti per il lavoro svolto, e che lo Stato gli riconoscerà per insegnare nelle scuole medie superiori o inserirsi nel pubblico impiego.

Una magra consolazione, cui si aggiunge un altro aspetto curioso. Sommando i periodi di provvisorietà del posto legati ai contratti a tempo determinato stipulabili dalle università per i diversi gradi di carriera e funzioni (ricercatori, professori associati, ordinari), si arriva a oltre 15 anni di precarietà, quasi la metà della vita professionale di un docente. Un'autentica via crucis.

Di pari passo con la flessibilità dell'impiego, marciano i nuovi orari di insegnamento da svolgere e il nuovo sistema retributivo. Per quanto riguarda i primi, attualmente i docenti possono scegliere tra il tempo pieno (350 ore) e il tempo definito (250) che, ovviamente, hanno un trattamento economico differente. Con la riforma, viene introdotto il tempo definito per tutti. Quanto ai compensi, saranno imperniati su un doppio canale retributivo. Ci sarà una parte fissa, uguale per tutti e stabilita a livello nazionale. E una parte variabile legata alla "produttività" individuale, cioè ai corsi aggiuntivi che i docenti potranno fare a livello locale, accordandosi con le università di appartenenza. Con un'ulteriore innovazione: la libertà lasciata ai docenti di fare altro, consulenze e prestazioni professionali, fuori dagli atenei.

Fine della rivoluzione? Macché. La riforma morattiana stabilisce anche un nuovo tetto per l'età pensionabile, fissato a 70 anni. E riconosce alle università il diritto di chiamare all'insegnamento professionisti e personalità esterne al mondo accademico, stipulando con loro contratti fino a sei anni. Inoltre sopprime un mito del nostro sistema universitario, quel Consiglio universitario nazionale (Cun) considerato dalla comunità scientifica un vero organo di autogoverno (è interamente composto da professori), visto che al suo vaglio i ministri hanno sempre dovuto sottoporre tutti i loro provvedimenti, istituzione di nuove università e cattedre comprese. Verrà rimpiazzato da un Consiglio scientifico nazionale (Csn) la cui sezione universitaria sarà, guarda caso, solo per metà composta da professori universitari. E il resto appannaggio di esperti di nomina ministeriale.

Un altro escamotage per mettere la mordacchia all'autonomia dei professori? Dal fronte sindacale non hanno dubbi: «Se questi sono i progetti della Moratti, siamo di fronte ad un pesantissimo attacco», commenta Valerio Marco Broccati, segretario generale della Cgil università. Che ha da ridire praticamente su tutto: «Mi sembra evidente che si miri ad introdurre un modello di organizzazione privatistica che snaturerebbe la natura pubblica e la missione istituzionale dell'università. I contratti a tempo determinato», aggiunge, «introducono infatti una precarizzazione dei posti di lavoro inaccettabile: l'inamovibilità è sempre stata una garanzia per l'autonomia intellettuale dei professori. Abolendola, si creano le premesse per l'instaurazione di un pericoloso controllo delle attività accademiche da parte del potere politico. Davanti a questi pericoli», annuncia Broccati, «siamo pronti a chiamare alla mobilitazione tutto il mondo universitario».



  tratto da "l'Espresso" del 7 novembre 2002
 

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