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da La Repubblica, 3 luglio 2003




 
Il fattore B che ci allontana dal resto dell'Europa

 

 

 

di Ezio Mauro, La Repubblica

NELLA sua deriva ogni giorno più tragica e inarrestabile, Silvio Berlusconi ieri è andato a sbattere contro lo scoglio dell'Europa, trascinato dalla sua mancanza di cultura istituzionale, da quel dilettantismo che tanto piace in Italia, con i muscoli che sostituiscono la competenza, dall'incapacità politica e più ancora morale di rispondere alle accuse che riguardano il clamoroso conflitto d'interessi di cui è insieme prigioniero e beneficiario. È come se tutto il castello posticcio costruito in questi anni attorno a una leadership fortissima sul piano elettorale, e fragilissima sul piano politico, fosse crollato di colpo, appena investito dal vento dell'opinione pubblica europea, fuori dalla campana di vetro domestica, dentro la quale il dominio proprietario sui media e su pezzi interi di società politica consente alla realtà virtuale del berlusconismo di galoppare all'apparenza indisturbata. Il risultato è drammatico per il presidente del Consiglio, squalificato dalle sue stesse parole nella solenne seduta del Parlamento europeo, che non aveva mai udito nulla di simile: tanto che si può considerare la data di ieri come l'inizio ufficiale del declino del Cavaliere.

Ma insieme, il risultato è amarissimo per il nostro Paese, che paga un prezzo ingiusto e sproporzionato agli errori e alla natura di Berlusconi, precipitando nel girone infernale dei Paesi europei sotto osservazione, per colpa di una leadership che costituisce un'eccezione assoluta nell'intero continente.

Il semestre di guida italiana della Ue rappresentava un'occasione irripetibile per l'Italia e per il suo premier. Riflettiamoci un momento. Paese fondatore dell'Unione, schierato per tutto il dopoguerra a fianco dell'America ma solo e sempre passando attraverso la costruzione continua dell'Europa, unendo De Gasperi e Spinelli, l'Italia aveva l'opportunità di tentare in prima persona una ricucitura tra europei e americani, dopo lo strappo della guerra. Poteva farlo per i buoni rapporti che Berlusconi ha costruito con Bush da un lato, e per il suo ruolo storico europeo dall'altro.

Di questa grande operazione avrebbe potuto giovarsi - insieme con tutti i soggetti politici del nostro continente - in particolare il presidente del Consiglio, che aveva un bisogno disperato di legittimazione internazionale, dopo la condotta erratica della sua politica estera, le improvvisazioni ai vertici, il velleitarismo da piccola superpotenza mediatrice e arruffona, la mancanza di uno standard da statista riconosciuto.

In più, una forte, convinta e trasparente legittimazione in Europa avrebbe aiutato Berlusconi anche in Italia, dove la sua politica e il suo programma dopo due anni arrancano visibilmente. Ecco perché il presidente Ciampi aveva sottolineato più volte l'importanza di questo appuntamento casuale (perché fissato dalla turnazione semestrale) ma cruciale. Conosceva il rischio, che da oggi potremmo a ragione chiamare "fattore B", ma vedeva anche l'opportunità: fissare finalmente una netta linea d'azione europeista per l'Italia, capace di confermare il successo ottenuto con l'aggancio dell'euro in condizioni difficilissime, e di cancellare quell'antico pregiudizio anti-italiano che riaffiora implacabile in ogni momento di debolezza della nostra immagine e della nostra politica.

Il semestre italiano ha invece spazzato via in una sola giornata - la prima - tutte le straordinarie opportunità che l'Europa ci offriva, ed è naufragato all'istante in una vera e propria crisi internazionale, con almeno tre fronti aperti: il primo è la "grave offesa" da parte di Berlusconi all'Europarlamento, come ha dovuto denunciare ieri sera il presidente Cox. Il secondo è la frattura con la Germania per l'incredibile insulto (Kapò) lanciato dal premier italiano a un deputato socialdemocratico tedesco che gli aveva rivolto critiche politiche, con il governo di Berlino che in una nota ufficiale ha giudicato "inaccettabile" il comportamento del nostro presidente del Consiglio. Il terzo è la polemica con il gruppo europeo dei socialisti e più in generale con le sinistre che contestavano l'incredibile dichiarazione del Cavaliere secondo cui il conflitto d'interessi non esiste "perché le mie televisioni mi criticano". C'è poi un quarto fronte, quello degli alleati italiani di Berlusconi, e da ieri è il fronte della disperazione. Bastava vedere l'incredulità sui volti dei ministri Frattini e Buttiglione, seduti sulle spine alle spalle del Cavaliere, mentre lui spiegava che "sono solo tre" le leggi da lui stesso varate in suo favore. E soprattutto, bastava vedere la disperazione di Gianfranco Fini - che sa da dove viene, lui e il suo partito - mentre Berlusconi attaccava il tedesco Schultz offrendogli una parte da kapò in un documentario che le televisioni stanno preparando "sui campi di concentramento nazisti". Questa volta, Fini racconterà al suo partito in subbuglio ciò che gli è toccato ascoltare e vedere a Strasburgo. E da ieri, l'uscita di An (o almeno del suo uomo simbolo, il vicepresidente) dal governo, è qualcosa di più di una minaccia.

Verrebbe da chiedersi: com'è potuto accadere tutto questo, dove nasce il cupio dissolvi del Cavaliere, perché nessuno si è preoccupato di gestire, occultare, educare gli spiriti animali che dominano il presidente del Consiglio in questa fase? Com'è possibile che in quegli staff e tra quei consiglieri nessuno abbia avvertito il premier della dogana politica e morale che corre tra l'Italia berlusconiana di oggi e l'Europa? Che nessuno abbia capito che la mistificazione e la dissimulazione propagandistica che sono la regola nell'Italia delle sei televisioni del re, non hanno corso in Europa, dove esiste una libera stampa, dove valgono regole precise e comuni, dove c'è un'opinione pubblica non ancora mitridatizzata da opinion leader compiacenti? L'Europa, oggi, è il Paese dei parametri di Maastricht, delle regole e dei comportamenti, più che di una politica e di una politica estera: come si può pensare di farla franca con il conflitto d'interessi che configura un improprio accumulo di "potere economico, mediatico e politico" (come ha detto ieri il socialista Baron Crespo) e sfocia addirittura nell'abuso delle leggi su misura confezionate dall'imputato-presidente per sfuggire al suo giudice? Eppure, anche se avevamo avvertito che l'Europa è il tallone d'Achille del Cavaliere, che la platea europea è diversa dal teatrino addomesticato italiano, che i giornali stranieri giudicano l'anomalia berlusconiana per quello che è, a differenza dei giornali italiani, non ci aspettavamo che lo scontro avvenisse così presto, con questo fragore, e con queste dimensioni. Berlusconi è andato incontro al più clamoroso incidente di politica estera della storia repubblicana come se dovesse compiere il suo destino, citando Erasmo da Rotterdam, attaccando ancora giudici e comunisti, come in un'ossessione devastante, quasi non sapesse più distinguere la sua stessa finzione dalla realtà. La scena era politicamente crudele: il Capo di un governo europeo, nel momento solenne in cui assumeva la sovranità delegata della guida dell'Unione, riusciva a mettersi contro il Parlamento di Strasburgo, e davanti alle critiche reagiva con toni da gazzarra come in una riunione notturna di partito dopo che si sono perse le elezioni, con modi, linguaggio, immagini del tutto improprie per la seduta e per l'occasione.

L'impotenza dei suoi alleati al fianco è la controprova di una leadership assoluta, sciolta da ogni vincolo, anche quello del buon senso politico. Una leadership che è puro istinto e pura forza (gli "attributi" di cui ha parlato ieri la Lega plaudente) nella convinzione che il berlusconismo allo stato puro, se può dispiegarsi liberamente, sia sempre vincente. L'incidente non nasce dunque dal caso, ma è figlio di una cultura, che determina una politica. È la cultura, oggi vincente in casa Berlusconi, dei "toni forti", con l'intimidazione degli avversari, gli insulti, la spallata, un misto di dilettantismo e di forza, nell'illusione rivoluzionaria di vivere ogni momento come passaggio di una sfida epocale, fuori dalla mediocrità della politica, ma dentro l'epica populista di un'avventura mitologica, con il Cavaliere invincibile alfiere della libertà in un Paese dominato da comunisti e agenti del male che congiurano contro il bene supremo, coincidente col dominio berlusconiano. C'è, in questo paesaggio politico fittizio, la rinuncia al vero compito politico supremo del Cavaliere, la missione necessaria e tuttavia già fallita, dopo la vittoria elettorale: fondere le diverse anime errabonde delle diverse destre italiane (postfascisti, leghisti, forzisti, ex democristiani) in una moderna cultura conservatrice europea per un Paese che non l'ha mai avuta.

No. Ormai è chiaro che il berlusconismo fa vincere elettoralmente la destra, ma poi la tiene prigioniera di una sub-cultura muscolare e gridata, anti-istituzionale, miracolistica, titanica e populista: una cultura che è fuori dall'Europa, e trascina tutta l'Italia in questa triste posizione pre-politica, marginale, autarchica e solitaria. Una posizione tragica per un Paese come l'Italia, trascinata dal Cavaliere nel suo stesso declino. Un declino che si annuncia terribile, se il senso dello Stato e delle istituzioni è quello mostrato ieri a Strasburgo.

   

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