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articolo tratto dal "Diario della settimana".

Pubblichiamo in questa pagina la prima parte dell'articolo. Per continuare nella lettura, cliccate sul link che compare alla fine.


 

 

 








 
l'onore di Mangano, detto "lo stalliere"

 

 

 

di Enrico Deaglio

Storia di un ragazzo che emigrò da Palermo a Milano.
E che protesse, a modo suo, un giovane signore

Vittorio Mangano è morto giovane, neanche 60 anni. Ed è morto male. Carcerato da cinque anni, giallo come un limone per un tumore che gli aveva invaso il fegato, aveva 18 litri di acqua nella pancia l'ultima volta che gliela siringarono. All'inizio di luglio dell'anno scorso, viene trasportato dalla sezione di massima sicurezza di Secondigliano a casa, in via Petralia Sottana, Palermo. I funerali hanno seguito un costume in voga tanto a Palermo quanto nel New Jersey quando il defunto è accomunato a Cosa nostra. "Via i fotografi, rispettate il nostro dolore", intima la famiglia. "Fotografate tutti, con discrezione", dà ordine il magistrato. Poche persone, abitanti del quartiere, sono intervenute per l'ultimo saluto nella Chiesa di San Gabriele, quartiere Villa Tasca, i luoghi in cui Mangano aveva abitato e in cui, per diversi anni, aveva esercitato il "controllo".
Era il 23 luglio del 2000 e i giornali non diedero tanto spazio alla sua morte. D'accordo, era un boss ed era stato lo "stalliere" di Arcore. Ma non era un super boss, ed era sempre stato un tipo discreto.

Non tutti i giornali, a dire il vero. La stampa controllata dal gruppo Berlusconi dedicò a Vittorio Mangano articoli commossi: era morto un martire, torturato dallo Stato con la carcerazione dura, era morto un uomo che aveva rifiutato di "barattare la dignità con la libertà". Il Giornale, il Foglio, Panorama - tutti ispirati dalla penna del giornalista Lino Jannuzzi - erano concordi: Vittorio Mangano aveva affrontato il carcere con la potente serenità di un eroe risorgimentale. Che cosa chiedevano i suoi torturatori? Che denunciasse, ai magistrati comunisti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Se l'avesse fatto, sarebbe stato libero e avrebbe potuto curarsi, ma lui non lo fece. Un eroe popolare, come il partigiano musicato nel "Ma mi, ma mi, ma mi quaranta dì, quaranta nott" da Giorgio Strehler. Gli stessi giornali del gruppo Berlusconi facevano notare che, nonostante condanne all'ergastolo per tre omicidi, traffico di stupefacenti, associazione mafiosa, estorsione, Vittorio Mangano non era un condannato definitivo, e quindi, un "presunto innocente".

Mi sono chiesto perché non lo avessero detto prima, ma forse l'avevano detto e mi era sfuggito. Ma, ragionando, mi sembra che la task force berlusconiana abbia avuto ragione nel tributare onori all'uomo d'onore. Vittorio Mangano, se (sotto tortura o sotto promessa) avesse parlato, sarebbe stato in grado di mettere nei guai tanta gente importante. Ma ora la storia era finita. E, come dicono a Palermo, "quando uno muore bisogna pensare ai vivi". Mi auguro che abbiano pensato alla famiglia Mangano.

Tutta questa vicenda è diventata ora, in campagna elettorale, argomento scottante, da quando la Rai ha trasmesso una dimenticata intervista al magistrato di Palermo Paolo Borsellino. L'aveva registrata il giornalista francese Fabrizio Calvi, nell'ambito di un'inchiesta sui "padrini" europei. Era il 1992, Paolo Borsellino appariva rilassato e non aveva difficoltà a parlare diffusamente della mafia, della sua ascesa a Milano, di Vittorio Mangano, Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi, i primi due all'epoca personaggi sconosciuti al grande pubblico, il terzo invece noto per essere il magnate delle televisioni private. Disse che erano persone che gli erano note dalle segnalazioni di polizia, e su cui era in corso un'indagine a Palermo. Parlava tranquillamente, il magistrato; senza pompa, vestito con una maglietta, raccontava di traffici di droga e della strategia imprenditoriale della mafia siciliana. Non immaginava che due giorni dopo il suo amico Giovanni Falcone sarebbe saltato in aria; che lui ne avrebbe raccolto l'eredità, e che lui stesso sarebbe saltato in aria 50 giorni dopo. E non sapeva neppure, il giudice Paolo Borsellino, che un caro amico di Vittorio Mangano, l'imprenditore Salvatore Sbeglia, stava proprio in quelle ore mettendo a punto il telecomando con il quale sarebbe stato fatto saltare Giovanni Falcone.

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