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da La Repubblica, 24 settembre 2002




 
il primo colpo del Cavaliere

 

 

 

di Paolo Galimberti, La Repubblica

I PALCOSCENICI internazionali hanno il potere di eccitare l'istinto istrionesco di Silvio Berlusconi. Il vertice di Copenhagen tra i leader europei e asiatici non ha fatto eccezione. Lasciamo stare le dichiarazioni a effetto fatte ai giornalisti sul ruolo dell'Italia che "ormai dà del tu al mondo" perché lui è stato capace di portare "in Italia i personaggi più importanti", mentre "il mio predecessore aveva portato in Italia la Baraldini e Ocalan".

O anche quelle sulle difficoltà economiche del governo, tipo "il nostro debito pubblico è risibile", "continuate a spendere, lasciate che siano gli esperti del settore a strapparsi i capelli". Ché quelle sono battute di pura propaganda a uso interno, la cui valenza politica, almeno a livello europeo, è nulla. Quelle che invece hanno un impatto politico, eccome forte e negativo, sono le cose che il presidente del Consiglio ha detto sull'Iraq dentro il vertice, agli altri capi di Stato e di governo europei e asiatici. Che hanno provocato una dura, irritata reazione di Chirac.

Berlusconi, come gli succede spesso quando si rende conto di aver detto qualcosa di sbagliato (o, magari, in modo sbagliato, che in diplomazia non fa differenza), ha fatto retromarcia. Ma la sua puntualizzazione non cancella l'effetto, tantomeno annulla le minute della riunione, di cui diamo conto all'interno del giornale. Tanto che si deve principalmente a Berlusconi se il presidente della Commissione europea Prodi e il premier danese Rasmussen, presidente di turno della Ue, hanno dovuto amaramente constatare che "non ci sono molti elementi perché ci sia una posizione comune dell'Europa sull'Iraq". Perché perfino lo spagnolo Aznar e il vicepremier inglese Prescott erano stati molto più cauti del premier italiano.

Tutti sembravano aver capito, ieri a Copenhagen, che la vittoria della coalizione rossoverde nelle elezioni tedesche e la conferma di Schroeder alla cancelleria finiranno per orientare la barra europea, attraverso un inevitabile asse franco-tedesco, più verso un'affermazione del ruolo dell'Onu che verso un'accettazione incondizionata della dottrina americana della guerra preventiva.

Tutti, tranne Berlusconi: il quale, difatti, ha detto, in conferenza stampa, che le elezioni non le ha vinte Schroeder, le hanno perse i liberali. Berlusconi ha ragione quando si preoccupa di evitare una frattura tra gli Stati Uniti e l'Europa, e anche quando invoca "una risoluzione molto forte" da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per dieci anni Saddam Hussein si è fatto beffe dell'Onu (ignorandone tutte le precedenti risoluzioni) e dei suoi ispettori, impedendo loro di controllare lo stato reale dei suoi armamenti, la capacità di produrre armi di distruzione di massa, chimiche, batteriologiche e, ancor più, nucleari.

Ora l'Onu deve esigere dal dittatore iracheno che non impedisca, né ritardi qualunque tipo di ispezione, compresa quella ai palazzi presidenziali, anche se fatta senza preavviso. E deve anche pretendere che i suoi ispettori abbiano libero accesso a tutte le fonti irachene che ritengano utili al loro lavoro. Secondo un documento redatto da due esperti del Carnegie Endowment for International Peace e dal Council on Foreign Relations, che si sono avvalsi della consulenza di Rolf Ekeus, capo degli ispettori Onu in Iraq tra il 1991 e il 1997, gli inviati delle Nazioni Unite dovrebbero essere accompagnati questa volta da una forza multinazionale, creata apposta dal Consiglio di sicurezza, che consenta l'esecuzione anche forzata del mandato degli ispettori.

Però questo sembra essere un passo troppo lungo per le gambe di Kofi Annan. Ma se tutti sono d'accordo che Saddam è un dittatore sanguinario e inaffidabile, il problema oggi è che cosa vuol dire, per usare le parole di Berlusconi, "una risoluzione molto forte". Che, secondo il presidente del Consiglio, deve essere "una risoluzione unica, che apra subito all'intervento militare", come vogliono gli Stati Uniti, che gli europei devono capire non soltanto perché "l'America è stata colpita al cuore", ma soprattutto perché "abbiamo un debito di riconoscenza con gli Usa".

Ed è proprio sul sì all'"intervento militare subito" che non sono d'accordo molti europei, non solo Chirac e Schroeder, ma, a giudicare dal suo intervento di ieri, perfino Aznar, mentre la prudenza del vicepremier britannico si può spiegare col fatto che Blair presenterà oggi al Parlamento il dossier Iraq. Gli americani vogliono che la risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizzi esplicitamente l'intervento militare se Saddam non accetta ispezioni incondizionate e tempestive. Precostituendosi così il diritto di decidere da soli, senza ulteriori votazioni dell'Onu, se e quando iniziare la guerra all'Iraq.

Del resto, questo è precisamente quel "distinto internazionalismo americano" che è il perno della nuova dottrina strategica di Bush: gli Stati Uniti "lavoreranno con gli alleati là dove è possibile, ma, se necessario, colpiranno unilateralmente e preventivamente Stati ostili e gruppi terroristici che sviluppino armi di distruzione di massa".

La posizione della maggioranza europea, condivisa anche dalla Commissione, oltre che dalla Russia e dalla Cina, membri permanenti del Consiglio di sicurezza e quindi con diritto di veto, è che l'Onu debba sì minacciare l'uso della forza se ancora una volta Saddam si farà beffe dei suoi ispettori. Ma che occorra una seconda decisione per autorizzare la guerra. Berlusconi, invece, ieri, in totale adesione alla dottrina Bush, si è detto convinto del buon diritto degli Stati Uniti di ricorrere al "first strike", alla guerra preventiva.

Anche perché sa che "ci sono prove che l'Iraq sta costruendo un ordigno nucleare ad implosione e missili di lunga gittata" (poi, secondo consuetudine, ha rettificato che si tratta di voci) e perciò "bisogna darsi una mossa", traduzione nazional-popolare di "first strike".

Ora, queste certezze berlusconiane rischiano di portare ancora una volta l'Italia fuori dal sentiero battuto dall'Europa, che, appunto, promette di diventare sempre più largo, quasi un'autostrada, dopo la riconferma di Schroeder. Né, forse, può far venire qualche dubbio al presidente del Consiglio la posizione dei due più autorevoli giornali americani, il "New York Times" e il "Washington Post", che, proprio due giorni fa, ha scritto: "Una campagna militare frettolosa, senza il sostegno sostanziale di altre nazioni e senza aver prima pianificato quale sarà il destino dell'Iraq, incorrerà in grossi rischi. Occorre il concerto delle Nazioni Unite e degli alleati, una paziente ricerca di coesione all'interno e all'esterno del Consiglio di sicurezza: e ciò può richiedere più tempo delle poche settimane che l'amministrazione sembra disposta ad aspettare e comunque un ultimo tentativo delle Nazioni Unite per una soluzione pacifica". È pur vero che entrambi i giornali sono "liberal", che, in linguaggio nazional-popolare, vuol dire di sinistra.


   

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