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di Paolo Sylos Labini
Destra e sinistra non c'entrano: qui è in gioco la democrazia.
Ecco perché un gruppo di intellettuali, tra i quali Bobbio
e Galante Garrone, invitano a fermare Berlusconi. Con il voto
A lungo sono stato in contatto con
Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e col giurista Alessandro
Pizzorusso e a lungo abbiamo discusso sull'intenzione espressa da
Silvio Berlusconi di riformare la prima parte della Costituzione
e la giustizia. Noi siamo preoccupati per la sorte della democrazia
in Italia ed è per questo che, come cittadini, abbiamo lanciato
un grido di allarme. I primi articoli della Carta fissano i princìpi
base della nostra repubblica; c'è la regola riguardante le
attività d'impresa che nell'incontro di Parma con gli industriali
Berlusconi ha annunciato di voler modificare (la norma, di chiara
ispirazione "sovietica", dice: "L'iniziativa privata
è libera, entro i limiti fissati dalle leggi"); ma c'è
anche il principio, vitale per la democrazia, che riguarda la libertà
di espressione e di stampa: ricordate quando nel 1994 Berlusconi
disse che occorreva una legge per impedire le "distorsioni"
dei giornalisti? C'è il principio dell'indipendenza della
magistratura che verrebbe cancellata se fosse varata la legge berlusconiana
secondo cui ogni anno il Parlamento stabilisce la scala di priorità
dei reati da perseguire - il falso in bilancio, reato gravissimo
in tutti i Paesi civili, è già visto come reato addirittura
da depennare. Hanno illustrato pubblicamente le linee della progettata
riforma Marcello Dell'Utri, braccio destro di Berlusconi, già
condannato, e Marcello Pera, docente di Storia delle scienze, con
l'hobby del diritto.
Oggi ci sono infuocate discussioni sulla trasmissione televisiva
Satyricon di Daniele Luttazzi e sul libro L'odore dei soldi di Marco
Travaglio e di Elio Veltri. Ma i fatti erano noti da tempo; di nuovo
ci sono l'approfondimento, i documenti e le testimonianze, fra cui
c'è quella di un ex democristiano, Ezio Cartotto - terrificante.
Alcuni dei fatti li ho citati io stesso
nel libretto La crisi italiana, scritto nel 1994 e pubblicato nel
1995 da Laterza. Al principio dell'estate del 1994 anche a sinistra
molti sostenevano che occorreva mettere il governo Berlusconi alla
prova e le critiche non erano particolarmente dure; in seguito le
critiche sono cresciute nella frequenza e nell'intensità.
La prova che fornì il governo fu dapprima dubbia, poi negativa
e infine disastrosa: in sette mesi la Borsa cadde del 20 per cento
e l'interesse aumentò dell'1,3 per cento. Berlusconi si occupava
degli affari privati, ben poco di quelli pubblici: cominciavano
a profilarsi le conseguenze del conflitto d'interessi. Nel 1990
Berlusconi era stato condannato, poi amnistiato, per aver giurato
il falso in tribunale dichiarando di non essersi mai iscritto alla
P2. Poi ha dovuto ammettere di aver aderito alla loggia di Gelli,
di cui, disse, aveva sentito parlare come di un'associazione di
persone che rappresentavano quanto di meglio c'era in Italia. Sandro
Pertini l'aveva definita un'"associazione a delinquere".
Pertini aveva perfettamente ragione. Già in quel tempo gli
indagati dalla giustizia penale nella Fininvest erano diversi. Il
personaggio che ha suscitato e suscita le più gravi preoccupazioni
era Marcello Dell'Utri. Già nel mio libretto del 1995 ricordavo
la terribile conversazione telefonica fra lui e il mafioso Vittorio
Mangano, registrata dalla Criminalpol e discussa in un'intervista
di due giornalisti francese al giudice Borsellino, uomo d'ordine,
che votava Msi; l'intervista era stata pubblicata da L'Espresso
l'8 aprile del 1994, ma solo ora trasmessa in televisione da Michele
Santoro.
Elementi gravissimi emergono dal libro
di Mario Guarino e Giovanni Ruggeri, Berlusconi, il signore tv.
Quello che vi si legge mi fece accapponare la pelle: lo scrissi
nel 1994. Fra l'altro si apprende che Berlusconi, attraverso un
suo prestanome, riconosciuto tale in giudizio, partecipò,
in Sardegna, ad una società in cui troviamo Flavio Carboni,
Domenico Balducci, usuraio della cosca di Pippo Calò, e Danilo
Abbruciati, già killer della banda della Magliana. Da parte
sua, Vito Ciancimino è entrato più volte in rapporti
d'affari, tramite il costruttore Francesco Rapisarda, con Marcello
Dell'Utri. Nel corso delle polemiche che sono seguite alla trasmissione
Rai di Luttazzi, in un'intervista al Messaggero del 18 marzo, Giuliano
Ferrara, quello stesso che aveva esortato ad abbassare i toni delle
polemiche in vista delle elezioni, ha affermato che l'operazione
Satyricon è degna di Goebbels, che io e Bobbio, rappresentanti
della solita vecchia sinistra, siamo stati "i mandanti".
In una trasmissione successiva, condotta da Santoro, è intervenuto
con voce concitata, per telefono, il Cavaliere: su tutti i quesiti
che gli erano stati posti ha mentito, in termini facilmente confutabili
da chi ha un po' di memoria. Evidentemente il Cavaliere non ha una
grande opinione né della memoria né dell'intelligenza
dei suoi concittadini. E ci vuol molto a capire che l'indignazione
di Berlusconi e soci, in forza della quale si sarebbe voluto l'oscuramento
della satira politica prima delle elezioni, è un espediente
per sfuggire alle denunce e ai confronti difficili? Può almeno
rispondere, il Cavaliere, dicendo la verità, alle domande
riguardanti i suoi collaboratori? Sergio Romano, sulle colonne del
Corriere della Sera del 18 marzo, ha suggerito a Berlusconi di giungere
alle elezioni con le mani pulite, evitando di candidare personaggi
discutibili e discussi, come - si può ritenere - Dell'Utri
e Previti.
Dichiarò al Corriere della
Sera il 12 aprile 1996 Ezio Cartotto, che nella fase preparatoria
di Forza Italia era di casa da quelle parti: "Dell'Utri mi
sorprese alquanto giacché, nel marzo 1994, mi disse testualmente:
"Silvio non capisce che deve ringraziarmi, perché se
dovessi aprire bocca io..."". Se il Cavaliere seguirà
il suggerimento di Sergio Romano, mi farò francescano scalzo.
Negli ultimi tempi sono state molto discusse le questioni della
ineleggibilità e della incompatibilità riguardanti
Berlusconi. Una legge del 1957 stabiliva che non erano eleggibili
in Parlamento i titolari di concessioni pubbliche di rilevante interesse
economico. Nel 1995 Galante Garrone, Pizzorusso, Cimiotta, Vito
Laterza, Visalberghi e io costituimmo un gruppo di pressione per
far rispettare il principio rivoluzionario che le leggi si applicano
e non si aggirano. I vertici dei Ds e dei Popolari (che pensavano
a Cecchi Gori) si accordarono col Polo e trovarono il miserabile
cavillo secondo cui titolare delle concessioni televisive era Fedele
Confalonieri e non Silvio Berlusconi. Oggi sarebbe più rilevante
la regola dell'incompatibilità (i titolari di concessioni
pubbliche non potrebbero far parte del governo).
Temo però che oramai sia troppo
tardi e che non rimanga che manifestare la propria opposizione col
voto. Possibile che non appaia evidente a tutti quel che ha scritto
il 20 marzo l'Herald Tribune, che cioè la Casa delle libertà
ha un solo padrone e molti maggiordomi? Possibile che oltre la metà
degli elettori attivi siano pronti a votare per un nuovo caudillo,
che sarebbe anche peggiore del precedente? Possibile che siano così
numerosi i sudditi e i cinici? Ma insomma, è il nostro un
Paese civile? È il terribile quesito che ha mosso Bobbio,
Galante Garrone, Pizzorusso e me a stilare l'appello. È in
gioco la sorte della democrazia, destra e sinistra non c'entrano:
fra coloro che hanno aderito al nostro appello sono numerosi gli
intellettuali della destra democratica. Oggi le previsioni danno
come probabile la vittoria della Casa delle libertà. L'esito
dipende da chi pensa di astenersi: perciò nel nostro appello
ci rivolgiamo in particolare a queste persone, mettendo nella massima
evidenza che chi si astiene vota Berlusconi. È quindi forse
giusto affermare che se l'esito fosse negativo per la coalizione
governata dal Cavaliere, dovremmo esser grati, un poco, ad alcuni
dirigenti del centrosinistra, parecchio alla base dei partiti che
lo compongono, ma ancora di più a coloro che rinunciano all'astensione
e, sia pure all'ultimo momento, decideranno di votare. È
questa la conclusione del nostro appello.
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