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di
Nando Dalla Chiesa
Per indebolire la lotta alla criminalità
organizzata si possono fare alcune cose. Il governo Berlusconi può
già dire: fatto!
Per indebolire la lotta alla mafia bisognava
incominciare a creare un clima più rassegnato, diciamo meno
integralista. Bisognava spiegare che la nostra economia non
può permettersi i ritardi richiesti da qualche verifica antimafia,
le strozzature imposte da qualche procedura di troppo. Ma occorreva
dirlo bene; ed evitare un intervento minimalista, volto magari a
indicare solo i lacci e i lacciuoli inutili, altrimenti che messaggio
si mandava? Meglio fare vigorosamente propria, in pubblico ovviamente,
la teoria che con la mafia si può e si deve convivere, se
no l'economia e i pubblici lavori e gli appalti e tutto il resto
ne soffrono troppo. Come non avevano compreso, vent'anni fa, Pio
La Torre e Virginio Rognoni. E questo è stato fatto.
Per indebolire la lotta alla mafia bisognava
fare capire che lo Stato non ha alcun senso di colpa verso i familiari
delle vittime; che questi ultimi non sono più circondati
da una specie di tutela morale legittimata dal loro dolore. E che
le loro parole hanno un valore esattamente uguale a quelle di qualsiasi
suddito. Dunque si scordino di testimoniare a vita: devono tacere
o le citeremo in tribunale. Come la vedova Grassi, ad esempio, che
crede di potere ancora liberamente interrogare la pubblica opinione
su quale sia, presso Cosa nostra, l'effetto del messaggio mandato
dal "ministro della convivenza". La signora ha parlato
proprio mentre riapriva temerariamente la ditta del marito. Meritava
di essere pubblicamente minacciata di querela. E questo è
stato fatto.
Per indebolire la lotta alla mafia bisognava
far capire che lo Stato non ritiene poi troppo disdicevole difendere
con i suoi rappresentanti di governo i killer mafiosi mandati a
giudizio nelle aule di Giustizia della Repubblica. E nemmeno
far vedere a una moglie, a un figlio, a una madre di un carabiniere
o poliziotto morti ammazzati da Cosa nostra o dalle organizzazioni
sorelle, che ci va il sottosegretario in persona e con tanto di
scorta a difendere il boss finito a processo. Sì, proprio
lui. E, diversamente dai familiari delle vittime, senza alcun complesso
di colpa. E questo pure è stato fatto.
Per indebolire la lotta alla mafia bisognava
poi fare capire che è finita la solfa della legalità,
andata così fastidiosamente di moda agli inizi dello scorso
decennio. Ma non bisognava solo deprecare gli eccessi prodotti
da quel clima incandescente. Se no che messaggio si manda? L'eccesso,
il vero eccesso, è stato proprio quella richiesta di legalità
tanto estranea ai nostri costumi. Dunque, adeguiamo la legge alle
nostre tradizioni. Meglio ancora se ne approfittiamo per far capire
che ogni interesse privato è sempre più legittimo
dell'interesse pubblico. L'ideale? Depenalizzare il falso in bilancio
o fare tornare praticamente gratis e in forma anonima i soldi portati
in nero in giro per il mondo. E questo è stato fatto.
Per indebolire la lotta alla mafia bisognava
poi fare capire ai magistrati che la pacchia è finita.
Che essi non possono più contare su una considerazione e
un rispetto innaffiati con il sangue dei loro colleghi uccisi. Naturalmente
non bastava stigmatizzare le singole arroganze o ricondurre i chiacchieroni
a sobrietà. Se no che messaggio sarebbe? Molto meglio, e
più diretto, far capire a tutti che ora debbono pagare e
salato- per quella fisima del "controllo di legalità"
a trecentosessanta gradi. Che essi sono degli eversori. Sappiano
ladri e assassini che chi li persegue e li giudica non è
poi infinitamente più in alto di loro nella considerazione
sociale. E anche questo è stato fatto. Per indebolire la
lotta alla mafia bisognava ancora far capire che i magistrati, conseguentemente,
non sono più protetti come una volta. Dunque, occorreva tagliare
le scorte. Ma non solo combattendo gli abusi o gli impieghi da status-symbol.
Se no che messaggio sarebbe? Occorre proprio tagliare. A tutti,
dovunque; anche se è stato appena scoperto un progetto di
attentato contro un procuratore antimafia. E al tempo stesso far
vedere che ministri, sottosegretari e loro nani e ballerine le scorte
e le macchine di servizio continuano ad averle. Così che
sia chiaro che sono proprio i magistrati a essere meno protetti
di una volta; e che lo Stato alla loro pelle ci tiene un po' di
meno. E anche questo è stato fatto.
Per indebolire la lotta alla mafia bisognava
far vedere che le autorità pubbliche nate da un decennio
di lotte e di paure, di umiliazioni e di speranze, sono considerate
a pieno titolo -né più né meno- posti di potere
da spartire, pezzi di domino nello spoil system. Ad esempio
il Commissariato contro il racket e l'usura. E occorreva mandar
via di lì il primo commerciante che ha organizzato la ribellione
contro il racket; lui con i suoi personalissimi rapporti di fiducia
con le vittime dell'usura e del pizzo mafioso. O almeno renderlo
meno autonomo e meno forte. E anche questo è stato fatto.
Per indebolire la lotta alla mafia bisognava,
infine e ovviamente, rendere molto più difficili le investigazioni
e i processi. Per esempio intervenendo sui meccanismi di formazione
delle prove. E cercando di renderli praticamente proibitivi per
chi si azzardi a mettere il naso nei conti all'estero dei padrini
e dei loro amici e protettori. Magari arrivando a rendere retroattive
tali nuove norme di procedura penale. E anche questo è stato
fatto.
Per indebolire correttamente la lotta alla
mafia bisognerebbe ora intervenire sui meccanismi della cultura,
della scuola, dell'informazione, della partecipazione religiosa;
insomma su tutte quelle attività che sono state utili a mobilitare
per la prima volta contro la mafia milioni di cittadini e di giovanissimi
in tutta Italia. Occorrerebbe mettere all'indice qualche giornalista
libero; così, per dare un segnale. Meglio se è il
più autorevole di tutti, un Enzo Biagi, ad esempio, che ha
pure raccolto in due libri le dichiarazioni del principe dei traditori,
Masino Buscetta. Oppure incominciare ad attaccare i "gargarismi
antimafia" che si fanno nelle scuole, magari partendo da un'audizione
parlamentare del ministro Moratti. Fatto anche questo. Ancora questo
è vero- non si è riusciti a montare uno scandalo contro
un prete di trincea o contro una preside troppo antimafiosa né
a impedire a qualche scrittore troppo impegnato di vincere un premio
letterario. Ma sono passati solo cento giorni e qualche cosa. Come
si dice nei graziosi quadretti che stanno dietro la scrivania di
ogni Capo, "per l'impossibile ci stiamo ancora attrezzando".
(Il Popolo, giovedì 25 ottobre 2001)
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