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articolo tratto da "l'Unità" del 24.02.2002


 

 

 








 
Perchè la giustizia

 

 

 

di Furio Colombo

Ci sono temi che una aggregazione o un gruppo politico scelgono per affinità o strategia. Difendere la giustizia (i giudici, la loro autonomia, la separazione dei poteri, il libero funzionamento, il prestigio, la capacità di funzionare della magistratura senza lo sbarramento di leggi apposite) è oggi il primo impegno della democrazia italiana. E questo è ciò che hanno voluto dire quarantamila cittadini, autoconvocati al Palavobis di Milano intorno a «Micromega», a «l’Unità», a molte altre associazioni, rispondendo a una infinità di passaparola, di volontariato, di iniziative spontanee di base.

Su questo giornale abbiamo parlato di emergenza democratica. Lo abbiamo fatto non appena ci siamo resi conto degli attacchi simultanei che erano stati lanciati contro l’istituzione giudiziaria: una campagna di svilimento, accusa denuncia, ridicolo, su tutta la stampa e la tv di regime. Una legge con effetto retroattivo quella sulle rogatorie, che rende impossibile la collaborazione investigativa tra giudici di diversi Paesi. Il no italiano al mandato di cattura europeo, che ha stupito tutti i partner d’Europa e ha gettato una luce di sospetto sulla classe dirigente di questo Paese anche agli occhi di coloro che, prima, non se ne erano occupati. Il tentativo di ritardare e umiliare tutta l’attività giudiziaria, colpendo l’organo di autogoverno, riducendo il numero dei membri del Consiglio superiore della Magistratura in modo da renderne impossibile il funzionamento.

La campagna di guerra ai giudici si è aperta con la festosa irruzione in scena dell’imputato - capo partito - primo ministro Silvio Berlusconi che ha proclamato al mondo: in Italia c’è stata una guerra civile. È stata - lui dice - la guerra civile dei giudici contro la politica. Essi hanno distrutto i loro nemici e spinto al potere i propri alleati. Essi hanno dunque agito per conto di forze politiche esenti da inchiesta e promosse in questo modo al potere. Nel mondo in cui «guerra civile» vuol dire Pinochet e «desaparecidos», la mossa di Berlusconi ha due aspetti. Uno è la menzogna, che è abituale in lui e dunque ha stupito poco, almeno in Italia. Infatti lui, Silvio Berlusconi è stato l’unico e vero vincitore di Mani Pulite. È andato al governo subito dopo l’uscita di scena di un certo numero di corrotti che hanno governato l’Italia prima di lui.

L’altro è una dichiarazione di emergenza, caso raro, anzi senza precedenti da parte di chi detiene il potere in un sistema democratico. Ha detto «guerra civile». La guerra civile richiede e giustifica misure pesanti di salute pubblica.

Berlusconi ha inteso dare una cornice adeguatamente drammatica alla serie di azioni contro i giudici che lui, i suoi ministri, il suo parlamento e la sua stampa, i suoi fedeli commentatori, il suo prediletto conduttore televisivo, (quello di «Porta a Porta» che di tanto in tanto offre lo spazio della sua trasmissione all’autodifesa dei co-imputati del premier) si preparavano ad organizzare.

Sia chiaro, dunque, che l’emergenza esiste non come trovata di questo giornale e di alcuni iper-nervosi esponenti della opposizione. Esiste prima di tutto perché dichiarata nel modo più clamoroso dal capo delle imprese riunite del pubblico e del privato, di Mediaset e della Rai, del governo e di Confindustria, dei suoi affari e dei suoi processi. Data la gravità delle sue imputazioni (l’accusa è di avere corrotto i giudici, la più pesante, in ogni tipo di governo) si può spiegare in termini privati e psicologici la dichiarazione di guerra del primo ministro a una parte del Paese.

Potevano le istituzioni colpite e chi ha a cuore la democrazia italiana non rispondere o contenere la risposta nei limiti di sussurrati rimbrotti? Non potevano, e non dovevano. È in questa luce che tanti italiani hanno visto, capito e sostenuto la ribellione di migliaia di magistrati nel giorno della inaugurazione dell’anno giudiziario. La pace istituzionale era stata frantumata dal capo dell’esecutivo, che è anche imputato, e che rifiuta risolutamente di essere un cittadino come tutti gli altri. Con gesti e parole esemplari, i magistrati hanno indicato ai cittadini l’aggressione in corso contro il potere giudiziario. Le parole chiare del Procuratore Generale di Milano Borrelli sono il drammatico messaggio ricevuto e condiviso da tanti italiani. Non opporsi significa accettare una mutilazione della democrazia.

C’era in quel messaggio un intento pedagogico. Far capire bene, a tutti, che l’attentato alla integrità dello Stato può anche non richiedere, come nel passato, misure fisicamente violente. È raro, e anzi è un caso unico, che un golpe sia organizzato da chi detiene legittimamente il potere. Ma poiché sta avvenendo, i giudici - tutti - lo hanno comunicato ai cittadini in modo che nessuno possa dire: «Non lo sapevo».

Intanto è stata approvata la legge più pericolosa che abbia mai attraversato la vita di una repubblica democratica, quella sulle rogatorie internazionali. Gli avvocati del primo ministro-proprietario-imputato hanno dettato alla maggioranza fedele di Camera e Senato una legge che serve a una sola persona e ai suoi immediati co-imputati e che infatti è ormai nota come la «Legge Previti». Occorreva rendere impossibile, attraverso la richiesta di formalità inesistenti nei codici degli altri Paesi, il passaggio di atti giudiziari internazionali utili per provare alcuni capi di accusa.
Ogni espediente è stato inventato, ogni magistrato è stato personalmente svilito, ogni commentatore fedele o ex carica dello Stato mobilitato per colpire e screditare un tribunale, lungo il percorso delle calunnie, quello degli intralci procedurali, quello dell’accusa di violazione di una sentenza della Corte Costituzionale. Era una accusa così grave che la stessa Corte Costituzionale si è ribellata rendendo noto (caso raro) il suo pensiero e negando in modo autorevole e risoluto le accuse del premier-imputato al suo tribunale. Ma ciò che ha unito gran parte della opposizione politica a tanti cittadini, ciò che ha provocato sorpresa e scandalo nella opinione internazionale, è la retroattività di quella legge. La retroattività era necessaria perché un intero Parlamento è stato usato per servire un unico imputato, che è il capo della maggioranza. Il prezzo è stata la violazione di un principio fondamentale del diritto di tutti gli Stati in tutti i tempi.

Perché non si parli dei continui attacchi ai giudici e alla giustizia da parte di questo governo e di chi lo asseconda viene usata, come estremo insulto, la parola «giustizialismo». È una parola prelevata dal gergo dell’Argentina Peronista: giustizialisti erano i «descamisados» che sostenevano con le buone o con le cattive il generale Peron, demagogo e populista, una figura ovviamente cara a uno schieramento che va dal partito degli imputati a quello della Lega Nord. La parola circola ancora nei sottoscala del giornalismo ma sono in tanti ormai a sapere che è priva di senso. E in tanti a dire che è necessario difendere la giustizia.

Perciò adesso l’Ulivo è impegnato nella raccolta di firme per il referendum popolare contro la legge-golpe. E un numero sempre più alto di cittadini si schiera con i giudici perché ha capito in che modo si può togliere l’ossigeno alla democrazia. I girotondi intorno ai palazzi di giustizia sono ridicoli? Anche i governatori razzisti di Alabama e Luisiana lo pensavano di due sconosciuti ventenni di nome Bob Dylan e Joan Baez che comparivano con la chitarra accanto al pastore battista Martin Luther King per dire la avventata bestemmia secondo cui «i neri sono uguali ai bianchi e devono avere gli stessi diritti». Quando Rosa Park ha rifiutato di scendere dall’autobus dei bianchi e ha iniziato la rivolta dei diritti civili è stato detto di lei «è solo una stupida cameriera».
Ha cambiato la storia. Forse lo farà anche il girotondo.

   

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