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tratto
da Il Nuovo
ROMA
- Un dibattimento "durato per un tempo sicuramente poco compatibile
con il dettato di cui l'art.111 della Costituzione, ma grazie al
quale al tribunale è stato concesso molto tempo per studiare
in modo capillare e approfondito, fino al giorno prima della Camera
di Consiglio, tutto l'enorme materiale processuale". Iniziano
con una lunga premessa le 620 pagine (tutte scritte fronte retro
ndr) in cui i giudici della Quarta sezione penale del Tribunale
di Milano hanno motivato la sentenza di condanna a sette degli otto
imputati al processo Imi Sir/Lodo Mondadori. Tra loro anche Cesare
Previti, condannato a 11 anni di reclusione e gli ex giudici del
Foro romano Vittorio Metta (13 anni) e Renato Squillante (8 anni).
"Lo studio (ciò
che solo conta) - scrivono ancora i giudici - di tutti questi atti
permette di sfatare una delle tante leggende che sono state da qualcuno
alimentate al di fuori dell'aula di udienza, e cioé quella
secondo la quale il procedimento in oggetto quasi consisterebbe
in una sorta di abuso processuale, non essendo basato su prove piene
e certe, ma solamente su un magmatico, indistinto e insufficiente
quadro indiziario".
La comparazione dei documenti
in atti e il loro studio, secondo i giudici, ha permesso di "arrivare
alla conclusione, basata su precise prove documentali (che vanno
ad aggiungersi a quel quadro indiziario portato dalla pubblica accusa
già di per sé avente la caratteristica di concordanza,
precisione e univocità assolute) che la causa civile Imi-Sir
fu tutta frutto di una gigantesca opera di corruzione".
E' questo il succo delle
620 pagine di motivazioni, (9 introduttive, 534 di motivazioni vere
e proprie, e 77 di allegati) pensate ed elaborate in tre mesi e
una settimana, il tempo trascorso dalla lettura del dispositivo
della sentenza Imi Sir/ Lodo Mondadori. Un documento, quello scritto
dal giudice Carfì e dai due magistrati a latere, fitto di
riferimenti a fatti e documenti esaminati nel processo. Ma i magistrati
hanno tenuto conto anche di moltissimi documenti bancari mai discussi
in aula, che, a loro dire, completano l'impianto accusatorio e inchiodano
la famiglia Rovelli e la Fininvest. L'una destinataria del maxi
risarcimento dell'Imi di 1.000 miliardi e l'altra facilitata nella
scalata al gruppo Mondadori.
I giudici parlano di "impressionanti
analogie" tra la vicenda Imi-Sir e quella Lodo Mondadori e
non mancano di usare termini come "caso di corruzione devastante"
e "degrado della giustizia, che da cieca fu trasformata in
giustizia ad uso privato". Parole dure, cui si affiancano riflessioni
durissime. Anche i magistrati, come già i pm, si scagliano
violentemente contro gli ex magistrati coinvolti nella vicenda.
"Il dibattimento Imi-Sir/Lodo principalmente è - ed
è sempre stato - un processo ad alcuni magistrati della corte
d'appello di Roma, al loro modo di concepire la funzione cui sono
stati chiamati, ai loro inconfessabili rapporti con un gruppo di
avvocati d'affari e a ciò che ne è conseguito".
Anche nel linguaggio usato
si capisce come si sia sposata l'impostazione dei pm Ilda Boccassini
e Gherardo Colombo. Ci sono, è questo il senso della motivazione,
le "prove pesanti come macigni", di cui parlò il
pm Boccassini in sede di requisitoria. E ci sono quegli elementi
documentali, fatti di contabilità bancarie, e ricostruiti
attraverso decine di rogatorie su conti esteri. Transazioni e passaggi
di denaro che le persone coinvolte avrebbero spiegato in modo "differente
e contraddittorio".
Come nel caso del versamento
effettuato nel 1991, dal conto All Iberian della Fininvest al conto
Mercier riconducibile a Cesare Previti. "In esso - scrivono
i magistrati - non può che rinvenirsi un contributo fornito
da Previti all'esito favorevole della vicenda che vedeva contrapposti
Carlo De Benedetti e la stessa Fininvest". "La somma -
spiegano i giudici - non può essere qualificata come normale
parcella in nero per le prestazioni professionali di Previti, anche
al di fuori di un regolare mandato, ma si deve ritenere una provvista
pagata dalla Fininvest di Silvio Berlusconi per regolare rapporti
di natura illecita (corruzione del giudice Metta ndr) strettamente
connessi alla causa Mondadori".
I magistrati non hanno mancato
di rimarcare il comportamento processuale degli imputati. "A
dir poco pessimo, volto a negare qualsiasi circostanza, anche la
più evidente, così dimostrando una assoluta mancanza
di un sia pur minimo 'ripensamento' della loro condotta di vita".
Comportamento che "si è concretizzato in una serie di
tentativi volti esclusivamente ad impedire lo svolgimento del processo,
strumentalmente utilizzando gli istituti previsti dal codice: una
serie infinita di ricusazioni per i più diversi motivi fin
sulla soglia della camera di consiglio".
La vicenda non è certamente
chiusa. Non è stato nenache necessario che i legali degli
imputati condannati aspettassero le motivazioni per annunciare ricorso
in appello: lo diedero per scontato, dopo la lettura del dispositivo
della sentenza, il 29 aprile scorso.
Il dato certo è che
il collegio giudicante non ha nominato, se non nella parte iniziale
del documento, il nome di Silvio Berlusconi. Lo si cita solo qualche
volta come "presidente Fininvest" e poi si lascia correre.
Del resto per la posizione del premier è ormai caduta in
prescrizione del reato in relazione alla vicenda Lodo-Mondadori,
e poi non fu mai imputato per quella Imi-Sir.
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da
Repubblica
del 6 agosto 2003
MILANO -
"Una gigantesca opera di corruzione" che dagli imputati
è stata "eletta a vero e proprio sistema di vita".
"Il più grande caso di corruzione nella storia, non
solo d'Italia", "un degrado della giustizia che da cieca
fu trasformata in giustizia ad uso privato". Parole durissime
quelle che i giudici della quarta sezione penale del tribunale di
Milano usano nelle motivazioni della sentenza con la quale, lo scorso
29 aprile, hanno condannato sei dei sette imputati, fra i quali
Cesare Previti, nel processo Lodo Mondadori - Imi-Sir.
Vediamo i passaggi salienti
delle oltre 534 pagine redatte dal tribunale presieduto da Paolo
Carfì per spiegare le condanne inflitte.
Imi-Sir: gigantesca
opera di corruzione.
Lo studio dell'enorme materiale processuale, spiegano i giudici,
ha permesso di arrivare alla conclusione che "la causa civile
Imi-Sir fu tutta frutto di una gigantesca opera di corruzione".
Precise prove documentali.
Se la sentenza è arrivata dopo due anni, 11 mesi e 88 udienze
è perché al Tribunale "è stato 'concesso'
molto tempo per studiare in modo capillare e approfondito tutto
l'enorme materiale processuale". Il problema del "ritardo"
non è stato dunque, come hanno sostenuto i legali di Previti,
che il processo si è basato "solamente su un magmatico,
indistinto e insufficiente quadro indiziario" ma su "precise
prove documentali".
Analogie con il Lodo-Mondadori.
Sempre lo studio e la comparazione degli atti ha permesso "di
constatare, pure qui con un quadro che definire gravemente indiziario
è dire poco, che anche la coeva causa Mondadori presenta
impressionanti analogie (per l'iter processuale e la presenza sempre
degli stessi protagonisti) con ciò che si è appurato
rispetto alla 'gemella' controversia Imi-Sir".
La più grande
corruzione nella storia dell'Italia Repubblicana.
Il quadro che si delinea, per il collegio, è "quello
della "più grande corruzionè nella storia dell'Italia
Repubblicana e forse anche di più, se si dovesse seguire
l'opinione di uno degli imputati di questo processo (Cesare Previti,
n.d.r).
Imparzialità
della giurisdizione.
Per i giudici "certo è che si tratta di un caso di corruzione
devastante, atteso che tocca uno dei gangli vitali di uno stato
democratico: quello della imparzialità della giurisdizione".
"Questo Tribunale - scrivono - è stato oggetto, negli
ultimi due anni in particolare, delle 'critiche' più aspre
e delle accuse più gravi - perché di questo si è
trattato - dentro e, soprattutto, fuori dall'aula, fino a quella
più infamante per un giudice: quella non poche volta propalata,
di essere non al 'servizio della legge' ma al soldo di una parte
politica".
Giustizia a uso privato.
Il dibattimento Imi-Sir/Lodo, "principalmente è - ed
è sempre stato - un processo ad alcuni magistrati della corte
d'appello di Roma, al loro modo di concepire la funzione cui sono
stati chiamati, ai loro inconfessabili rapporti con un gruppo di
"avvocati d'affari e a ciò che ne è conseguito,
fino al punto di poter parlare - in questo caso sì - di un
degrado della giustizia che da cieca fu trasformata in "giustizia
ad uso privato".
Corruzione come stile
di vita.
"Appare assolutamente evidente" come gli imputati Vittorio
Metta, Renato Squillante, Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni
Acampora "avessero eletto la corruzione in atti giudiziari
a vero e proprio sistema di vita, a metodo attraverso il quale conseguire
nel modo più facile, ma anche tra i più sordidi, quella
ricchezza materiale evidentemente mai sufficiente, ponendo la loro
professioni, le loro capacità e le loro intelligenze al servizio
ora di questo ora di quello tra i 'clienti' disposti a pagare qualsiasi
cifra pur di raggiungere il loro scopo".
Autodifesa dall'accusa
di "moralismo".
Per i giudici milanesi la condotta degli imputati non lascia dubbi.
E aggiungono: "Sarà anche 'moralismo', come sicuramente
qualcuno obietterà, ma ritiene questo collegio che nessuna
scusante possa essere addotta da imputati a cui nessuno e nulla,
nè le condizioni famigliari, nè quelle sociali, nè
quelle economiche, ha imposto di vendere in tal modo, la loro imparzialità,
correttezza e professionalita".
La versione di Previti:
inattendibile.
Sulla posizione del parlamentare di Forza Italia "pesa a suo
sfavore l'iniziale menzogna relativa alla destinazione dell'ingente
somma ricevuta nel 1994, a causa finita, dagli eredi Rovelli, inserita
in un quadro di generale presa di distanze da tutti i soggetti in
quel momento protagonisti della indagine. Una menzogna - scrivono
i giudici - che pesa ancora di più quando si vanno a valutare
le giustificazioni addotte dall'imputato allorquando, nel corso
dell'esame dibattimentale, ha rappresentato uan diversa verità
dei fatti, sempre e comunque lontana dall'accusa di corruzione".
Familiari dell'ingegner
Rovelli.
Il trattamento più favorevole per i familiari di Nino Rovelli
è determinato "non tanto per lo stato di incensuratezza,
comune a tutti gli imputati, ma più che altro in considerazione
di alcune "particolarità della loro condotta criminosa".
La vedova e il figlio di Nino Rovelli, per il collegio, hanno agito
infatti "in un certo senso 'iure ereditario', trovandosi inseriti
in un "iter criminoso già in stato di avanzata realizzazione".
"Certo, nessuno dei due - è scritto -, e in particolare
Felice Rovelli, sembra aver fatto troppa 'fatica' a trovare un accordo
con tre intermediari". "Tutto ciò - a detta dei
giudici - nella più assoluta indifferenza dei danni enormi
causati non solo alla "giustizia", ma all'intera tenuta
morale di una comunità".
Pessimo comportamento
processuale degli imputati.
A questo va aggiunto "un comportamento processuale a dir poco
pessimo, volto a negare qualsiasi circostanza, anche la più
evidente, così dimostrando una assoluta mancanza di un sia
pur minimo 'ripensamento' della loro condotta di vita". Comportamento
che "si è concretizzato in una serie di tentativi volti
esclusivamente ad impedire lo svolgimento del processo, strumentalmente
utilizzando gli istituti previsti dal codice: una serie infinita
di ricusazioni per i più diversi motivi fin sulla soglia
della camera di consiglio, la revoca del mandato ai propri difensori
nel novembre 2001 in risposta alle ordinanze di questo Tribunale
sulle rogatorie e sulle problematiche poste dalla sentenza 225/2001
della Corte Costituzionale, manovre dilatorie di ogni genere".
"Reati gravissimi -
concludono i giudici milanesi -, anche e soprattutto da un punto
di vista soggettivo; condotta processuale pessima da qualsiasi parte
la si osservi; si può ribaltare agli istanti la domanda:
su quali basi giuridiche potrebbero essere concesse le invocate
attenuanti generiche?".
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