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di UMBERTO ECO
Il modo in cui il Polo ha impostato la sua campagna elettorale è
senza dubbio efficace, così che molti si chiedono quale sia
non diciamo il suo segreto ma la sua chiave e il suo modello. La
prima cosa che viene in mente è che il Polo, e segnatamente
Berlusconi (unico volto della campagna) seguono il modello pubblicitario.
Del modello pubblicitario hanno individuato la riproposta continua
dello stesso simbolo e di pochi slogan memorizzabili, nonché
un'accorta scelta cromatica, certamente vincente perché molto
affine a quella di Windows.
L'elementarità degli slogan
è la stessa di quella dei prodotti di grande consumo e ha
in comune con le campagne commerciali il principio per cui lo slogan
non deve preoccuparsi di essere giudicato vero. Nessun acquirente
crede realmente che Scavolini sia la cucina di tutti gli italiani
(le statistiche lo smentirebbero) o che il detersivo tale lavi più
bianco degli altri (la casalinga o il casalingo sanno che, oltre
un certo prezzo, i detersivi di marca lavano più o meno nello
stesso modo): e tuttavia gli acquirenti quando debbono fare un acquisto
sono più sensibili ai prodotti di cui hanno memorizzato lo
slogan.
In tal senso è del tutto inutile
(o al massimo divertente) che satirici o politici ironizzino sul
presidente operaio o sulle pensioni più dignitose per tutti:
lo slogan non pretende di essere creduto ma solo di essere ricordato.
Tuttavia il modello pubblicitario funziona per i manifesti o altri
tipi di annuncio pubblicitario ma non, per esempio, per le azioni
di battaglia parlamentare o a mezzo media, condotte a mano a mano
che si avvicina la scadenza elettorale.
Anzi, qualcuno ha già notato
un'apparente contraddizione tra l'amichevolezza della propaganda
e l'aggressività dell'azione politica, tanto da intravedervi
un errore di tattica. Ed ecco che si è fatta strada l'interpretazione
Montanelli: non sapendo controllare alcune eredità genetiche
delle sue componenti e alcune tendenze psicologiche profonde del
suo leader, il Polo manifesterebbe le proprie tendenze autoritarie
e una nostalgia latente (ancorché ancora simbolica) per il
santo manganello.
Ma anche questa lettura mi sembra
parziale. Essa spiega alcune intemperanze, minacce e promesse, ma
non tutti i comportamenti dell'alleanza, che mi paiono invece seguire,
in modo coerentissimo, un altro modello. Questo modello è
non fascista o consumistico, bensì veterocomunista e, per
certi aspetti, sessantottardo.
Cerchiamo (chi ha l'età per
poterlo fare) di ricordare quali erano le tattiche e le strategie
propagandistiche del comunismo togliattiano. Per quanto complessa
potesse essere l'elaborazione culturale interna al gruppo dirigente,
il partito si mostrava all'esterno mediante slogan efficaci e comprensibili,
ripetuti in ogni occasione.
Anzitutto l'attacco all'imperialismo
capitalista come causa della povertà nel mondo, al Patto
Atlantico come suo braccio guerrafondaio, al governo come servo
degli americani, e alla polizia come braccio armato del governo.
Se non a livello istituzionale, avveniva peraltro la delegittimazione
di una magistratura che condannava gli scioperanti in agitazione
ma non i loro aguzzini, o per lo meno si sottolineava una netta
distinzione tra una magistratura buona, in genere pretori d'assalto,
che si occupavano dei diritti delle masse e una magistratura cattiva
che non condannava gli illeciti della classe dirigente ma era severa
con la protesta operaia.
Basta sostituire all'America il Comunismo
e i suoi servi sciocchi (che possono andare sino al cattolico Scalfaro
o al conservatore Montanelli), e tenere presente la divisione tra
toghe rosse, che investigano sugli affari di Berlusconi, e toghe
"buone" (chiamate in causa ogni volta che si deve dimostrare
che l'accusa era infondata) e lo schema appare lo stesso.
In secondo luogo ricordiamo l'uso
di slogan di presa immediata (ben più semplicistici del progetto
politico che volevano propagandare): si pensi agli interventi alla
Pajetta nelle Tribune Politiche dove, malgrado la sottigliezza dialettica
dell'oratore, l'idea centrale era "bisogna cambiare le cose".
In terzo luogo la capacità
indubbia di monopolizzare valori comuni e farli diventare valori
di parte: si pensi alla massiccia campagna per la pace, all'uso
di termini come "democratico" (che alla fine veniva a
connotare solo i regimi dell'est europeo), alla cattura quarantottesca
dell'immagine di Garibaldi. Così come oggi chi grida "forza
Italia" in un campo sportivo, o parla di valori liberali e
di libertà diventa immediatamente propagandista del Polo,
allora chi avesse voluto parlare di pace e pacifismo veniva automaticamente
arruolato tra i compagni di strada del PCI - almeno sino a che Giovanni
XXIII con la Pacem in Terris non si è ripreso l'ideale della
pace come valore non comunista.
Altro elemento della propaganda e
della politica veterocomunista (sia in parlamento che nelle piazze)
era da un lato l'estrema aggressività, anche verbale, in
modo da denunciare ogni atteggiamento avversario come anti-popolare,
e al tempo stesso la denuncia costante dell'aggressività
altrui e della persecuzione nei confronti dei partiti popolari.
Questo atteggiamento è passato poi, in modo ben più
cruento, dai movimenti insurrezionali sudamericani (per esempio
i Tupamaros) ai terroristi europei, che seguivano il progetto (rivelatosi
utopico) di mettere in atto provocazioni insostenibili per ogni
governo affinché si scatenasse come risposta una repressione
di Stato che poi sarebbe stata sentita come insostenibile dalle
masse.
Ma, senza andare a scomodare i movimenti
violenti, l'aggressività nel denunciare il complotto dei
media è diventata l'arma vincente dei radicali, che hanno
costruito la loro vasta visibilità mediatica su azioni di
protesta per il silenzio che i media avrebbero praticato nei loro
confronti. Tipico del berlusconismo è infatti di disporre
di un formidabile apparato massmediatico e di usarlo per lamentare
la persecuzione da parte dei media.
Altri elementi della propaganda veterocomunista
erano il richiamo al sentimento popolare (oggi "la gente"),
l'uso di manifestazioni massicce con sventolio di bandiere e canti,
la fedeltà al colore-richiamo di fondo (allora rosso, oggi
blu) - e infine (se dobbiamo dare ascolto alle analisi della destra)
l'occupazione più o meno strisciante dei luoghi di produzione
culturale (allora massimamente le case editrici e i settimanali).
Potremmo persino citare il tentativo
compiuto dall'Universale del Canguro di ascrivere i grandi del passato
tra gli autori progressisti, da Diderot a Voltaire, da Giordano
Bruno alle utopie di Bacone, da Erasmo a Campanella. E cito questi
nomi perché sono quelli che, sia pure in edizioni raffinate
e non popolari, Publitalia sta riesumando. Un discorso più
complesso e sottile andrebbe fatto a proposito della "doppiezza
togliattiana", ma lascio al lettore la scoperta di interessanti
analogie.
Mentre parlavo a qualcuno di queste
somiglianze, mi è stato fatto notare che tuttavia, pur nella
sua aggressività verso il governo, il Pci dei tempi classici
aveva cercato di sostenere molte delle leggi che esso proponeva
(dall'articolo 7 della Costituzione a molte riforme), mentre pare
tipico del Polo opporsi, magari mediante uno sdegnoso astensionismo,
a riforme governative che pure esso potrebbe in parte sostenere.
Certamente Togliatti, una volta accettata
l'idea che dopo Yalta non si poteva, e forse non si doveva, pensare
a una soluzione rivoluzionaria, aveva conseguentemente accettato
l'idea di una lunga marcia attraverso le istituzioni (il cui capitolo
finale sarebbe stato, molto dopo la sua morte, il consociativismo).
In tal senso la politica del Polo non sembra veterocomunista. Ma
ecco che qui si innerva, nel modello propagandistico e nelle strategie
e tattiche di lotta politica del Polo, il modello dei gruppi extraparlamentari
del Sessantotto.
Del modello sessantottesco si ritrovano
nel Polo molti elementi. Anzitutto, l'identificazione di un nemico
molto più sottile e invisibile degli Stati Uniti, come le
multinazionali o la Trilaterale, denunciandone il complotto permanente.
In secondo luogo il non concedere mai nulla all'avversario, demonizzarlo
sempre, qualsiasi fossero le sue proposte, e quindi rifiutare il
dialogo e il confronto (rifiutando ogni intervista di giornalisti
costitutivamente servi del potere). Di qui la scelta di un Aventino
permanente e dell'extraparlamentarismo. Questo rifiutarsi a qualsiasi
compromesso era motivato dalla convinzione, reiterata a ogni momento,
che la vittoria rivoluzionaria era imminente. E dunque si trattava
di fiaccare i nervi a una borghesia complessata, annunciandole a
ogni passo una vittoria indiscutibile dopo la quale non si sarebbero
fatti prigionieri e si sarebbe tenuto conto delle liste di proscrizione
che apparivano nei tazebao. Con la tecnica del lottatore di catch
che terrorizza il contendente con urla feroci, s'intimidiva l'avversario
con slogan quali "fascisti, borghesi, ancora pochi mesi"
e "ce n'est qu'un debut", o lo si deligittimava al grido
di "scemo, scemo!" (l'arteriosclerosi di Montanelli).
La marcia verso la conquista del potere
veniva sostenuta attraverso l'immagine trionfale di un volto carismatico,
fosse esso quello del Che o della triade Lenin, Stalin, Mao Tze
Tung - e a nessun leader minore veniva concesso l'onore del ritratto.
Tutte queste potrebbero sembrare soltanto analogie, dovute al fatto
che i comportamenti propagandistici si assomigliano tutti un poco,
ma giova ricordare quanti transfughi e del vetero comunismo e del
Sessantotto siano confluiti nelle file del Polo.
Per cui non è irragionevole
pensare che Berlusconi, più che ai pubblicitari e ai sondaggisti
della prima ora, abbia prestato orecchio a questi consiglieri. Inoltre,
prestare orecchio a esperti di un rapporto con le masse, appare
particolarmente intelligente dal momento che, nella geografia politica
attuale, il vero partito di massa è il Polo, che ha saputo
individuare, nel disfacimento sociologico delle masse pensate dal
marxismo classico, le nuove masse, che non sono più caratterizzate
dal censo bensì da una generica appartenenza comune all'universo
dei valori massmediatici, e quindi non sono più sensibili
all'argomento ideologico bensì al richiamo populista.
Il Polo si rivolge, attraverso la
Lega, alla piccola borghesia poujadista del nord, attraverso An
alle masse emarginate del sud che da cinquant'anni votavano per
monarchici e neofascisti, e attraverso Forza Italia alla stessa
classe lavoratrice di un tempo, che in gran parte ascende al livello
della piccola borghesia, e di questa ha i timori per la minaccia
che viene dai nuovi lumpen per i propri privilegi, e avanza le richieste
a cui può rispondere un partito che faccia proprie le parole
d'ordine di ogni movimento populista, la lotta contro la criminalità,
la diminuzione della pressione fiscale, la difesa dal prepotere
statale e dalla capitale fonte di ogni male e corruzione, la severità
e il disprezzo nei confronti di ogni comportamento deviante.
Non si trascuri che di matrice populista
sono alcuni degli argomenti con cui persone anche di umile condizione
manifestano la loro attrazione per Berlusconi. Gli argomenti sono
che essendo egli ricco non dovrà rubare (argomento che si
basa sull'identificazione qualunquistica tra politico e ladro),
l'indifferenza al conflitto di interessi (che cosa importa a me
se fa i suoi interessi, l'importante è che si occupi anche
dei miei, che sono diversi dai suoi) e la persuasione mitica che
un uomo che ha saputo diventare enormemente ricco possa distribuire
benessere anche al popolo che governa (senza considerare che questo
non è mai accaduto né con Bokassa né con Milosevic).
Si noti che non solo questa è
persuasione tipica del teledipendente (chi si avvicina alla trasmissione
miliardaria ha buone possibilità di diventare miliardario)
ma è atteggiamento che affonda le proprie radici in credenze
primitive e forse archetipe. Si pensi al "culto del cargo",
fenomeno religioso che si è manifestato tra le popolazioni
dell'Oceania tra l'inizio del colonialismo sino almeno alla fine
della seconda guerra mondiale: siccome i bianchi arrivavano sulle
loro coste, per nave o per aereo, scaricando cibo e altre merci
mirabolanti (che ovviamente servivano all'invasore), nasceva l'attesa
messianica di una nave, prima, e di un cargo aereo poi, che sarebbe
arrivato a portare gli stessi beni anche ai nativi.
Quando si individuano nel proprio
elettorato queste pulsioni profonde si è partito di massa,
e di ogni classico partito di massa si adottano parole d'ordine
e tecniche d'assalto. E forse uno dei peccati originali della sinistra,
oggi, è nel non sapere accettare in pieno l'idea che il vero
elettorato di un partito che si vuole riformista non è più
fatto di masse popolari bensì di ceti emergenti, e di professionisti
del terziario (che non sono pochi, purché si sappia che è
a essi e non alla mitica classe operaia che occorre rivolgersi).
Pertanto una delle scoperte di questa
campagna elettorale potrebbe essere che il politico più "comunista"
di tutti è probabilmente Berlusconi. In realtà le
tattiche veterocomuniste e sessantottesche saranno le stesse, ma
vengono messe al servizio di un programma che può andare
bene anche a molti strati della Confindustria, ai quali in altri
tempi è andato bene il programma corporativista. In ogni
caso, avanti o popolo.
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