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di
Massimo Giannini, La Repubblica
"Sono condannato a vincere, e infatti ho sempre vinto",
aveva detto il Cavaliere due giorni prima del voto. A parte la non
trascurabile amnesia sulla bruciante sconfitta alle politiche del
1996, Silvio Berlusconi deve prendere atto che queste elezioni,
se non le ha addirittura perse, sicuramente non le ha vinte. Ai
tempi della Prima Repubblica si sarebbe detto che il centrodestra
"soffre ma tiene", mentre il centrosinistra "fatica
ma rimonta". I Poli escono dal test di ieri in posizioni di
apparente parità. Con il solito gioco delle bandierine piantate
sul territorio, la Casa delle Libertà mantiene al primo turno
quattro province su sei. L'Ulivo vince a sua volta con la maggioranza
assoluta in quattro delle sei province che già governava.
Ma la parità è più che altro formale. Il centrosinistra
strappa in modo netto al centrodestra la provincia di Roma. E questo
fa già una differenza sostanziale. Non è solo un voto
che si "conta": quello della Capitale è anche un
voto che si "pesa".
Come sempre, sarebbe sbagliato
trarre conclusioni assiomatiche e definitive da questi risultati.
Com'è nello spirito della "rivoluzione costituzionale"
della legge 81/1993, nelle consultazioni popolari influiscono soprattutto
i rapporti diretti tra i singoli candidati e le rispettive "municipalità".
Ma mai come questa volta, per l'asprezza delle polemiche politiche
che le hanno precedute, queste sono diventate elezioni di medio-termine.
Se non un "referendum sul governo", sicuramente un importante
check-up sul suo stato di salute. Lo ha voluto lo stesso presidente
del Consiglio, che dal giorno dopo la sentenza di condanna di Previti
a Milano ha avviato una campagna elettorale strisciante, ma grondante
di livori ideologici e furori demagogici.
Solo una settimana fa, a
Udine, ha chiamato a raccolta i militanti azzurri, gli "apostoli
guerrieri della libertà" da lui stesso predestinati
a fermare "i giudici golpisti" e "i comunisti indegni
di governare". Partendo da queste premesse, per il premier
adesso è molto difficile derubricare le amministrative di
ieri come una sagra paesana, folcloristica e irrilevante. C'è
dunque una prima lezione da trarre: il voto (anche se non la boccia
in modo inappellabile) sicuramente non premia la "strategia
della tensione" che il Cavaliere ha adottato come stile di
governo.
Una strategia fatta di molti anatemi (contro le istituzioni, contro
le opposizioni, contro la magistratura) ma di pochissime riforme.
Dalle urne esce un Paese in lento, ma graduale movimento. C'è
una maggioranza sfiancata e sbiadita che perde terreno, un'opposizione
divisa e confusa che tuttavia rosicchia quote di elettorato. Oltre
a perdere Roma, il Polo conserva buoni margini di sicurezza in Sicilia,
ma come già accadde alle amministrative del maggio 2002 non
riesce a sfondare al Nord. L'Ulivo si consolida al Centro, in comuni
come Pisa e Massa. Risale la china al Sud, riprendendosi a macchia
di leopardo aree elettorali medio-piccole in Campania e in Puglia.
Si rafforza in zone ricche del Nord, sfiorando la vittoria a Sondrio
e ottenendola a Ivrea e in diversi comuni della cintura milanese.
La seconda lezione da trarre,
per il Polo, sta nell'assordante silenzio di ieri, da parte del
presidente del Consiglio e degli altri leader della maggioranza
(ad eccezione di Umberto Bossi e Marco Follini). È un segnale
preciso. Per usare una formula cara al premier, queste amministrative
si stanno già trasformando in un "regolamento di conti"
all'interno del centrodestra. Il 13 maggio 2001 sembra già
lontano. A una prima e sommaria analisi del voto di lista sbiadisce
l'immagine del trionfo di Forza Italia, che con il 29,4% dei consensi
solo al proporzionale della Camera (pari a quasi 11 milioni di elettori)
assume il comando delle operazioni, ed è padrona assoluta
della Casa delle Libertà. Il partito del premier subisce
qualche vistoso smottamento. A Roma il calo è inquietante,
dal 23,8% delle politiche al 13,7. Ma sarebbe niente, se il flusso
si redistribuisse in modo equo tra gli altri alleati. Non è
così, invece. Nel perimetro della maggioranza, si stringe
un'anomala tenaglia. Al Nord aumenta l'"utilità marginale"
della Lega: il Carroccio non sembra intercettare nuovi consensi
rispetto al milione e 463 mila che prese al proporzionale alle ultime
politiche (pari al 3,9%), ma conferma che senza i suoi voti la Cdl
non regge. E non vince in comuni-chiave come Treviso e Vicenza,
per non dire dei centri minori, da Nervesa della Battaglia a Motta
Livenza. Al Sud prende quota il "valore aggiunto" dell'Udc:
il partito del presidente della Camera diventa primo nel voto di
lista siciliano, scavalcando proprio Forza Italia, e si radica in
molte aree del Mezzogiorno.
La tenaglia produce due effetti.
Da una parte, esaspera l'estremismo rivendicazionista e secessionista
di Umberto Bossi. Il Senatur non ha nascosto la sua soddisfazione.
D'ora in poi, ha un argomento politico in più, per spingere
l'acceleratore sulle riforme che gli stanno a cuore, a partire dalla
devolution: ha di fronte a sè un'altra battaglia cruciale,
le elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia che si terranno l'8
giugno insieme ai ballottaggi. Bossi ha già dimostrato un
"potere di interdizione", all'interno della Cdl, che va
molto al di là della sua effettiva consistenza elettorale:
se gli riuscisse il miracolo di battere Riccardo Illy con la Guerra,
il Carroccio non esiterà a prendere "in ostaggio"
Berlusconi. Molto più di quanto non fa già il lunedì
sera, con le cene di Arcore a Villa San Martino. Dall'altra parte,
la tenaglia accentua le istanze moderate dei centristi di Marco
Follini, che vedono premiata dalle amministrative la loro faticosa
ma proficua tattica del "containment" rispetto alle forzature
del Cavaliere e alle intemerate del Senatur. Anche in questo caso,
il sorprendente "sorpasso" siciliano su Forza Italia,
e il raddoppio dei consensi alla provincia di Roma, induce a sua
volta l'Udc a "radicalizzarsi" nella sua intransigente
moderazione. D'ora in poi anche Follini ha un'argomento politico
in più, per pretendere un graduale riequilibrio dei rapporti
di forza nell'alleanza, che lo gratifichi ben al di là del
milione e 194 mila voti che ottenne al proporzionale nelle politiche
del 2001 (pari al 3,2%). Un fattore che può incidere, sia
nel dibattito avvelenato sulla giustizia sia nella prospettiva di
un rimpasto di governo, che a questo punto diventa sempre più
realistica.
In mezzo a questa tenaglia,
finisce stritolata Alleanza Nazionale. Il partito di Gianfranco
Fini è il vero sconfitto di questo voto amministrativo. Silvano
Moffa, candidato uscente di An alla provincia di Roma, ha avuto
ieri il "torto" di crollare al primo turno di fronte all'ulivista
Gasbarra. Ma il vicepremier ha avuto, in questi due anni, un torto
molto più grande. Quello di sacrificare l'autonomia del suo
partito sull'altare della "governabilità". Quello
di appiattirsi sistematicamente sulle posizioni di Berlusconi, per
ottenere in cambio la "legittimazione" di una destra che
solo fino a quindici anni fa era considerata ai margini dell'arco
costituzionale. Un bene prezioso, per un leader "revisionista"
come lui. Ma le urne dimostrano che lo sta pagando a caro prezzo:
An sta cedendo consensi ormai da quasi dieci anni. I 4 milioni e
mezzo di voti al proporzionale del 2001 sembravano il fondo del
barile. Il crollo di ieri dimostra che il barile può essere
ancora molto profondo. Per questo, sia pure con una battuta ironica,
Storace già preannuncia fuoco e fiamme contro Bossi. Per
questo, sia pure con un colpevole ritardo, Fini fa sapere agli alleati
che "dopo i ballottaggi servirà un chiarimento approfondito".
Cosa significhi si vedrà. Ma per il Cavaliere è una
grana in più, forse la più seria.
Sul fronte opposto, dal test
di ieri l'Ulivo esce con una lieve speranza. La rimonta c'è
stata. Anche se non clamorosa. Arriva dopo una lunga serie di batoste:
le europee del '99, le regionali del 2000 e le politiche del 2001.
Si iscrive in un terreno fertile, già arato con la relativa
"tenuta" alle amministrative di un anno fa. È insomma
un piccolo seme, che vede germogliare di nuovo la Quercia di Piero
Fassino, primo partito a Roma e in grande spolvero a Enna, Caltanissetta,
Ivrea, Foggia, Brescia. Ma i Ds crescono, al contrario di quello
che successe alle politiche del 2001, anche ai danni della Margherita
di Francesco Rutelli. Un segnale che non può confortare.
Per tornare ad essere maggioranza, il centrosinistra deve allargare
il blocco della sua rappresentanza, non limitarsi a "cannibalizzarlo".
Il risultato di ieri rinvigorisce la strategia riformista dello
schieramento, sulla quale il leader della Quercia ha ancorato saldamente
il timone dell'alleanza. L'Ulivo farà bene a non illudersi,
e a non cantare inutilmente vittoria. La traversata è ancora
molto lunga, e molto difficile.
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