Singolar
Tenzone Contro Hrungnir
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I singolari particolari che arricchiscono questo ennesimo episodio delle gigantomachie di Thor (si vedano, ad esempio, il cuore tricornuto del gigante e la costruzione di un colosso d'argilla), hanno dato luogo ad elaborate interpretazioni. Probabilmente, rimanendo nel campo delle ipotesi, nelle trame narrative si cela anche la descrizione di una mitica iniziazione di grado superiore, durante la quale Thor - guerriero prototipico - deve dimostrare il suo coraggio in quello che è il suo primo duello «ufficiate». Accadde che un giorno Odino si trovasse a passare nella terra dei giganti. In groppa a Sleipnir, il magnifico destriero ottipede, il padre degli dèi cavalcava fieramente nei cieli dello Jdtunheim. L'elmo d'oro massiccio che rifletteva i raggi del sole sulla terra non poteva certo passare inosservato: tutti i giganti guardavano, estasiati e sorpresi, quell'insolito spettacolo, chiedendosi chi poteva mai essere il misterioso cavaliere celeste. Hrungnir, forse un po' invidioso, saltò in groppa a Gullfaxi, uno stallone dai muscolì guizzanti e - particolare che accresceva la sua bellezza - dalla criniera fatta di lucentissimi aurei filamenti. Il gigante, sicuro di sé, si avvicinò al divino cavaliere e, con tono sprezzante, gli disse che si, certo, aveva un bel cavallo, ma non poteva assolutamente competere con il suo. Odino, offeso da tanta spavalderia, per tutta risposta spronò Sleipnir e, veloce come il fulmine, scattò in avanti, sfidandolo. Per nulla intimorito, ignaro del magico trotto di Sieipnir, Hrungnir lo inseguì, lanciandosi in una corsa spericolata tra monti e valli sconosciute. Ma sebbene Gulìfaxi galoppasse più veloce che mai, non riusciva a raggiungere il grigio destriero: le sue otto zampe gli davano uno slancio incredibile, muovendosi freneticamente senza il minimo sforzo. Cosi, in brevissimo tempo, i due cavalieri furono davanti ai cancelli di Asgardh e, senza nemmeno accorgersene, Odino trascinò nella cittadella divina il gigante ed il suo cavallo. Ossequiosi alle sacre regole dell'ospitalità, gli dèi offrirono da bere a Hrungnir. E, considerata la gigantesca corporatura dell'ospite, lo servirono con i possenti calici da cui era solito bere Thor. Il gigante, che era rimasto senza fiato a causa dell'eccezionale sgroppata, si scolò parecchi tini di idromele, la preziosa bevanda divina. Ma non era abituato ad un simile nettare: ormai del tutto sbronzo, iniziò a fare il gradasso; disse che avrebbe preso la Valhalla e la avrebbe portata con sé nella terra dei giganti; avrebbe sprofondato nelle viscere della terra l'intera Asgardh e disperso tutti gli dèi tranne Freya e Sif: le bellissime dee avrebbero allietato i suoi giorni. Allora, irritati dall'ingiurioso sproloquio del gigante, gli dèi misero da parte ogni considerazione e, stufi delle sue smargiassate, chiamarono Thor, il loro forzuto difensore. Annunciato da fulmini e boati, il rosso signore del tuono arrivò in un baleno e, indispettito per la presenza di uno dei suoi abituali nemici in quel sacro luogo, chiese chi mai gli avesse dato il permesso di entrare. Fu Hrungnir stesso a rispondergli, dicendo che la colpa era del sommo Odino. Ma Thor, stringendo il suo martello e lanciandogli occhiate di fuoco, non volle sentire ragioni: di lì a poco gli avrebbe frantumato il cranio - disse - facendolo pentire della sua arroganza. Hrungnir, puntando sul senso dell'onore di Thor, si lamentò di non avere con sé alcuna arma: sarebbe stata una vigliaccata, un'azione non degna di un dio, approfittare in quel modo di un gigante disarmato; e senza mai abbandonare il suo tono deciso, lo sfidò a misurarsi con lui in un regolare duello. Nonostante che avesse combattuto ed ucciso tanti giganti, era la prima volta che Thor veniva sfidato a «singolar tenzone», con tutti i crismi della cavalleria. Naturalmente accettò, stabilendo il luogo e la data della disfida. Giunto nella sua terra, Hrungnir raccontò le sue avventure e del duello: immediatamente i giganti, che conoscevano la potenza delle magiche arnù di Thor, pensarono che la forza, seppur colossale, di Hrungnir non sarebbe bastata. E la posta in gioco era altissima: se Thor avesse vinto li avrebbe certamente uccisi tutti. Così, trascinate delle montagne di fango sul luogo dei duello, iniziarono a plasmare un colosso d'argilla, un gigantesco manichino da affiancare a Hrungnir nella solenne sfida. Poco più tardi si vide una mastodontica forma uínana, che proiettava la sua ombra per metri e metri. Al fangoso gigante mancava però la vita e perciò, dopo aver scavato una fossa nel suo torace, vi inserirono il cuore ancora palpitante di una giumenta: il più grosso che avevano trovato. Del resto, si dice che Hrungnir possedesse altre qualità eccezionali: il suo cuore, ad esempio, era di dura pietra, con tre punte ricurve. Inoltre la sua testa era simile ad un grosso macigno, tanto che alcuni, esagerando, affermavano che il gigante altro non era che l'incarnazione di una montagna di granito, capace di muoversi e di pensare in virtù di qualche incantesimo. Di sicuro Urungnir aveva, a mo' di scudo, una roccia pesantissima; nefl'altra mano, come unica arma d'offesa, aveva una pietra molaia, una di quelle durissime selei usate per affilare le lame dei coltelli. E venne il giorno stabilito. Il dio, sul suo carro trainato dai capri, si mise in cammino, accompagnato dal giovane Thialfi, suo fedele servitore. Al passaggio del carro divino le montagne si scuotevano, spaccandosi e precipitando in immense voragini; tremende scariche di grandine tormentavano le colture; il cielo rosseggiava, attraversato da saette incandescenti. La collera divina si manifestava con tutti i suoi attributi atmosferici a mano a mano che si avvicinava al teatro dello scontro. Ormai Thor era stato avvistato dai due giganti che, ritti e maestosi, lo aspettavano. E certo la visione di tutti quei tristi presagi di morte e di distruzione dovette impressionare non poco i due sfidanti. Si raccontava, a questo proposito, che il colosso d'argilla, terrorizzato, non seppe controllare le sue fangose visceri e, con sintomatico abbandono, se la fece addosso, inondando di lercia urina il terreno circostante. Urungnir, però, non si scoraggiò: fiero e minaccioso, continuava a reggere saldamente l'enorme scudo granitico, mentre faceva volteggiare la micidiale selce, pronto a colpire. In quell'occasione Thialfi si rivelò abile stratega: si avvicinò a Hrungnir e, fingendosi una spia, gli disse che, contrariamente a quanto era solito fare, Thor lo avrebbe attaccato dal basso, spuntando inaspettatamente da sotto i suoi piedi. Allora l'ingenuo gigante prese il suo scudo e, dietro suggerimento del giovane, lo piazzò sotto i piedi. Un istante dopo, Hrungnir senti il fragore del cielo tuonante e, lambito da fiamme altissime, vide il carro di Thor sfrecciare fulmineo contro di lui. Immediatamente il gigante gli lanciò contro l'aguzzo proiettile roccioso con tutta la sua forza. Ma il martello divino, il portentoso Mjólnir, già volava contro il cranio di Hrungnir: le due armi si scontrarono per l'aria, a metà corsa. La scuce fu spaccata in una miriade di frammenti che caddero al suolo: da quelle schegge, dicevano gli antichi nordici, si ricavava la materia prima per le pietre molaie. Ma uno di quei frammenti andò a conficcarsi nella testa di Thor che, privo di conoscenza, si abbatté al suolo. Intanto Mjdlnir, dotato dello stupefacente potere di colpire sempre il suo bersaglio, aveva raggiunto il cranio di Urungnir, maciullandolo orribilmente, e devastato il suo corpo, riducendolo in pezzi: una gamba volò via, cadendo proprio sul collo del dio accasciato lì vicino. Anche Thialfi si era dato da fare e, sebbene non si trattasse di un prode avversario, aveva ridotto in una informe massa di fango l'alleato di argilla di Hrungnir. Lo scontro era cessato, ribadendo ancora una volta la superiorità di Thor e la supremazia divina. Ma il signore del tuono giaceva immobile sotto il peso della coscia del gigante, tormentato, per di più, dal lancinante dolore causato dalla scheggia di pietra molaia. Thialfí tentò disperatamente di liberare il suo padrone, ma i suoi sforzi nulla poterono contro un simile peso. Accorsero allora tutti gli dèi e, formando una composita squadra, tentarono di smuovere l'ormai putrida e marcia gamba. Ma anch'essi fallirono. Tra l'incredulità generale, si avvicinò il piccolo Magni, ancora esitante sulle sue tenere gambette - era nato solo da tre giorni - e, senza sforzo apparente, liberò il genitore. Grande fu la gioia di Thor che, fiero del suo ultimogenito, frutto di un sacrilego coito con la gigantessa Jarnsaxa, volle premiarlo adeguatamente: catturò lo splendido Gullfaxi e glielo regalò. Alcuni maligni dicevano che in quell'occasione Odino si adirò molto con il figlio, perché avrebbe voluto per sé quello stallone che aveva sfidato il suo Sleipnir. Ma le sofferenze di Thor non erano finite: rimaneva la scheggia conficcata nel cranio. A quei tempi viveva, da qualche parte in quel mondo primordiale, una vecchia megera di nome Groa, moglie di Aurvandili, detto il «coraggioso». La donna era famosa perché conosceva parecchi incantesimi e misteriose formule. Il dio si recò dalla maga per essere liberato da quel terribile ed anomalo «mal di testa». Groa prese tra le sue mani la testa di Thor ed iniziò ad intonare dei canti magici: al suono di quelle litanie il dolore si allontanò e la scheggia prese a uscire dal cranio. Entusiasta per la fenomenale guarigione, il dio non aspettò che la fattucchiera gli annunciasse la fine del rituale e, pensando di farle cosa gradita, le raccontò che aveva visto suo marito. Groa, che non vedeva il suo sposo da anni e che, addirittura, lo riteneva morto, interruppe di colpo il trattamento, esortando Thor a raccontarle tutto. E il dio le disse che, durante uno dei suoi viaggi nello Jótunheim, lo aveva trasportato in una cesta, aiutandolo a guadare un fiume dalle impetuose correnti gelide. Ma l'ardimentoso consorte della maga aveva voluto sporgere la mano fuori dal cesto, nonostante che Thor lo avesse avvertito di non farlo perché la temperatura era davvero bassissima. Difatti il pollice di Aurvandili si congelò e il dio, scongiurando l'imminente cancrena, glielo aveva tranciato. Forse per far piacere alla sua guaritrice, Thor le indicò una stella - alcuni dicevano che si trattasse delle cosiddetta «stella mattutina» - dicendo che era il pollice del marito, da lui scagliato nel firmamento per esprimerle la sua gratitudine. Dopo un po', poiché il rituale terapeutico era stato interrotto, la scheggia ricominciò ad affliggere Thor. Non c'era più rimedio: una volta interrotta la sequenza magica, non la si poteva riprendere mai più. Tuttavia, disse la fattucchiera, solo quando qualcuno sulla terra avrebbe lanciato in aria una pietra molaia, il frammento conficcato nella testa divina si sarebbe mosso, arrecandogli tremende sofferenze. là questa la ragione per cui, nell'antica cultura nordica, le pietre per affilare erano circondate da un alone di sacro rispetto e non era consentito giocare con esse.
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