Dal racconto che
segue emergono alcuni tratti del carattere di Loki, come ad esempio
la simpatica propensione a tirare brutti tiri a chiunque, quell'arte
del dispetto di cui è l'eccelso maestro. Mezzo per scovare sempre
nuovi sotterfugi, la furbizia del dio confina, qui, con la viltà,
estrema soluzione di fronte ai pericoli incombenti. Tra i motivi presenti
nel racconto, traspaiono inoltre alcuni temi - come quello dell'origine
e della fabbricazione di aurei tesori - che, posteriormente, arricchiranno
la tradizione folklorica di quasi tutto il Nordeuropa.
Preso da quella strana inalattia che è la noia, fonte di tutti
i mali e del desiderio di nuove sensazioni, un giorno Loki catturò
Sif, l'avvenente compagna di Thor. Le bionde chiome della leggiadra
signora delle messi stuzzicarono la fantasia di Loki che, spinto da
una ìrrefrenabile smania, iniziò a tagliarle, incurante
delle lacrime che solcavano il viso della dea. In breve tempo, lavorando
con demoniaco impegno, i bei capelli caddero tutti al suolo, mostrando
il triste spettacolo di un cranio femminile rasato a zero. Contemplando
la sua opera, l'infame Loki sghignazzava, pago della sua gratuita malvagità.
La povera Sif, preda dello sconforto più assoluto, riuscì
a liberarsi e, correndo a più non posso, si rifugiò tra
le possenti braccia del marito. Il signore del tuono, al quale Sif,
singhiozzando, aveva raccontato dell'affronto subito, si precipitò
ad Asgardh, deciso a farla finita una volta per tutte con quell'insolente
dì Loki. Solo l'abilità oratorìa, quel suo eloquio
mielato, salvarono Loki da una morte orribile: promise a Thor che si
sarebbe recato tra gli Elfi scuri per farsi confezionare una chioma
d'oro del tutto simile, se non più bella, a quella naturale che
aveva Sif. E, forse nel tentativo di ingraziarsi le altre divinità
promise che avrebbe portato altri strabilianti oggetti, dotati di magiche
virtù, che non avrebbero fatto rimpiangere le preziose ciocche
da lui recise. Inabissatosi nei tortuosi labirinti che conducevano nelle
oscure viscere della terra, Loki giunse nel territorio dei nai da tutti
chiamati «figli di Ivaldi» dal nome del loro progenitore.
Ben conoscendo le straordinarie capacità degli Elfi, Loki non
ebbe difficoltà a farsi forgiare una magnifica parrucca di besilissimi
fili d'oro lucente, abbaglianti più del sole. I portentosi artigiani,
depositari di arcaici segreti, gli costruirono anche la nave Skidhbiandnir,
vascello di inestimabile valore che una volta messo in mare, aveva sempre
il vento favorevole, anche se regnava la bonaccia. Inoltre, pronunciando
delle formule magiche, si rimpiccioliva al punto da potersi agevolmente
mettere in una tasca. Ma la strabiliante sapienza dei nani non conosceva
limiti: forgiarono anche Gungnir, una sensazionale lancia capace di
affrontare da sola il nemico, inseguendolo fino a colpirlo senza pietà.
Ormai Loki aveva ricevuto doni sufficienti a lenire la rabbia degli
dèi e poteva tornare nella cittadella divina. Ma, sempre alla
ricerca di nuove occasioni di scommessa, entrò nella bottega
dei fratelli Brokk ed Eitri, due fabbri. Adoperando il suo usuale tono
altezzoso, Loki iniziò a disprezzare il lavoro dei due artigiani,
affermando che non sarebbero mai stati capaci di realizzare tre oggetti
paragonabili, per bellezza e funzione, a quelli che aveva con sé.
I due fratelli accettarono la sfida e si misero al lavoro: Brokk prese
una pelle di porco e con cautela, la pose sulla fucina, raccomandando
al fratello di soffiare con il mantice fino al suo ritorno, senza mai
fermarsi, qualsiasi cosa accadesse. Eitri, seguendo le istruzioni del
fratello, manovrava con lena il pesante mantice, mantenendo la brace
ardente. All'improvviso entrò nella bottega, annunciata da un
fastidioso ronzio, una grossa mosca. L'insetto andò a posarsi
proprio sulla mano del nano, disturbando non poco il suo lavoro. Alcuni
insinuavano che fu lo stesso Loki, ricorrendo ad uno dei suoi truffaldini
travestimenti, a molestare Eitri, tentando così di distoglierlo
dal compito assegnatogli da Brokk. Difatti l'insetto punse con forza
la mano di Eitri, che però continuò, nonostante il dolore,
a soffiare con il mantice. Giunse allora Brokk che, compiaciuto con
il fratello per la sua abnegazione, tolse il primo prodotto da esibire
nella sfida con il dio: era un magnifico cinghiale, il cui dorso non
era ricoperto da normali setole, ma da sottilissimi fili d'oro. Naturalmente
il cinghiale fu chiamato Cullinbursti, «setole d'oro». Brokk,
non dimenticando che dovevano presentare tre oggetti, si rimise a lavoro.
Questa volta, come materiale di fusione, adoperò dei lingotti
d'oro massiccio. Eitri riprese il suo posto al mantice e prese a far
aria con potenza, mentre Brokk uscì dalla bottega raccomandandogli
di non smettere fino al suo ritorno. La solita mosca - insetto nato
per innervosire la gente - iniziò a volteggiare sopra la testa
dell'artigiano e, seguendo un suo preciso piano di disturbo, lo punse
sul collo. Conscio dell'importanza del compito affidatogli, Eitri strinse
i denti e, sopportando un dolore ancora più acuto, continuò
fino a quando non vide il fratello. Poco dopo arrivò Brokk e,
costatato che la mosca non aveva compromesso il lavoro del fratello,
estrasse dalla fucina un meraviglioso anello. L'aureo cerchietto aveva
lo strano potere di riprodursi ogni nove notti in otto esemplari identici
come gocce d'acqua: proprio per questo motivo lo chiamarono Draupnir,
«che gocciola». Bisognava fabbricare un altro oggetto, altrettanto
portentoso come i primi due. Brokk, che era la «mente»,
pose sulla fucina del ferro e, ancora una volta, rammentò al
fratello - il «braccio» - che tutto sarebbe stato inutile
se egli avesse smesso, anche per un solo istante, di soffiare con il
mantice fino al suo ritorno. Inutile dire che la mosca, animata sicuramente
da qualche potenza demoniaca, ricomparve e, ronzando incessantemente,
si avvicinò ad Eitri. L'insetto punse l'indefesso fabbro proprio
su una palpebra e, immediatamente, dei rivoli di sangue gli rigarono
il volto, impedendogli di vedere ciò che stava facendo. Solo
allora, e per un attimo, Eitri tolse una mano dal mantice per cacciar
via la mosca. In quell'istante ritornò Brokk e dicendo che tutto
stava per essere rovinato irrimediabilmente trasse dalla fucina un martello.
A causa dell'incidente il martello aveva un piccolo difetto: il manico
era un po' corto. Ma per il resto, che oggetto eccezionale! Una volta
scagliato contro un qualsiasi obiettivo, lo raggiungeva infallibilmente,
riducendolo in minuscoli frantumi. Come se non bastasse, esaurita la
sua missione di distruzione, ritornava nelle mani del lanciatore come
un boomerang. Inoltre, con appositi incantesimi, il martello poteva
diventare tanto piccolo da essere nascosto in una tasca. Arma onnimaciullante,
il martello fu chiamato Mjdlnir ' «che frantuma». I due
nani potevano considerarsi, e a ragione, orgogliosi di simili prodigiosi
prodotti e, confidando in una sicura vittoria, Brokk si recò
nella cittadella divina per confrontarsi con Loki. Il sacro concilio
degli Asi, riunitosi per l'occasione, designò Odino, Thor e Freyr
arbitri supremi della sfida. Loki mostrò i suoi tesori: donò
Gungnir, ad Odino, magnificandone le doti; a Thor consegnò l'aurea
parrucca dicendogli che, una volta poggiata sul cranio di Sif, i filamenti
si sarebbero radicati come veri capelli, crescendo splendenti sempre
più; la nave Skidhbladnir fu consegnata a 'Freyr e anche questa
volta Loki descrisse con sapiente aggettivazione le doti nascoste del
suo dono. I tre oggetti riscossero l'ammirazione degli dèi che,
ammaliati anche dall'eloquenza di Loki, non riuscivano ad immaginare
nulla che potesse soltanto eguagliarne il valore. Fu poi la volta dell'operoso
nano: porse al padre degli dèi l'anello Draupnir, raccontando
la sua eccezionale capacità di autoriproduzione, facendo balenare
davanti agli occhi divini lo spettacolo delle montagne d'oro che se
ne potevano ricavare, pose Mjdìnir nelle mani di Thor, al quale
descrisse il fenomenale potere distruttivo dell'arma, sottolineando
che contro di essa nulla avrebbero potuto i giganti; a Freyr regalò
il cinghiale dalle setole d'oro, dicendogli che avrebbe potuto cavalcarlo
sia in cielo che in terra o sulle onde del mare, anche di notte, perché
le sue setole avrebbero illuminato il tragitto, lasciandosi dietro una
scia luccicante che i comuni mortali avrebbero scambiato per stelle
cadenti. La sacra giuria senza esitazioni decretò la vittoria
del fabbro, poiché, dissero, i suoi doni erano preziosi, ma anche
utili. Il rnartello, ad esempio, sarebbe stata l'arma migliore per difenderli
dall'arroganza dei giganti. Infine, come si era soliti fare in quelle
occasioni, condannarono Loki a consegnare la sua testa a Brokk. L'abile
architetto di tante truffe, il signore del sotterfugio, vide andare
in frantumi tutta la sua perfida sapienza: a nulla, infatti, valsero
le sue offerte, formulate ricorrendo a quell'arte della persuasione
che più di una volta lo aveva salvato da simili pericoli. Il
fabbro fu irremovibile: a nessun costo avrebbe rinunciato alla testa
di un simile spaccone. A Loki, «vergogna degli Asi», non
restò che ricorrere ad una ignominiosa fuga: calzate magiche
scarpe che gli consentivano di correre sull'acqua e attraverso il cielo,
il dio iniziò una frenetica corsa e, deludendo sia il nano che
gli dèi, sparì. Thor, che non poteva sopportare l'ombra
di vigliaccheria piombata sugo dèi, scopri il rifugio di Loki
e lo catturò, consegnandolo subito a Brokk. Protetto dal più
forte degli Asi, l'artigiano si preparava a staccare la testa dei suo
sfidante quando, sottilizzando sul significato letterale delle parole,
Loki disse che poteva fare tutto ciò che voleva della sua testa,
ma doveva lasciare intatto il collo: avevano scommesso la testa, nient'altro
che la testa. Di fronte a tanta sfacciataggine, Brokk non si perse d'animo
e, deciso ad umiliarlo fino in fondo, prese un coltello e dello spago
e tentò di forare le labbra di Loki: voleva cucirgli la bocca,
per impedirgli di pronunziare altre parole di sfida o di disprezzo.
Ma il coltello
non tagliava, Il fabbro, recitando una delle sue segrete formule, fece
aprire dal nulla la lesina con cui erano soliti, lui ed il fratello,
forare le pareti. Questa volta le labbra del dio perdente vennero trafitte
con facilità e lo spago potè passre tra i fori e sigillarle.
Loki aveva avuto una giusta punizione: si trattava di un supplizzio
dolorosissimo per lui, abituato a costruire frasi pompose, compiacendosi
al solo loro suono. Purtroppo, poco dopo, Loki riuscì a strappre
i pur forti nodi e, ormai libero, potè continuare ad imbastire
tranelli avvalendosi del suo eloquio forbito.