La
Principessa Tra Le Fiamme
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Evento centrale nella carriera di quasi tutti gli eroi leggendari, la conquista di una bella principessa, dopo aver superato barriere insormontabili: draghi, orchi, streghe, o, come in questo caso, una cortina difuoco, è un altro di quei motivi diffusi nel folklore europeo che ritroviamo nel ciclo di Sigfrido. Nella vicenda qui narrata però, l'eroe fa, per così dire, da controfigura al cognato, fungendo da trait d'union con la seconda parte del ciclo, rispettando così quella coerenza interna di cui abbiamo parlato in precedenza. Quando giunse nel
regno dei Nibelunghi, la sua fama lo aveva preceduto da tempo: tutti
conoscevano la sua esaltante impresa, l'uccisione del mostruoso drago
che terrorizzava gli abitanti di Gnita. Sigfrido, fierainente eretto
sul suo destriero Grani, trasportava il frutto del suo eroismo: le bisacce
colme dell'oro appartenuto al nano Andvari. Il re Giuki e sua moglie
Grimilde lo accolsero con gioia alla loro corte, presentandolo a tutti
i guerrieri ed i signori del luogo. Fu in quell'occasione che l'intrepido
Sigfrido conobbe la donna che doveva mutare le sorti della sua vita:
l'affascinante Gudhrun, figlia prediletta di Giuki. I due giovani, nel
caotico frastuono dei festeggiamenti, riuscirono a ritagliarsi dei brevi
attimi di intimità durante i quali si scambiarono teneri sguardi
di un amore improvviso. Dei resto la regina, somma conoscitrice dell'animo
femminile, aveva già intuito tutto: non ci volle molto per convincere
il re e, saltando un inutile periodo d'attesa, celebrare delle nozze
fastose, degne di tanta bellezza ed eroismo. Subito dopo la cerimonia,
Sigfrido, secondo le antiche usanze, entrò a far parte della
famiglia del re, stringendo un patto d'alleanza con i suoi figli Gunnar
e Hógni. I fratelli della sposa mischiarono gocce del loro sangue
con quello del cognato, unendo così i loro destini "in pace
ed in guerra", come recitave la formula di giuramento. Solo Gothorm,
figlio adottivo di Giuki, rimase fuori dalle cerimonie: il suo rango
non glielo permetteva. Passò del tempo, la leggiadra Gudhrun
conobbe le gioie della maternità, mettendo al mondo Sigmund e
Svanhild: la coppia di pargoli rallegrava le rare ore di pace di Sigfrido,
impegnato con i cognati a guerreggiare in terre lontane, accresciendo
sempre più la sua fama. Gunnar intanto si era perdutamente innamorato
di Brunilde, sorella dei re Atli. Sul conto della giovane si narravano
strane storie: si diceva, per esempio, che era stata una valchiria,
una vergine con elmo e corazza e che Sigfrido, in circostanze che nessuno
sapeva precisare, durante una delle sue peregrinazioni prima di giungere
tra i Nibelunghi, avesse tagliato con la spada la sua armatura. I più
maligni poi, considerando anche la sinibolicità di quel gesto,
parlavano anche di una tresca amorosa tra i due, aggiungendo particolari
piccanti alla storia. Tuttavia, rispettando i vincoli della fratellanza,
Sigfrido si offri di accompagnare Gunnar alla corte di Atli, per chiedere
la mano della fanciulla. Il re si mostrò ben disposto, ma replicò
che la sorella aveva posto una condizione, una prova che il suo futuro
sposo doveva superare. Brunilde abitava a Hindafiall, in un palazzo
circondato da fiamme, una muraglia incandescente i cui bagliori si scorgevano
da molto lontano: il suo pretendente doveva superare in groppa ad un
cavallo quell'insolito sbarramento, dimostrando così il proprio
coraggio. Gunnar provò più di una volta a fendere le lingue
di fuoco, ma il suo cavallo, Goti, che pure era noto per le innuineri
vittorie conseguite nelle gare equestri, si rifiutava di saltare, recalcitrando
rabbiosamente. Allora Sigfrido prestò il suo Grani al cognato,
ma anche questa volta non ci fu nulla da fare: il destriero rifiutava
di eseguire gli ordini di un estraneo. Per smuovere quella situazione
che durava ormai da giorni, Sigfrido ricorse alle virtù magiche
che aveva acquisito scottandosi con il cuore di Fafnir: assunse le sembianze
di Gunnar e, con un altro incantesimo, trasformò Grani in Goti.
Cosi, montato in groppa al cavallo, l'eroe si lanciò tra le fiamme,
superando incolume la barriera di fuoco. Dall'altra parte, felice dì
aver trovato il suo spose, Brunilde lo attendeva a braccia aperte. La
sera stessa, per espresso desiderio della principessa, si celebrarono,
senza eccessive formalità, le nozze. Loro testimone fu Gunnar
che nel frattempo aveva assunto, sempre per virtù di una magia,
l'aspetto di Sigfrido: ma data la stretta vicinanza non fu possibile
pronunciare le complicate formule per ristabilire le vere identità
e così Sigfrido passò la prima notte con Brunilde. Tuttavia
l'onore di Gunnar fu salvaguardato, perché, come gli aveva promesso,
Sigfrido finse di non sentirsi bene e, per evitare tentazioni, pose
la sua spada nel letto tra sé e la principessa. L'indomani, secondo
la tradizione, gli sposi si scambiarono gli anelli: in quel momento,
preso alla sprovvista, Sigfrido aveva con sé solo un anello proveniente
dal tesoro di Fafnir. Ed era proprio quello sul quale Advari aveva pronunziato
la sua maledizione, profetizzando eterna sventura al suo possessore:
ma Sigfrido non lo sapeva. Subito dopo l'eroe chiese di potersi allontanare
un attimo per organizzare con i suoi uomini il ritorno a corte. Giunto
nell'accampamento, ripeté i suoi incantesimi e tutto, identità
e cavalli, ritornò come prima. Naturalmente fu il figlio di Giuki
a ritornare nel palazzo di Brunilde, prendendo il posto che Sigfrido
gli aveva conquistato. Giunti a corte, si svolsero le cerimonie ufficiali
e tutti si congratularono con Gunnar per il suo coraggio. Nessuno, ovviamente,
era a conoscenza dello stratagemnia architettato da Sigfrido, tranne,
come di solito avviene, sua moglie Gudhrun, alla quale confidava ogni
cosa. Il suo carattere fiero, l'innato orgoglio ed una buona dose di
sprezzante superiorità resero Brunilde antipatica a Gudhrun.
Tra le due serpeggiava quell'astio, quell'odio represso che tante volte
è dato osservare quando le «primedonne» si fronteggiano
altezzose. Un giorno le due principesse si incontrarono al fiume, dove
stavano facendosi lavare i capelli dalle loro ancelle. Dalle occhiate
che si scambiavano, si intuiva che, in quella atmosfera esasperata da
tanti altri episodi precedenti, sarebbe accaduto qualcosa. All'improvviso,
infatti, si udirono le grida di Brunilde: si lamentava, con veemenza,
che l'acqua che bagnava i capelli di Gudhrun contarninava quella destinata
a lei. E aggiunse, con l'intenzione di ferire la rivale, che lei aveva
la precedenza perché suo marito era certamente più coraggioso
di Sigfrido. La iniccia era stata accesa: Gudhrun, con un sorriso irriverente
sulle labbra, le ricordò le imprese di Sigfrido, l'uccisione
dei drago, la conquista del tesoro. Dal canto suo, Brunilde disse che
di ben altra gloria si era ricoperto Gunnar quando, sprezzante del pericolo,
aveva superato le fiamme, mentre Sigfrido era rimasto a guardare. Allora,
non potendo più sopportare i continui affronti, Gudhrun le rivelò
la faccenda dei travestimenti. Brunilde, sicura di sé, la sfidò
a provare le sue assurde affermazioni. Con un sorriso beffardo la rivale
le mostrò un anello: era proprio quello donato da Brunilde al
suo intrepido conquistatore dopo la loro prima, inconcludente, notte.
Ed infierendo sempre più, Gudhrun descrisse minuziosamente l'anello
che Brunilde portava al dito, aggiungendo che si trattava di un misero
frammento dei tesoro conquistato da Sigfrido. Umiliata, offesa a morte,
avvolta in un desolato silenzio, Brunilde si allontanò, ritornando
alla sua diinora. Ma da quel momento, un unico pensiero albergò
nella sua testa: uccidere Sigfrido, lavare con il sangue dell'eroe l'onta
subita. Tessendo con abilità la sua trappola, non passava giorno
senza che Brunilde non spronasse il marito a vendicarla. Contemporaneamente,
ella istigava Hógni ad uccidere Sigfrido, facendogli balenare
innanzi agli occhi le immense ricchezze di cui sarebbe divenuto padrone.
Insomma, con astuzia e perseveranza diabolica, la donna riuscì
a convincere i due fratelli. Ma essi, legati dai sacri vincoli di fratellanza,
non potevano colpire Sigfrido: bisognava trovare un complice. Contando
sull'invidia che provava per l'eroe, avvicinarono Gothorm e gli parlarono
del loro piano: conoscevano il punto debole di Sigfrido, l'unico minuscolo
frammento della sua pelle che non fosse invulnerabile. Si sapeva, infatti,
che quando uccise il drago, il sangue del mostro gli schizzò
su tutto il corpo, rendendolo, per un'arcana magia, impenetrabile a
qualsiasi colpo di spada o di lancia. Ma tra le ascelle un tratto di
pelle non fu bagnato perché, proprio in quell'istante, una foglia
cadde da un albero e andò a poggiarvici sopra. Ounnar ed Uogni
accompagnarono Gothorm nella stanza dove dormiva Sigfrido e, siccome
il figliastro di Giuki non aveva una buona vista, gli guidarono la mano,
colpendo l'eroe nel punto fatale. Sigfrido, ormai colpito a morte, afferrò
immediatamente la mitica spada Gramr e la scagliò contro il suo
aggressore. Gothorm fu letteralmente spaccato a metà, proprio
come l'incudine sulla quale, anni prima, Sigfrido aveva saggiato la
robustezza della sua spada. E a nulla valsero i cruenti riti che Gothorm,
per preservarsi dai colpi nemici, aveva celebrato poco prima, uccidendo
un lupo e mangiandone il cuore e bevendone il sangue. Un attimo dopo
Gothorm e Sigfrido morirono, trascinati nello stesso destino dai perfidi
principi dei Nibelunghi. Intanto sul luogo del delitto era giunta Brunilde
che, all'improvviso, afferrò la spada di Sigfrido e si uccise.
Fu chiaro "ora che dietro l'odio si celava l'amore: la passione
per l'uomo che aveva superato la «prova del fuoco» la travolse.
Di fronte all'oro, Hógni e Ounnar non
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