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di
Paolo Galimberti, La Repubblica
I PALCOSCENICI internazionali
hanno il potere di eccitare l'istinto istrionesco di Silvio Berlusconi.
Il vertice di Copenhagen tra i leader europei e asiatici non ha
fatto eccezione. Lasciamo stare le dichiarazioni a effetto fatte
ai giornalisti sul ruolo dell'Italia che "ormai dà del
tu al mondo" perché lui è stato capace di portare
"in Italia i personaggi più importanti", mentre
"il mio predecessore aveva portato in Italia la Baraldini e
Ocalan".
O anche quelle sulle difficoltà economiche
del governo, tipo "il nostro debito pubblico è risibile",
"continuate a spendere, lasciate che siano gli esperti del
settore a strapparsi i capelli". Ché quelle sono battute
di pura propaganda a uso interno, la cui valenza politica, almeno
a livello europeo, è nulla. Quelle che invece hanno un impatto
politico, eccome forte e negativo, sono le cose che il presidente
del Consiglio ha detto sull'Iraq dentro il vertice, agli altri capi
di Stato e di governo europei e asiatici. Che hanno provocato una
dura, irritata reazione di Chirac.
Berlusconi, come gli succede spesso quando
si rende conto di aver detto qualcosa di sbagliato (o, magari, in
modo sbagliato, che in diplomazia non fa differenza), ha fatto retromarcia.
Ma la sua puntualizzazione non cancella l'effetto, tantomeno annulla
le minute della riunione, di cui diamo conto all'interno del giornale.
Tanto che si deve principalmente a Berlusconi se il presidente della
Commissione europea Prodi e il premier danese Rasmussen, presidente
di turno della Ue, hanno dovuto amaramente constatare che "non
ci sono molti elementi perché ci sia una posizione comune
dell'Europa sull'Iraq". Perché perfino lo spagnolo Aznar
e il vicepremier inglese Prescott erano stati molto più cauti
del premier italiano.
Tutti sembravano aver capito, ieri a Copenhagen,
che la vittoria della coalizione rossoverde nelle elezioni tedesche
e la conferma di Schroeder alla cancelleria finiranno per orientare
la barra europea, attraverso un inevitabile asse franco-tedesco,
più verso un'affermazione del ruolo dell'Onu che verso un'accettazione
incondizionata della dottrina americana della guerra preventiva.
Tutti, tranne Berlusconi: il quale, difatti, ha detto, in conferenza
stampa, che le elezioni non le ha vinte Schroeder, le hanno perse
i liberali. Berlusconi ha ragione quando si preoccupa di evitare
una frattura tra gli Stati Uniti e l'Europa, e anche quando invoca
"una risoluzione molto forte" da parte del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite. Per dieci anni Saddam Hussein si
è fatto beffe dell'Onu (ignorandone tutte le precedenti risoluzioni)
e dei suoi ispettori, impedendo loro di controllare lo stato reale
dei suoi armamenti, la capacità di produrre armi di distruzione
di massa, chimiche, batteriologiche e, ancor più, nucleari.
Ora l'Onu deve esigere dal dittatore iracheno
che non impedisca, né ritardi qualunque tipo di ispezione,
compresa quella ai palazzi presidenziali, anche se fatta senza preavviso.
E deve anche pretendere che i suoi ispettori abbiano libero accesso
a tutte le fonti irachene che ritengano utili al loro lavoro. Secondo
un documento redatto da due esperti del Carnegie Endowment for International
Peace e dal Council on Foreign Relations, che si sono avvalsi della
consulenza di Rolf Ekeus, capo degli ispettori Onu in Iraq tra il
1991 e il 1997, gli inviati delle Nazioni Unite dovrebbero essere
accompagnati questa volta da una forza multinazionale, creata apposta
dal Consiglio di sicurezza, che consenta l'esecuzione anche forzata
del mandato degli ispettori.
Però questo sembra essere un passo troppo
lungo per le gambe di Kofi Annan. Ma se tutti sono d'accordo che
Saddam è un dittatore sanguinario e inaffidabile, il problema
oggi è che cosa vuol dire, per usare le parole di Berlusconi,
"una risoluzione molto forte". Che, secondo il presidente
del Consiglio, deve essere "una risoluzione unica, che apra
subito all'intervento militare", come vogliono gli Stati Uniti,
che gli europei devono capire non soltanto perché "l'America
è stata colpita al cuore", ma soprattutto perché
"abbiamo un debito di riconoscenza con gli Usa".
Ed è proprio sul sì all'"intervento
militare subito" che non sono d'accordo molti europei, non
solo Chirac e Schroeder, ma, a giudicare dal suo intervento di ieri,
perfino Aznar, mentre la prudenza del vicepremier britannico si
può spiegare col fatto che Blair presenterà oggi al
Parlamento il dossier Iraq. Gli americani vogliono che la risoluzione
del Consiglio di sicurezza autorizzi esplicitamente l'intervento
militare se Saddam non accetta ispezioni incondizionate e tempestive.
Precostituendosi così il diritto di decidere da soli, senza
ulteriori votazioni dell'Onu, se e quando iniziare la guerra all'Iraq.
Del resto, questo è precisamente quel
"distinto internazionalismo americano" che è il
perno della nuova dottrina strategica di Bush: gli Stati Uniti "lavoreranno
con gli alleati là dove è possibile, ma, se necessario,
colpiranno unilateralmente e preventivamente Stati ostili e gruppi
terroristici che sviluppino armi di distruzione di massa".
La posizione della maggioranza europea, condivisa
anche dalla Commissione, oltre che dalla Russia e dalla Cina, membri
permanenti del Consiglio di sicurezza e quindi con diritto di veto,
è che l'Onu debba sì minacciare l'uso della forza
se ancora una volta Saddam si farà beffe dei suoi ispettori.
Ma che occorra una seconda decisione per autorizzare la guerra.
Berlusconi, invece, ieri, in totale adesione alla dottrina Bush,
si è detto convinto del buon diritto degli Stati Uniti di
ricorrere al "first strike", alla guerra preventiva.
Anche perché sa che "ci sono prove
che l'Iraq sta costruendo un ordigno nucleare ad implosione e missili
di lunga gittata" (poi, secondo consuetudine, ha rettificato
che si tratta di voci) e perciò "bisogna darsi una mossa",
traduzione nazional-popolare di "first strike".
Ora, queste certezze berlusconiane rischiano
di portare ancora una volta l'Italia fuori dal sentiero battuto
dall'Europa, che, appunto, promette di diventare sempre più
largo, quasi un'autostrada, dopo la riconferma di Schroeder. Né,
forse, può far venire qualche dubbio al presidente del Consiglio
la posizione dei due più autorevoli giornali americani, il
"New York Times" e il "Washington Post", che,
proprio due giorni fa, ha scritto: "Una campagna militare frettolosa,
senza il sostegno sostanziale di altre nazioni e senza aver prima
pianificato quale sarà il destino dell'Iraq, incorrerà
in grossi rischi. Occorre il concerto delle Nazioni Unite e degli
alleati, una paziente ricerca di coesione all'interno e all'esterno
del Consiglio di sicurezza: e ciò può richiedere più
tempo delle poche settimane che l'amministrazione sembra disposta
ad aspettare e comunque un ultimo tentativo delle Nazioni Unite
per una soluzione pacifica". È pur vero che entrambi
i giornali sono "liberal", che, in linguaggio nazional-popolare,
vuol dire di sinistra.
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