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articolo tratto da la Repubblica del 30 aprile 2003


 

 

 








 
chi sporcava la giustizia

 

 

 

di Giuseppe D'Avanzo

NON si comprende la solidarietà che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha espresso alla velocità della luce nei confronti di Cesare Previti, condannato a undici anni di carcere per corruzione. Le cose stanno così. Cesare Previti, per il tribunale di Milano, ha corrotto i giudici di Roma per truccare alcune sentenze. Una di queste sentenze ha annullato il cosiddetto Lodo Mondadori che ha consentito al presidente della Fininvest, oggi capo del governo, di mettere le mani sulla più importante casa editrice del Paese.

Anche Berlusconi è stato imputato in questo processo. La Cassazione lo ha tirato via dall'affare ritenendolo semplicemente un corruttore "costretto" alla corruzione dall'opaco andazzo che governava le cose di giustizia nella capitale. Di quella opacità, Cesare Previti era un dominus, per il tribunale di Milano. Un "signore delle sentenze" che, grazie alla rete di interessi economici intessuta con i magistrati, otteneva risultati assai benefici per i suoi assistiti. Tra i quali, anche il presidente del Consiglio.

Ora a tutti dovrebbe apparire evidente che Silvio Berlusconi dovrebbe, per lo meno, avvertire, anche se imputato salvato dalla prescrizione, la responsabilità morale della condanna di Previti. Quella condanna lo interpella, lo chiama in causa. La sua funzione di capo del governo, come è ovvio, oggi non c'entra nulla. Questa è soltanto una sentenza di primo grado e anche i condannati di oggi rimangono ancora sub judice. Ci sarà l'appello.

Interverrà la Cassazione, e soltanto allora si potrà parlare di processo concluso, di condanna (o assoluzione) definitiva. Ma una condanna provvisoria così severa dovrebbe per lo meno imbarazzare, invitare al silenzio e al rispetto per la Giustizia chi, nei fatti, è stato ed è tuttora, come proprietario della Mondadori, beneficiario diretto di quell'atto corruttivo.

Di quella manipolazione, di quella "baratteria". Perché la sentenza di ieri di Milano questo dice: quelle toghe erano "sporche". C'erano i corruttori, avvocati che nell'interesse dei loro clienti pagavano i giudici e giudici corrotti che manipolavano le decisioni. Le sentenze Imi/Sir e Lodo Mondadori sono state, dunque, barattate per il Tribunale di Milano. Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora pagavano i giudici e i giudici addomesticavano le loro decisioni.

Per dirla con le parole giuste, le toghe hanno asservito la funzione giudiziaria agli interessi di chi gonfiava il loro conto all'estero. Dopo sette ore e quarantacinque minuti di camera di consiglio, la quarta sezione penale del Tribunale (Paolo Carfì, presidente, Maria Luisa Balzarotti, Enrico Consolandi) legge un dispositivo durissimo, severo.

La pena più alta il tribunale la riserva a Vittorio Metta. Tredici anni (contro i tredici anni e i sei mesi chiesti dal pubblico ministero). Il giudice scrisse materialmente la sentenza (160 pagina e passa in una sola notte) che annullava il Lodo Mondadori e consegnava la casa editrice di Segrate a Silvio Berlusconi. Undici anni per Cesare Previti e Attilio Pacifico (contro i tredici anni invocati dall'accusa). Otto anni e sei mesi per l'ex consigliere istruttore Renato Squillante. Sette anni per l'avvocato Giovanni Acampora. Sei anni per Felice Rovelli e quattro anni e sei mesi per sua madre Primarosa Battistella. Assolto Filippo Verde.

Tecnicamente la sentenza è abbastanza elementare nella sua ricostruzione. C'era da decidere se quei due procedimenti (Imi-Sir/Lodo Mondadori) avevano avuto una conclusione truccata. C'era da valutare se l'imponente impianto indiziario messo insieme dal pubblico ministero era sufficiente solido per dire "sporche" quelle toghe e corruttori quegli avvocati.

Il primo caso è il Lodo Mondadori. Il 21 giugno 1990 c'era stato il lodo arbitrale sul contratto Cir-Formenton. La decisione fu presa dai tre arbitri, Carlo Maria Pratis, Natalino Irti e Pietro Rescigno, incaricati di dirimere la controversia tra De Benedetti e Formenton per la vendita alla Cir da parte dei Formenton di 13 milioni 700 mila azioni Amef (il 25,7% della finanziaria che controlla la Mondadori) contro 6 milioni 350 mila azioni ordinarie Mondadori. Il lodo fu favorevole alla Cir e diede a De Benedetti il controllo del 50,3% del capitale ordinario Mondadori e del 79% delle privilegiate (Berlusconi perde la presidenza).

24 gennaio 1991. La Corte d'Appello di Roma presieduta da Arnaldo Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini dichiarò che l'accordo del 1988 tra i Formenton e la Cir era in contrasto con la disciplina delle società per azioni e da considerarsi nullo come il lodo arbitrale. Per il tribunale di Milano, non si può parlare nel caso di Cesare Previti di corruzione in atti giudiziari, ma soltanto di corruzione semplice perché tra il 12 maggio 1990 e il 17 marzo 1992 il legislatore non aveva previsto nel codice la norma da usare per punire il soggetto privato autore della corruzione in atti giudiziari.

La corruzione semplice di Previti non salva il pubblico ufficiale, Vittorio Metta, che scrive sotto dettatura la sentenza. Secondo procedimento truccato. La vicenda Imi-Sir ha inizio nel 1982 quando Rovelli cita davanti al tribunale di Roma l'Imi per non avere onorato una convenzione per il risanamento delle società del gruppo chimico Sir-Rumianca per circa 500 miliardi di lire. Nel 1986 il tribunale di Roma condanna l'Imi al risarcimento dei danni subiti da Rovelli. Nel 1990 la corte d'appello di Roma conferma la sentenza di primo grado.

Pochi giorni dopo, il 30 dicembre 1990, Nino Rovelli muore a Zurigo lasciando alla vedova e ai quattro figli l'eredità di una richiesta di risarcimento che, compresi gli interessi, era arrivata a circa 800 miliardi. Il contenzioso va in Cassazione e, mentre documenti scompaiono e ricompaiono, si conclude il 14 luglio 1993 con una sentenza che dà ragione agli eredi Rovelli.

A gennaio del 1994 l'Imi liquidò le spettanze agli eredi Rovelli, per una cifra totale di 980,3 miliardi, circa 300 dei quali finirono al fisco. Sessantasei miliardi andarono a Previti, Acampora e Pacifico; ne rigirarono una tranche a Renato Squillante. In questo caso, la corruzione non è semplice. I pagamenti sono del 1994, quando il legislatore ha corretto la norma inserendo anche per il soggetto privato (Rovelli, Previti e compagni) il reato di corruzione in atti giudiziari.

È una vittoria per la procura della Repubblica di Milano che si vede confermato l'intero impianto accusatorio se si esclude la posizione di Filippo Verde, per il quale evidentemente il Tribunale non ha ritenuto sufficiente l'indizio di un passaggio di denaro. È una sconfitta per Cesare Previti, che ostinatamente ha voluto cancellare il processo delegittimando il lavoro della procura, l'imparzialità del tribunale di Milano. È una brutta pagina per Silvio Berlusconi che, incapace di vedere se stesso nelle pieghe di questo affare giudiziario, invita a mettere mano alla riforma della giustizia "nell'interesse del Paese" ovvero nel suo personale interesse.

   

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