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di
Franco Giustolisi e Marco Lillo
Società con presunti uomini d'onore e usurai. Consulenze
ricevute dai Comuni in odore di mafia. E poi l'ascesa ai vertici
di Forza Italia. Berlusconi? «Per me è come Cavour»
Quando, dopo una settimana di nottate, blitz e tranelli ha portato
a casa l'approvazione della legge sul legittimo sospetto, Renato
Schifani ha sottolineato con il consueto senso delle istituzioni
la sua vittoria sull'Ulivo: «Li abbiamo fregati». Il
capo dei senatori forzisti è fatto così. «È
la mia chiarezza che dà fastidio alla sinistra», ha
detto a un settimanale che gli ha dedicato un editoriale lodando
«lo stile Schifani». Questo avvocato di 52 anni, nonostante
il riporto e gli occhiali da archivista, è l'uomo prescelto
da Silvio Berlusconi come volto ufficiale di Forza Italia. E lui
lo ripaga come può. In un articolo sul "Giornale di
Sicilia" dal titolo "Cavour e il conflitto di interessi"
afferma che anche lo statista piemontese era «in potenziale
macroscopico conflitto di interessi perché aveva il giornale
"Il Risorgimento", partecipazioni bancarie, grandi proprietà
terriere e un'intensa attività affaristica». Proprio
come Berlusconi, insomma, eppure nessuno gli disse nulla. Peccato
che, come scrive Rosario Romeo a pagina 451 della sua biografia,
Cavour appena diventò ministro «decise in primo luogo
di liquidare gli affari nei quali era stato attivo fino ad allora».
Ma Schifani per amore del capo è disposto a sfidare anche
il ridicolo. Come quando si fa riprendere in tv accanto al santino
del leader neanche fosse Padre Pio. Avvocato civilista e amministrativista,
52 anni, sposato e padre di due figli, amante delle isole Egadi,
è stato eletto nel collegio di Corleone, cuore di quella
Sicilia che ha dato il cento per cento degli eletti a Forza Italia.
Per descrivere l'eroe del legittimo sospetto, l'uomo che ha scavato
nottetempo la via di fuga dal processo milanese per Berlusconi e
Previti, si potrebbe partire dalle sue radici democristiane. Ma
applicando alla lettera il suo credo, «non bisogna usare il
politichese ma parlare con serenità il linguaggio dell'uomo
comune», sarà meglio partire da una constatazione:
il capo dei senatori di Forza Italia è stato socio di affari
(leciti) con presunti usurai e mafiosi.
Sua eccellenza Filippo Mancuso, solitamente
bene informato, ha definito così il suo ex compagno di partito:
«Un avvocato del foro di Palermo specializzato in recupero
crediti». Schifani gli ha risposto con una lettera in cui
difende la sua «onesta e onorata carriera» e nega di
avere mai svolto una simile attività. Negli archivi della
Camera di commercio di Palermo risulta però una società,
oggi inattiva, costituita nel 1992 da Schifani con Antonio Mengano
e Antonino Garofalo: la Gms. L'avvocato Antonino Garofalo (socio
accomandante come Schifani) è stato arrestato nel 1997 e
poi rinviato a giudizio per usura ed estorsione nell'ambito di indagini
condotte dal sostituto Gaetano Paci della Procura di Palermo. L'ex
socio di Schifani è ritenuto il capo di un'organizzazione
che prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi del
240 per cento. Schifani non è stato coinvolto nelle indagini
ma certo non deve essere piacevole scoprire di essere stato socio
con un presunto usuraio in un'impresa che come oggetto sociale non
disdegnava: «L'attività esattoriale per conto terzi
di recupero crediti e l'attività di assistenza nell'istruttoria
delle pratiche di finanziamento...».
Schifani è stato sempre sfortunato nella
scelta dei compagni delle sue imprese. In un rapporto dei carabinieri
del nucleo di Palermo, di cui "L'Espresso" è in
grado di rivelare i contenuti, si ricostruisce la storia di un'altra
strana società di cui il capogruppo di Forza Italia è
stato socio e amministratore per poco più di un anno. Si
chiama Sicula Brokers, fu istituita nel 1979 e oggi ha cambiato
compagine azionaria. Tra i soci fondatori, accanto a un'assicurazione
del nord, c'erano Renato Schifani e il ministro degli Affari regionali
Enrico La Loggia, nonché soggetti come Benny D'Agostino,
Giuseppe Lombardo e Nino Mandalà. Nomi che a Palermo indicano
quella zona grigia in cui impresa, politica e mafia si confondono.
Benny D'agostino è un imprenditore condannato per concorso
esterno in associazione mafiosa e, negli anni in cui era socio di
Schifani e La Loggia, frequentava il gotha di Cosa Nostra. Lo ha
ammesso lui stesso al processo Andreotti quando ha raccontato un
viaggio memorabile sulla sua Ferrari da Napoli a Roma assieme a
Michele Greco, il papa della mafia.
Giuseppe Lombardo invece è stato amministratore
delle società dei cugini Ignazio e Nino Salvo, i famosi esattori
di Cosa Nostra arrestati da Falcone nel lontano 1984 e condannati
in qualità di capimafia della famiglia di Salemi. Nino Mandalà,
infine, è stato arrestato nel 1998 ed è attualmente
sotto processo per mafia a Palermo. Questo ex socio di Schifani
e La Loggia era il presidente del circolo di Forza Italia di Villabate,
un paese vicino a Palermo e proprio di politica parlava nel 1998
con il suo amico Simone Castello, colonnello del boss Bernardo Provenzano
mentre a sua insaputa i carabinieri lo intercettavano. Mandalà
riferiva a Castello l'esito di un burrascoso incontro con il ministro
Enrico La Loggia, allora capo dei senatori di Forza Italia. Mandalà
era infuriato per non avere ricevuto una telefonata di solidarietà
dopo l'arresto del figlio (poi scagionato per un omicidio di mafia).
E così raccontava di avere chiuso il suo colloquio con La
Loggia: «Siccome io sono mafioso ed è mafioso anche
tuo padre che io me lo ricordo quando con lui andavo a cercargli
i voti da Turiddu Malta che era il capomafia di Vallelunga. Lo posso
sempre dire che tuo padre era mafioso. A quel punto lui si è
messo a piangere». La Loggia ha ammesso l'incontro ma ne ha
raccontato una versione ben diversa. E anche Mandalà al processo
ha parlato di millanteria. Nella stessa conversazione intercettata
Mandalà parlava di Schifani in questi termini: «Era
esperto a 54 milioni all'anno, qua al comune di Villabate, che me
lo ha mandato il senatore La Loggia».
Schifani è stato sentito dalla Procura
e, senza falsa modestia ha spiegato con la sua bravura la consulenza
e lo stipendio: «Il mio studio è uno dei più
accreditati in campo urbanistico in Sicilia». Ma per La Loggia
sotto sotto c'era una raccomandazione: «Parlai di Schifani
con Gianfranco Micciché (coordinatore di Forza Italia in
Sicilia) e dissi: sta sprecando un sacco di tempo e quindi avrà
dei mancati guadagni facendo politica. Vivendo lui della professione
di avvocato dico se fosse possibile fargli trovare una consulenza.
È un modo per dirgli grazie. E allora parlammo con il sindaco
Navetta». Il sindaco Navetta è il nipote di Mandalà
e il suo comune è stato sciolto per mafia nel 1998.
Il capogruppo di Forza Italia è stato
sfortunato anche nella scelta dei suoi assistiti. Proprio un suo
ex cliente recentemente ne ha fatto il nome in tribunale. La scena
è questa: Innocenzo Lo Sicco, un mafioso pentito, il 26 gennaio
del 2000 entra in manette in aula a Palermo e viene interrogato
sulla vicenda di un palazzo molto noto in città, quello di
Piazza Leoni. Le sue parole fanno balenare pesanti sospetti: «L'avvocato
Schifani ebbe a dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo
ed era riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo entrare
in sanatoria durante il governo Berlusconi perché, così
mi disse, fecero una sanatoria e lui era riuscito a farla pennellare
sull'esigenza di quegli edifici. Era soddisfattissimo. Perché
lo diceva a me? Ma perché io lo avevo messo a conoscenza
di qual era la situazione, l'iter, le modalità del rilascio
della concessione...».
La Procura dopo aver analizzato le parole del
pentito non ha aperto alcun fascicolo per la genericità del
racconto. Comunque la storia di questo palazzo, scoperta dal giornalista
de "la Repubblica" Enrico Bellavia, è tutta da
raccontare. Comincia alla fine degli anni Ottanta quando Pietro
Lo Sicco, imprenditore finanziato dalla mafia e zio di Innocenzo,
mette gli occhi su un terreno a due passi dal parco della Favorita,
una delle zone più pregiate di Palermo. Lo Sicco vuole costruirci
un palazzo di undici piani ma prima bisogna eliminare due casette
basse che appartengono a due sorelle sarde, Savina e Maria Rosa
Pilliu, che non vogliono svendere. Pietro Lo Sicco le minaccia e
le sorelle si rivolgono alla polizia. Ma la mafia è più
lesta della legge: Lo Sicco ottiene la concessione edilizia grazie
a una mazzetta di 25 milioni di lire e comincia ad abbattere l'appartamento
a fianco. Quando le sorelle vedono avvicinarsi il bulldozer cominciano
ad arrivare nel loro negozio i fusti di cemento. Il messaggio è
chiaro: finirete lì dentro. Lo Sicco smentisce di essere
il mandante ma la Procura offre alle Pilliu il programma di protezione.
Oggi le sorelle sono un simbolo dell'antimafia: vivono proprio nel
palazzo costruito da Lo Sicco e confiscato dallo Stato. Il costruttore
è stato condannato a 2 anni e otto mesi per truffa e corruzione
a cui si sono aggiunti sette anni per mafia.
All'inaugurazione del nuovo negozio costruito
grazie al fondo antiracket, il senatore Schifani non c'era. Era
dall'altra parte in questa vicenda. Il suo studio ha difeso l'impresa
Lo Sicco davanti al Tar. Il pentito Innocenzo Lo Sicco, ha raccontato
che lui stesso accompagnava l'avvocato Schifani negli uffici per
seguire la pratica. Certo all'epoca l'imprenditore non era stato
inquisito e il senatore non poteva sapere con chi aveva a che fare
anche se il genero di Lo Sicco era sparito nel 1991 per lupara bianca.
In quegli stessi anni Schifani assisteva anche altri imprenditori
che sono incappati nelle confische per mafia, come Domenico Federico,
prestanome di Giovanni Bontate, fratello del vecchio capo della
cupola Stefano. Un settore quello delle confische che il senatore
non ha dimenticato in Parlamento. Quando ha presentato un progetto
di legge (il numero 600) per modificare la legge sulle confische
e sui sequestri.
ha collaborato Giuseppe Lo
Bianco
L'Espresso, 13.08.2002 |