Antichissima divinità
uranica, il suo nome risale alla stessa radice indoeuropea di «cielo
splendente», Tyr in origine doveva essere ilpiù importante
degli Asi, avendo le stesse funzioni di divinità analoghe come
Zeus e Juppiter. Posteriormente, all'epoca della formazione dei nomi
della settimana nordica, divenne un dio della guerra, identificato dai
romani con il loro Marte. E difatti gli odierni Tuesday inglese e Dienstag
tedesco, sono i diretti discendenti di tale dics Martis nordico.
Negli attimi che
precedevano la battaglia gli intrepidi guerrieri si muovevano nervosamente,
stringendo con malcelata angoscia le luccicanti spade. In quei momenti
carichi di tensione essi rivolgevano i loro ultimi pensieri a Tyr, il
signore delle battaglie, nume tutelare della giusta vittoria. E, quasi
a voler esorcizzare il pericolo di una morte sempre incombente, incidevano
sulle else delle spade e delle lance le rune del nome divino: segni
indecifrabili per i non iniziati, ma dotati di un potere immenso. Su
quelle armi dedicate al dio i guerrieri, animati dal più profondo
rispetto, si chinavano pronunciando tre volte il nome di Tyr, invocando
la sua protezione e la vittoria. Tyr, però, non era il signore
dello scontro sanguinario, della violenza esasperata e dell'efferatezza
bellica: egli era il supremo protettore della guerra intesa come estrema
soluzione di una contesa tra due parti. Dio della guerra, quindi, ma
anche dio dei diritto. Tragica proiezione di una atavica concezione
della giustizia, intesa pessimisticamente non come incruenta conciliazione
delle parti, ma come scontro armato. E proprio come in un tribunale,
i litiganti nei loro combattimenti seguivano delle precise regole, fissando
luogo e data della battaglia. Come in un duello e perciò le guerre
erano spesso definite «duelli giudiziario, i litiganti si impegnavano
a rispettare l'esito della disputa: chi vinceva era dalla parte della
ragione, della giustizia.
I Romani ben interpretando
le funzioni di Tyr, lo chiamarono Mars Thingus, il «Marte del
thing», l'assemblea popolare intrisa di foia guerresca dove si
dibattevano questioni giuridiche. Nel thing si brandivano lunghe lance,
singolari portavoci della volontà popolare, che venivano alzate
o abbassate in segno d'assenso o di dissenso. Frequentemente però,
le dispute lasciavano il terreno più o meno innocuo del thing
e venivano trasferite sul campo di battaglia dove, per usare una perifrasi
cara agli antichi poeti nordici, aveva luogo lo Schwertding, il «thing
delle spade», durante il quale Tyr scriveva con il sangue dei
vinti la sua sentenza. Gli antichi, per dimostrare il coraggio e l'abnegazione
del dio, raccontavano come egli avesse perso la mano destra, divenendo
monco. Infatti, al pari di Odino, Tyr aveva dovuto pagare la sua eccezionalità
con una parte dei suo corpo, mutilandosi senza il pur minimo lamento.
Accadde che, agli inizi dei tempi, Loki, il dio degli inganni, generò
con la gigantessa Angrbodha,
la sinistra «apportatrice di male», lo spaventoso lupo Fenrir,
feroce bestia dalle fauci micidiali. Nei primi tempi il lupo si aggirava
nella cittadina divina, terrorizzando non poco gli abitanti di Asgardh.
E naturalmente nessuno aveva il coraggio di portargli da mangiare: solo
Tyr, intrepido e incurante del pericolo, si azzardava ad allungargli
ricchi bocconi. E così, in brevissimo tempo, Fenrir assunse dimensioni
gigantesche, divenendo sempre di più fonte di panico per gli
dèi. Inoltre sinistre profezie circolavano sul suo conto: si
diceva che alla fine dei tempi avrebbe sbranato Odino e dilaniato altre
divinità. Preoccupati, temendo per la propria sorte, gli dèi
si riunirono in consiglio e deliberarono di legare strettamente il lupo
e di esiliarlo in una remota località, quanto più lontano
possibile dai territori divini. Odino in persona si occupò della
faccenda e, senza perdere attimi preziosi, fece fabbricare dai suoi
fabbri una catena robustissima, con maghe di ferro spesse e pesanti.
Gli Asi, portando con loro la catena che chiamarono Loedhingr, si recarono
da Fenrir e lo convinsero a farsi legare, dicendogli che volevano mettere
alla prova la sua forza. Quando gli dèi videro l'animale avvolto
nelle spire metalliche, pensarono di essersi finalmente liberati di
lui. Ma con sommo stupore videro Fenrir liberarsi dalla sua momentanea
prigionia con un unico piccolo strattone. E dimenando la coda e digrignando
le zanne candide, quasi a voler atteggiare il suo muso in un ghigno
beffardo, il lupo allontanò Loedhingr con le zampe posteriori
e riprese, fiero di sé, a terrorizzare gli Asi. Gli dèi,
offesi e sempre più impauriti, commissionarono ai fabbri una
seconda catena, più pesante e spessa della prima. Questa seconda
catena poteva ben dirsi un capolavoro di solidità, con quegli
anelli simili a macigni bucati, finemente forgiati dai migliori fabbri.
Sicuri che un tale ferreo vincolo avrebbe immobilizzato per l'eternità
l'immonda bestia, gli dèi si recarono nuovamente da Fenrir. Mostrandogli
Dromi, questo il nome della nuova catena, lo sfidarono a dimostrare
su tale impegnativo banco di prova la sua forza ed il suo coraggio.
Il lupo, osservando Dromi, si rese conto della consistenza dei pesanti
anelli metallici e, temendo una sconfitta, pensò in un primo
momento di non sottoporsi alla prova. Ma stuzzicato dalle battute degli
dèi che lo accusavano di codardia e confidando nella sua accresciuta
potenza muscolare, Fenrir accettò la sfida. Questa volta il lupo,
che ansimava vistosamente sotto il peso di Dromi, sembrava definitivamente
sconfitto: l'abilità dei fabbri aveva avuto la meglio sulla forza
bruta della belva, imbrigliandola in un inestricabile groviglio, in
una trappola metallica senza scampo. Fenrir, però, non si dava
per vinto e, raccogliendo tutte le sue energie ed incanalando la sua
rabbia in uno sforzo estremo, si scosse con incredibile violenza: la
catena si spezzò! I pesanti frammenti, veri macigni metallici,
volarono tutt'intorno, cadendo al suolo accompagnati da fragorosi boati
e scavando profonde cavità. La bestia malefica, dando fondo alle
sue forze, si era liberata sia da Loedhingr che da Dromi. Tali avvenimenti
mitici trovano la loro eco negli arcaici modi di dire nordici: «liberarsi
da Loedhingr» oppure «sciogliersi da Dromi» significa
trarsi d'impaccio anche nelle situazioni più ingarbugliate. Sembrava
che nulla e nessuno potesse fermare il lupo che continuava ad aggirarsi
minaccioso nella dimora degli dèi in tutta la sua imponenza.
Odino, conoscitore della somma sapienza misterica, decise "ora
di ricorrere alle più sottili, ma efficaci, arti magiche. Inviò
un suo messo nello Svartalfheim, il regno degli Elfi scuri, gli gnomi
abitatori delle viscere della terra. Qui uno gnomo esperto di sortilegi
confezionò Gleipnir, un laccio apparentemente fragilissimo, soffice
e liscio come seta frusciante. Gìeipnir, così raccontano
gli antichi, era fatto di sei cose: il rumore del passo di un gatto,
i peli della barba di una donna, le radici di una montagna, i tendini
di un orso, il respiro di un pesce e, per finire, lo sputo di un uccello.
Erano tutti ingredienti impossibili a trovarsi, ma carichi di potenza
magica, capaci di stregare chiunque, anche l'essere più forte,
poiché essi agivano sulle insondabili profondità dell'animo.
A quel tempo, la belva si aggirava sull'isola Lyngi, proprio al centro
del lago Amsvatnir, regnando incontrastata nella ricca brughiera. Gli
dèi, ben conoscendo la segreta malìa celata in Gleipnir,
si avvicinarono ancora una volta al lupo, riproponendogli la sfida.
Fenrir, che intanto era cresciuto e divenuto più scaltro ed astuto,
degno figlio di Loki, osservando la fragilità apparente di Gleipnir
subdorò il tranello. Il lupo infatti pensò che se il laccio
era veramente così fragile come sembrava allora non sarebbe stato
certo un vanto per lui averlo spezzato; d'altro canto se si trattava
di una magia non avrebbe avuto scampo. In entrambi i casi non bisognava
accettare la sfida. Per non essere accusato di vigliaccheria, il figlio
di Loki escogitò un piano per far uscire allo scoperto gli dèi:
disse che avrebbe accettato la sfida solo se uno degli Asi, a mo' di
pegno, avesse messo una mano tra le sue fauci mentre veniva incatenato.
Gli dèi si guardarono in viso e, sentendosi ancora una volta
beffati, pensarono che la bestia infame era diventata maledettamente
furba. Ma Tyr, del quale era già noto il coraggio, si fece avanti
e senza indugio pose la sua mano destra in bocca al lupo: garantiva
con quel gesto la buonafede divina. E questa volta a nulla servì
la furia devastante di Fenrir: il laccio fatato gli impediva ogni movimento,
facendo fallire miseramente i suoi tentativi di liberarsi. Unica vittima
della rabbia di Fenrir fu la mano di Tyr che sparì, troncata
di netto, nella possenti mandibole. Vedendo dimenarsi senza posa la
bestia, gli dèi proruppero in una fragorosa e liberatoria risata,
indice del passato pericolo e della riconquistata tranquillità.
Solo Tyr non rideva. Gli dèi completarono la loro opera legando
l'animale ad una roccia che, con un martello enorme, conficcarono nelle
profondità della terra. Tra le sue mandibole misero, come morso
crudele, una spada affilatissima, cosicché, dimenandosi, emetteva
continuamente sangue e bava, copiosi e putridi liquidi che alimentano
il fiume sotterraneo Von. Immobilizzato alla roccia, Fenrir patirà
tale orribile sofferenza fino alla fine dei tempi quando, con uno sforzo
immane ed aiutato dalle malefiche potenze di Muspellheim, riuscirà
a liberarsi, divorando nella battaglia finale Odino. Allora Tyr, già
martoriato da un lupo, sarà vittima di Garmr, l'orrendo cane
posto a guardia degli inferi.