Thor
Sconfitto
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Il cielo rumoreggiava paurosamente e la terra era battuta da violenti temporali: il carro di Thor, trainato dai fenomenali capri, stava dirigendosi ancora una volta nella terra dei giganti. Spinti dalla noia, Thor ed il suo inseparabile compagno di viaggi, Loki, erano partiti da Asgardh alle prime luci dell'alba per un'ennesima avventura. A sera, spossati dalla fatica del lungo viaggio, i due divini viandanti giunsero nei pressi della casa di un umile contadino. Qui, desiderosi solo di riposarsi e di rifocillarsi, decisero di passare la notte. Poco più tardi - era quasi ora di cena - l'imponente signore del tuono prese i suoi due magnifici capri e con un colpo secco li uccise. Dopo averli accuratamente scuoiati con un affilatissimo coltello, badando a non intaccarne la pelliccia, Thor li immerse in una enorme pentola, occupandosi personalmente della loro cottura. Quando i due animali furono cotti a puntino, Thor invitò a cenare con lui il contadino, sua moglie ed i loro due figli, Thialfi, detto il «veloce», e Róskva. I commensali dei dio, che avevano assistito a tutta la scena in un comprensibile stato di stupore frammisto a paura, mangiarono con vigoroso appetito quella carne tenera e dolce come mai in vita loro ne avevano assaggiata: fu davvero un banchetto divino, dono di un dio potente, ma generoso e benevolo con i contadini suoi devoti. Dopo mangiato, Thor stese le pelli caprine dinanzi al fuoco ed ordinò ai commensali di adagiarvi sopra ogni singolo osso, anche il più minuscolo, senza frantumarli o scheggiarli. Il misterioso ordine del dio venne eseguito scrupolosamente e, così, illuminato dal chiarore del focolare, si vide un bel mucchio di ossi ben spolpati. li giovane Thialfi, forse per gustare il midollo, aveva inciso con la lama del suo coltello il fernore di un animale, ma nessuno se ne era accorto. E i contadini, dopo aver ringraziato il dio, andarono a dormire. L'indomani, prima che i passeri si alzassero in volo, Thor si svegliò: afferrò il suo martello Mjólnir e si avvicinò al cumulo d'ossi lasciato la sera prima. Avvolto nel solitario silenzio mattutino, il dio iniziò a calpestare le pelli ed il loro carico osseo, pronunziando delle incomprensibili e misteriose litanie. Un istante dopo, in virtù di un inspiegabile prodigio, i cadavericì resti si animarono e due splendidi animali balzarono in piedi, colmi di una magica vitalità. Uno dei capri, però, zoppicava vistosamente: sicuramente qualche sciagurato commensale non aveva seguito le istruzioni divine, compromettendo la completa riuscita del rituale. Colmo d'ira, addolorato per la menomazione di uno dei suoi amati capri, Thor iniziò ad imprecare furiosamente ad alta voce. Le nocchie delle sue mani, che stringevano rabbiosamente il corto manico di Mjólnir, erano diventate bianchissime; i suoi occhi rossi emettevano scintille; il silenzio mattutino fu squarciato da cupi rimbombi, sonora manifestazione dell'ira divina. Il sonno dei contadini fu bruscamente interrotto: tremante e pallido, temendo per la sua vita e per quella dei familiari, il povero capofamiglia si gettò ai piedi di Thor, implorando il suo perdono e promettendogli tutti i suoi averi. Il signore del tucno, dimostrando ancora una volta la sua benevolenza nei confronti dei contadini, accettò, ma, prendendo alla lettera le parole del vecchio, prese Thialfi e Rdskva che, da allora in poi, divennero i suoi fedeli servitori. Lasciati i capri, ormai inutilizzabili, Thor e Loki continuarono a piedi il loro viaggio verso l'estremo oriente: Thialfi, che era il più veloce e forte, prese sulle sue spalle lo zaino con le provviste. Dopo una giornata di estenuante cammino, i quattro giunsero in prossimità della costa. Dinanzi a loro c'era l'immensa distesa oceanica: senza perdersi d'animo, fabbricarono una barca e presero il lago. Non fu certo facile governare il rudimentale vascello tra le gigantesche ondate; tuttavia, dopo ore di perigliosa navigazione, avvistarono la costa e, animati da un tenace spirito d'avventura, sbarcarono. Senza nemmeno un attimo di incertezza, i quattro si incamminarono, proseguendo in quella terra sconosciuta il viaggio verso oriente. Quasì senza accorgersene, tanto era il loro entusiasmo, dopo un po' si trovarono circondati da giganteschi alberi, completamente accerchiati dall'oscurità di una fittissinia foresta. Per quanto tentassero di scorgere il cielo tra le chiome degli alberi, essi non riuscivano a vedere la luce del sole. Marciarono per ore ed ore, fino a quando, esausti, pensarono di trovare un rifugio per la notte. Scoperto un anfratto seminascosto dagli arbusti, vi penetrarono: come d'incanto si trovarono al centro di un'immensa sala, l'ideale per passare la notte. Ma non dormirono molto: verso mezzanotte sentirono la terra tremare sotto i loro piedi come se fosse preda di un violento terremoto. Le pareti della sala, che sembravano solidissime, ondeggiavano come foglie al vento. In preda al panico, Thor e compagni si alzarono di soprassalto, correndo in ogni direzione, nel disperato tentativo di trovare una via d'uscita per sfuggire a quella micidiale trappola. Sulla destra scorsero un'altra sala, un po' più piccola di quella da cui erano fuggiti, e, visto che il terremoto sembrava finito, si accasciarono, stanchi ed ancora impauriti, davanti alla sua entrata. Ma Thor, per tutta la notte, non cessò di abbracciare il suo rnartello. La mattina dopo Thor si alzò e con estrema cautela usci a perlustrare i dintorni. Fatti pochi passi, il dio si accorse che, proprio vicino al loro rifugio notturno, stava dormendo un gigante che russava come un colossale maiale. Thor, ascoltando quell'insolita musica corporale, si rammentò degli strani rumori che aveva sentito durante la notte insonne. Il dio capi che bisognava stare all'erta e, per prepararsi ad ogni spiacevole evenienza, indossò la sua magica cintura. Proprio in quel momento la terra fu scossa da un altro fortissimo terremoto: il gigante si era svegliato! La sua inole ed imponenza spaventarono il pur maestoso dio dei tuono che, con un fil di voce, gli chiese chi era e come si chiamasse. Il gigante, un po' sorpreso, disse di chiamarsi Skrimir, «vasto», e in tono scherzoso gli chiese, indicando la dimora notturna del dio, perché mai avessero preso il suo guanto. Thor, sempre più stupefatto, capi che la maestosa dimora nella quale avevano trovato riparo la notte altro non era che il guanto del gigante e quella sala a destra era l'incavo per il pollice! Thor era spaventatissimo: la sua forza e potenza gli sembravano ben poca cosa di fronte alla statura di un così maestoso gigante. E quando Skrimir propose loro di fare un tratto di strada insieme e di mettere in comune le provviste non gli rimase che accettare. Thialfi svuotò lo zaino divino nella bisaccia del gigante e, contrariati ma impotenti, ripresero la marcia. Skrimir, con le sue poderose falcate, era sempre davanti: i quattro, con il loro passo abituale, facevano doppia fatica solo a stargli dietro. Finalmente, dopo parecchie ore di quella tortura, il gigante si fermò e disse che voleva riposarsi un po'. Trovata una quercia di proporzioni adatte alla sua corporatura, Skrimir si sdraiò ai suoi piedi ed iniziò subito a ronfare, producendo quella musica terrificante che Thor e compagni ben conoscevano. Affamati e spossati, i quattro pensarono di aprire la bisaccia del gigante e di servirsi la cena. Ma i nodi fatti da Skrimir erano così stretti che, incredibile a dirsi, nemmeno la potenza del più forte tra gli dèi riuscì ad allentarli. Era veramente troppo! Thor, sentendosi beffato, afferrò il suo martello a due mani e, con rabbioso sdegno, colpi il gigante sulla testa. Skrimir, ricevuto il colpo che avrebbe frantumato qualsiasi cranio, si svegliò borbottando, un poco infastidito, che una foglia gli aveva disturbato il sonno andando a cadere proprio sulla sua testa. E vedendo i quattro svegli intorno a lui disse loro, indicando la bisaccia, di servirsi pure. A Thor ed ai suoi compagni non restò che avviarsi mogi mogi ai piedi di un albero e di rassegnarsi a dormire a stomaco vuoto. Ma Thor non poteva chiudere occhio: l'assordante ronfare del gigante gli rammentava l'insopportabile affronto subito. E, nel mezzo della notte, il dio ritornò alla carica: afferrò il martello e, con tutta la forza che aveva in corpo, colpi la nuca di Skrimir. Anche se aveva sentito chiaramente affondare il martello nella carne del gigante, Thor subì un'ulteriore umiliazione. Il solo deludente risultato fu di risvegliare il gigante che, questa volta, si lamentò perché, a suo dire, una ghianda gli era caduta sulla nuca, distogliendolo dai suoi sogni beati. Ancora una volta Thor aveva fallito miseramente: a nulla erano valsi la sua forza ed il suo consistente armamentario magico. Ma un dio non poteva arrendersi a nessuno, tanto meno ad un gigante: Thor aspettò che Skrimir riprendesse a russare per sferrare un terzo attacco. E quando, dopo un po', si riudì l'animalesco respiro, Thor, con tutta la forza rimastagli nei muscoli, vibrò un tremendo colpo sulle teinpie del gigante. li dio pensò di avercela finalmente fatta: aveva sentito il martello affondare fino al manico nel cranio del suo nemico. Ma con sommo stupore e disperazione Thor dovette assistere all'ennesimo smacco: Skrimir si destò, seccamente contrariato, lamentandosi che evidentemente non era possibile dormire in pace in quel posto, visto che ora degli uccelli gli avevano defecato in testa. Ormai albeggiava e, siccome doveva andare in un'altra direzione, il gigante si congedò dai quattro. Ma prima di proseguire per la sua strada, Skrimir rammentò loro che la terra verso la quale erano diretti era abitata da esseri ben più grandi di lui, che mal avrebbero sopportato l'insolenza di quattro nanerottoli: forse, aggiunse, era meglio se ritornavano sui loro passi. Benché fossero notevolmente spaventati, i quattro viandanti non persero il loro entusiasmo iniziale e, tirato un respiro di sollievo per la partenza di Skrimir, si rimisero in marcia. Trascorsero altre ore in mezzo alla foresta finché avvistarono una fortezza che si stagliava maestosa in mezzo ad una radura: non riuscivano a scorgere il tetto dell'imponente costruzione che, quasi come un nido d'aquila, era posta su un'altissima rocca. Impiegarono diverse ore ad arrivare ai piedi della rocca ed altrettante a scalarla, giungendo davanti alla porta principale stremati dalla fatica. L'accesso alla fortezza era sbarrato da una spessa inferriata che tentarono invano di smuovere: alla fine furono costretti a sgusciare come gatti tra le sbarre, penetrando poco valorosamente in uno sconfinato cortile. L'immenso spiazzo era dominato da un palazzo che proiettava la sua ombra fin oltre le mura della roccaforte. Indugiando, ma curiosi di scoprire a chi appartenesse, i quattro, approfittando di una porta socchiusa, vi entrarono: era la dimora del più potente re dei giganti, Utgardh-Loki, «Loki del recinto esterno». Sebbene si dessero da fare agitando freneticamente le braccia per rendere il dovuto omaggio al re, nessuno dei numerosi giganti che affollavano il salone regale li scorse. Solo dopo molti sforzi il re si accorse degli intrusi. Riconobbe dal martello e dal rosso dei capelli il signore del tuono ed espresse la sua meraviglia: possibile che quel minuscolo essere fosse il famoso Thor, il più forte degli dèi? Certamente le sue doti, pensava ad alta voce, si celavano sotto l'apparente debolezza: in ogni caso presto avrebbe potuto mostrarle. Il re spiegò ai visitatori che era usanza locale allietare la corte con prove di coraggio e quindi chiese loro di lanciare delle sfide ai suoi campioni. Il primo a farsi avanti fu Loki che, pensando di non avere rivale in tale specialità, sfidò chiunque a mangiare più in fretta di lui un'enorme quantità di cibo. Utgardh-Loki ritenne la proposta abbastanza divertente, anche se non era una vera e propria gara di coraggio, e fece venire un suo suddito, Logi, «fuoco selvaggio». Seduti uno dì fronte all'altro ad una tavola riccarnente imbandita, i due campioni diedero inizio alla gara, trangugiando a più non posso decine di portate. In breve tempo sulla tavola non rimase più nulla di commestibile, ma mentre Loki aveva mangiato tutta la carne lasciando solo gli ossi spolpati, il suo sfidante aveva divorato anche le ossa e, se non lo avessero fermato, avrebbe mangiato anche il tavolo e le suppellettili. Tutta la maestria di Loki nell'imbastìre tranelli e tendere trappole non era servita a nulla: umiliato dall'evidente sconfitta, il dio si ritirò, senza dire una parola, in un angolo. Il giovane Thialfi, pensando che non a caso era famoso con il soprannome di «veloce», chiese al re se uno dei suoi campioni era disposto a correre contro di lui in una gara di velocità. Utgardh-Loki, nonostante che la sfida provenisse da un ragazzo, convocò Hugi, «pensiero», ordinandogli di misurarsi con Thialfi. Poco più tardi, il re con tutta la sua fastosa corte ed i quattro ospiti si trasferirono su di una magnifica pista, creata apposta per simili competizioni: si stabili di fare tre prove, cosieché venisse premiata anche la resistenza. La prima gara fu vinta da Hugi che surclassò il giovane, infliggendogli una clamorosa sconfitta. La seconda volta, incitato dai suoi compagni e volendo riparare alla precedente sconfitta, Thialfi impegnò tutte le sue energie. Ma anche questa volta Hugi arrivò primo al traguardo e, tanto era il suo vantaggio, si fermò ad attenderlo. L'ultima prova dimostrò definitivamente che Hugi era di gran lunga il più veloce: tagliato il traguardo il campione reale ebbe il fiato per tornare indietro ed incitare Thialfi che ancora non si era mosso. Utgardh-Loki si rivolse, con il tono beffardo del vincitore, a Thor chiedendogli in quale prova desiderasse cimentarsi per mostrare le sue doti. Il signore del tuono, irritato per tanta insolenza, stava per mettere mano al suo martello: ma, ricordandosi delle magre figure fatte contro Skrimir, disse che nessuno sarebbe stato in grado di bere più di lui. Allora il re fece portare il corno dal quale era solito bere nelle occasioni ufficìali. Porgendolo a Thor disse che, in quella terra, era considerato un buon bevitore chi riusciva a scolarne il contenuto in un sol colpo; chi aveva bisogno di due manches era un semplice bevitore: ma, aggiunse, anche i bambini tracannavano l'intero contenuto in tre volte. Thor afferrò l'insolito calice: a prima vista non sembrava molto capace, ma era di lunghezza eccezionale. Il dio prese a bere con foga e smise solo quando sentì mancargli il respiro: era convinto di aver tracannato tutto il liquido contenuto nel corno. Ma con enorme stupore dovette constatare, su invito del sempre più divertito re, che il livello dei liquido era lo stesso di prima. Senza riposarsi un attimo, Thor afferrò di nuovo il corno e bevve più che potè. Quando si fermò era convinto di averlo definitivamente prosciugato: invece il liquido era ancora tutto lì dentro. Il re continuava a prendersi gioco di Thor, stuzzicandolo con apprezzamenti certo poco onorevoli. Punto nell'orgoglio, il dio non si lasciò prendere dallo sconforto e con caparbietà riprese a bere spasmodicamente, deciso a farla finita: "a fine guardò il corno e, accortosi che il livello del liquido era sceso solo di qualche linea, lo gettò lontano con rabbia. Anche il più forte degli dèi, il difensore di Asgardh, aveva fallito, ma non si dava per vinto: chiese al re di dargli un'altra possibilità per dimostrare il suo valore. Il re, che provava sempre più gusto nell'umiliare Thor e compagni, gli parlò di un passatempo a cui erano dediti i ragazzi del posto: sollevare il suo gatto. Utgardh-Loki gli indicò un gatto grigio, piuttosto grosso, che se ne stava placidamente su una tavola al centro dei salone. Immediatamente Thor si avvicinò al tavolo e tentò di sollevare il felino regale, quasi non prendendo sul serio quella prova. Ma dopo quel primo approccio semiserio, Thor impegnò tutte le sue energie: per quanti sforzi facesse, il gatto rimaneva saldamente ancorato al suo piedistallo. L'unico risultato delle fatiche divine fu che, alla fine, il gatto sollevò una zampa. Ormai fuori di sé, Thor si dimenava furiosamente come un leone ferito: voleva fare a pugni con qualcuno, sfogare la sua rabbia. Il re, continuando nella sua sapiente opera di demolizione psicologica, osservò che, dopo il suo fallimento anche in un gioco da ragazzi, nessuno avrebbe ritenuto onorevole battersi contro di lui. Ed aggiunse, tormentandolo ulteriormente, che forse solo una donna, ed anziana per di più, avrebbe potuto competere con lui. Apparve allora nella sala una vecchia zoppicante, smunta e miseramente abbigliata: era l'anziana nutrice Elli, «vecchiaia». Indispettito per il nuovo pesante affronto, Thor si scagliò con violenza contro la vecchia, dimenticando le sacre regole dei duelli. Ma i suoi colpi, i suoi disperati attacchi, non fecero indietreggiare di un millimetro la vecchia che, anche se con un passo lento, veniva avanti senza curarsi dei pugni,e dei calci di Thor. Infine si assistette ad uno spettacolo davvero inconsueto: il più potente degli dèi piegato in ginocchio davanti ad una vecchia decrepita. Tutte le sfide erano state perse, l'onore definitivamente compromesso: ai quattro non rimase altra scelta che accomiatarsi e far ritorno a casa. Il re, dimostrando la sua magnanimità regale, si offrì come loro guida fino al confine. Giunti fuori del territorio dei giganti, il re chiese a Thor se era soddisfatto del viaggio che aveva fatto. Ovviamente il dio rispose che si sentiva declassato e che ciò non poteva certo fargli piacere. Allora Utgardh-Loki abbandonò il suo abituale tono di scherno e, quasi volendo chiedere scusa, confessò d'aver usato dei trucchi per vincere le gare. E, stupendo l'incredulo Thor, aggiunse che aveva stregato lui ed i suoi compagni ricorrendo a dei potenti sortilegi, cosicché avevano preso per vero ciò che, in realtà, era solo il prodotto di allucinazioni indotte magicamente. Innanzitutto il gigante da loro incontrato nella foresta non era Skrimir, ma lui stesso che, saputo dell'avvicinarsi di Thor, gli era andato incontro per saggiarne la forza e studiare una possibile difesa del suo regno. I nodi che invano avevano tentato di sciogliere erano stati fatti coli un filo di ferro fatato e sigillati con formule misteriche. E quando Thor credeva di colpire il gigante, il suo martello si abbatteva sul terreno, provocando spaventosi terremoti e creando valli e dirupi che avevano modificato l'antico paesaggio. Anche i compagni del dio erano stati vittime della scaltrezza e della sapienza magica del re dei giganti. Cosi Loki era stato battuto dalla personificazione del fuoco selvaggio che, come si sa, divora ogni cosa, senza lasciare nulla. Il giovane Thialfi poi, sebbene fosse più veloce del vento, non poteva certo competere con Hugi che altro non era che la materializzazione del pensiero uìnano. Thor, infine, aveva bevuto da un corno la cui punta era immersa nell'oceano, cosicché la sua sete non avrebbe mai potuto prosciugare le distese oceaniche. Tuttavia, con sommo stupore dei giganti, il dio era riuscito ad abbassare notevolmente il livello del mare, dando origine al fenomeno delle maree. E naturalmente il gatto non era un gatto, ma il famoso «serpe del mondo», il gigantesco rettile che avvolgeva nelle sue spire il globo terrestre: fu un'impresa davvero eccezionale riuscire a fargli sollevare una zampa. Infine, concluse Utgardh- Loki, la vecchia decrepita contro la quale si era battuto Thor nell'ultima sfida non poteva certo essere sconfitta: era la vecchiaia. E contro l'inesorabile passare degli anni si può anche lottare, ma sempre invano, perché nessuno potrà sfuggire al lento decadimento fisico. Dopo aver svelato i suoi stratagemmi, il re disse che, ora che conosceva la forza di Thor, non gli avrebbe mai più permesso di entrare nel suo regno. Proprio nell'attimo in cui il signore del tuono gli scagliò contro il suo martello, Utgardh-Loki si volatilizzò, scomparendo nel nulla grazie ad un ennesimo incantesimo.
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