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articolo tratto da La Repubblica, 1 maggio 2003
 
la disperazione eversiva del cavaliere

 

 

 

di Ezio Mauro

LA DISPERAZIONE che stringe alla gola Silvio Berlusconi lo ha portato ieri, poco dopo la condanna di Cesare Previti ad 11 anni per corruzione di magistrati, a compiere un atto apertamente eversivo. Una dichiarazione politica che accusa i magistrati di golpismo, denuncia una trama che vuole rovesciare il governo per via giudiziaria e proclama una ribellione contro la sentenza di Milano: schierando così il Primo Ministro italiano dalla parte dei corruttori condannati e contro i Tribunali della Repubblica, avvertendoli: adesso ripristinerò il sistema di immunità e risolverò la politicizzazione della magistratura.

Tutto questo è accaduto mentre i giornali e le agenzie straniere diffondevano nel mondo la notizia che "uno stretto amico e alleato del primo ministro italiano Silvio Berlusconi è stato condannato per corruzione di magistrati in due battaglie di corporate takeover". Nel Paese rovesciato in cui viviamo, il Capo del governo non sta dalla parte della giustizia, amministrata dai Tribunali per conto dello Stato e nel nome del popolo italiano, ma sta a fianco dei condannati che hanno violato la legge con un reato gravissimo, deformando insieme, con la loro condotta, la giurisdizione dello Stato e la democrazia economica. Che sia l'impudenza del potere, a dettare questi comportamenti, o la disperazione della politica, poco importa ai cittadini. È un gesto gravissimo, prima di tutto perché travolge la separazione e l'equilibrio tra i poteri dello Stato, con il giudiziario pesantemente e apertamente minacciato dall'esecutivo subito dopo una sentenza, attraverso la ritorsione immediata ed esplicita del presidente del Consiglio.

E infatti ieri si sono mossi tutti i membri togati del Csm, per difendere i giudici di Milano dagli attacchi del premier, mentre il vicepresidente Rognoni - immaginiamo dopo una consultazione con Ciampi, che non potrà non intervenire personalmente - ha denunciato la delegittimazione dell'attività giudiziaria, attraverso una contrapposizione "patologica" tra i poteri.

Ma c'è a nostro parere un limite in più, anche nel mondo senza limiti del berlusconismo, che è stato violato in queste ore, e riguarda l'autonomia dello Stato, la separazione tra la cosa pubblica e i destini individuali dei governanti pro tempore.

In un gesto inconsulto e tuttavia per lui inevitabile e naturale, il Capo del governo ha trascinato il nostro Stato dalla parte dei malfattori, in un sentimento istintivo di arditismo verbale e di sacrilegio democratico che rovescia i parametri e le norme su cui si regge la convivenza civile in uno Stato moderno. È qualcosa di eversivo, una sorta di congiura dei dannati che affonda la sua forza nel peggio, esaltando il disordine, la devianza e la licenza come elementi creatori di un nuovo ordine, contro ogni maestà delle istituzioni, ogni autorità dei valori, ogni rispetto delle regole. Un impasto di istinto cieco di sopravvivenza, quasi rivoluzionario, e di una cultura politica terribile che ricorda quell'"empia audacia" di cui parlava negli Anni '30 Roger Caillois e che speravamo di non dover vedere mai all'opera in Italia: "Chi vuole comandare gli uomini deve aver sconfitto gli dei, e non con la preghiera ma con la forza".
Perché "nulla rende sacro come un grande sacrilegio, come la violazione solenne degli interdetti che sospende il castigo" e pone il sacrilego "al di sopra dei comuni mortali, votandolo ad una fatalità regale".


La destra che governa l'Italia è dunque fatta con l'impasto della peggior destra, e oggi ne sta dando prova. Berlusconi tenta addirittura una rilettura tecnicamente rivoluzionaria degli ultimi dieci anni italiani, immaginando una congiura giustizialista nata nell'aprile del 1993, e collegando se stesso a Bettino Craxi come vittime di un golpismo organizzato dai "comunisti" diessini, dal "partito giustizialista" e naturalmente da Repubblica, la sua ossessione. Eugenio Scalfari e i suoi articoli del '93 sono usati come i pifferai magici di un'operazione antidemocratica che secondo Berlusconi dura tuttora e punta a scalzare il suo governo. L'attacco a Repubblica e al suo fondatore non stupisce. Nell'afasia italiana, e di fronte all'egemonia culturale del Caf allora, del Polo oggi, questo giornale rappresenta semplicemente un'idea diversa dell'Italia, un'idea non riducibile al berlusconismo, una difesa dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche. Per questo Berlusconi lo mette al centro di un disegno costruito dalla sua disperazione, che assegna al Cavaliere il ruolo rivoluzionario di unica forza sana, sempre vincente, sempre con il favore del popolo (e per questo si tace accuratamente la sconfitta del '96 da parte di Romano Prodi), costretto a combattere ieri come oggi contro i golpisti che vogliono fermarlo. Uno schema che sarebbe ridicolo, e folle, se non fosse l'incubazione di un progetto di ribellione organizzata davanti al corso istituzionale degli eventi. La formula è inedita e terribile: la definirei una specie di "ribellione della maggioranza", impaurita e spaventosa insieme, pronta a tutto pur di mantenere il potere.

Vorrei dire che non è un caso se questo accade sul terreno della giustizia, che è il cerchio magico del mistero berlusconiano, e attorno alla figura prima onnipotente e ormai politicamente maledetta di Cesare Previti, che è lo stregone custode di quel mistero. Uno stregone che ha celebrato in pubblico per anni il rito di un potere basato sulla licenza e sugli eccessi e che oggi vede il fuoco del suo sortilegio ormai spento, ma con fumi e ceneri di cui lui e il Cavaliere conoscono bene significati occulti e potenza palese.

Il caso del "lodo" è esemplare, quanto a sortilegi, perché parla da solo: con una provvigione di denaro occulto che parte dai conti esteri intestati alla Fininvest, Previti organizzò un sistema di corruzione che portò nel '91 la Corte d'Appello di Roma ad annullare un lodo arbitrale in base al quale il controllo della Mondadori era stato assegnato alla Cir di Carlo De Benedetti. Quella sentenza è stata pilotata, quel pronunciamento è stato comprato, quella battaglia imprenditoriale è stata vinta illegalmente, con la frode e attraverso la corruzione.

Silvio Berlusconi, padrone della Fininvest, era imputato insieme con le persone ieri condannate, ed è uscito dalla vicenda giudiziaria grazie alla prescrizione. Dunque penalmente è al riparo. Ma la provvista di soldi per la corruzione dei magistrati, in modo da piegare la sentenza a favore della Fininvest, secondo il Tribunale di Milano viene dalla All Iberian, il cui beneficiario era proprio il Gruppo Fininvest. E il risultato della sentenza pilotata e comprata, cioè la sua ricaduta imprenditoriale, economica, editoriale, di potere, è andato a indubbio ed esclusivo vantaggio di Silvio Berlusconi. Queste due circostanze accertate da un Tribunale della Repubblica avrebbero dovuto consigliare da sole, per decenza e per prudenza, all'imprenditore Berlusconi di tacere. Quanto al presidente del Consiglio Berlusconi, lui no, lui doveva parlare, ma per dire il contrario di quanto ha detto. Per testimoniare il suo imbarazzo agli italiani, per spiegare magari balbettando, ma con parole finalmente sincere, ciò che può spiegare di una storia scandalosa, per chiedere scusa, per prendere le distanze da Previti se può farlo, per assicurare infine che scendendo in politica ha abbandonato per sempre quei metodi: e dunque si augura nell'interesse della giustizia e per sua personale trasparenza, che la giustizia vada avanti celermente in appello, e componga una triste vicenda.

Tutto ciò Berlusconi non lo farà mai, e c'è una ragione. Perché questa sentenza, dimostrando e condannando la forma fraudolenta con cui fu ottenuta la proprietà di una grande azienda, colpisce al cuore l'identità imprenditoriale di Berlusconi, quella sovrastruttura pre-politica attraverso la quale il Cavaliere è potuto scendere in campo e conquistare una parte rilevante del suo consenso: presentandosi cioè come l'imprenditore puro, capace di rimettere in piedi l'Italia e i suoi conti dopo aver creato e conquistato aziende, spazzato via i concorrenti, dominato il campo con la sua purissima energia industriale. Solo che quell'identità imprenditoriale risulta oggi bacata, minata alla base. E dunque, il presidente-imprenditore deve fare i conti con quel sistema di corruzione a cui la Fininvest ha concorso e da cui ha tratto beneficio, e che lui non poteva naturalmente non conoscere, come dimostra anche lo strettissimo legame, l'amicizia personale che lo lega a Cesare Previti.

E da qui, nasce un'altra domanda. Conoscendo quel che conosceva, sapendo ciò che era successo e che il Tribunale adesso ha sanzionato, come ha potuto Silvio Berlusconi, l'uomo che è sceso in campo perché "ama il suo Paese", pensare nel '94 di proporre proprio Previti come ministro Guardasigilli, cioè alla testa della giustizia italiana?

Sono queste le domande a cui Berlusconi non potrà mai rispondere: né sulle piazze, né sui giornali, neppure a "Porta a Porta". Piuttosto, parla di persecuzione, di giudici politicizzati. Ma questo processo riguarda reati tutti commessi ben prima che il Cavaliere scendesse in campo, dunque la politica non c'entra. Quanto alla persecuzione, il lodo Mondadori è del '91, la sentenza che riconosce la corruzione arriva oggi, dodici anni dopo, al termine di 6 anni di inchiesta e ben 3 di pubblico processo, durante il quale la difesa ha potuto giocare tutte le carte giudiziarie e anche molte extragiudiziarie. Per la prima volta nella storia della Repubblica sono state costruite norme ad personam, provvedimenti ad hoc, si è cioè deformata la giurisdizione, sono stati manomessi alcuni istituti, si è intervenuti su trattati internazionali per costruire appositamente e fisicamente una qualsivoglia forma di salvacondotto. Questo processo è diventato qualcosa di improprio, con il governo, la maggioranza parlamentare, il presidente del Consiglio che alzavano quotidianamente la loro ombra dietro la figura dell'imputato Previti, pronti a trasformare in legge nelle Camere le tesi che i difensori avanzavano in aula, appena il Tribunale le respingeva.

Il sistema di garanzie è stato dunque dispiegato pienamente, e certo in misura enormemente superiore a quanto avviene per un normale cittadino. Ad un certo punto, abbiamo vissuto il paradosso drammatico in cui lo Stato era schierato e in forma gladiatoria con un imputato, nell'aula in cui un Tribunale doveva amministrare la giustizia per conto dello Stato. Non sono mancate le intimidazioni, le accuse gravissime ai magistrati. Che però hanno portato il loro compito fissato dalla legge fino alla fine.

Questo è ciò che conta, in uno Stato di diritto. Voglio dirlo con chiarezza ai lettori. Nel caso del "lodo", com'è noto, il gruppo editoriale Espresso-Repubblica subì un danno rilevantissimo, perché fu spogliato fraudolentemente del possesso della Mondadori. Ma nel giudizio che oggi diamo della vicenda, più della soddisfazione per il ristabilimento della verità dei fatti conta la conferma venuta da Milano che in Italia la legge è ancora uguale per tutti. Non perché c'è stata una condanna: ma perché c'è stata una sentenza, che Previti e Berlusconi hanno fatto di tutto per evitare e scongiurare, costruendo una sorta di immunità politica con le loro mani, che avrebbe colpito a morte lo Stato di diritto.

Ora, regolato il caso giudiziario, resta aperto il caso morale e politico. Non ci interessa nessuna speculazione, basta la verità: e avanza. La lezione è chiara. Saperla leggere tocca a Berlusconi, è affar suo, e la ferocia della reazione di ieri dimostra che ha capito per chi suona la campana. Qualcuno dovrà fermarlo, consigliandogli di interrompere questo duello eterno col paese che dovrebbe invece governare. È facile prevedere, al contrario, che il Cavaliere finirà prigioniero dell'incendio istituzionale che ha appiccato. E purtroppo, trascinerà lo Stato dentro quel cerchio previtiano di fuoco che lo circonda in eterno.

   

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