RAFFAELE CORSO: Scritti di Raffaele Corso      (1)

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Da: CALABRIA LETTERARIA , a. VI, n. 5-6 (fasc. 65-66), 195

 

La civiltà italiana e le tradizioni popolari  

 

Nessuno dei nostri  demopsicologi o demologi, in quasi un secolo, più o meno, di ricerche fatte in ogni campo della vita del popolo e in ogni angolo della penisola, ha atteso a studiare gli spiriti e le forme della civiltà italiana attraverso le tradizioni popolari.

      Come è noto, queste conservano e trasmettono non solo, ma mantengono in vita il complesso di quelle norme, che accompagnano una gente o una stirpe nel suo cammino, attraverso io tempo e lo spazio, e costituiscono uno dei segni più caratteristici dell’origine di una Nazione, sia che si considerino dal punto di vista storico, per la secolare osservanza degli usi, sia che si riguardano da quello della realtà attuale, come forza operosa ed operante nella vita sociale.

         Varie sono le ragioni che concorsero a ritardare, nello sviluppo degli studiosi, questo concetto della tradizione come elemento vivo nella civiltà nazionale. Sessanta e più anni fa, nel periodo più fervoroso delle raccolte che venivano ad ingrossare il repertorio delle curiosità degli eruditi, esso non si era ancora fatto strada, e, soltanto oggi, nella luce dei nuovi tempi si è affacciato in relazione con le nuove conquiste sociali e politiche,  dell’Italia.

         In un primo momento, sotto l’impulso delle dottrine etnico-linguistiche, che facevano degli Ariani i primogenitori degli Indogermanici, meglio detti, poi, Indo-europei, lo studio delle tradizioni popolari si orientò verso l’indagine comparata dei miti. Si distinse, allora, l’alta e la bassa mitologia, meglio detta «mitologina»; quella per indicare i racconti e le avventure dei numi abitatori dell’Olimpo, questa per designare le imprese e le opere delle fate, degli orchi, dei draghi, e simili; e si disse che la prima era tramontata per sempre col paganesimo, e che la seconda  continuava nelle campagne e nei casolari, costituendo un patrimonio comune ai discendenti delle famiglie che primamente popolarono l’Europa.

         Più tardi, quando l’entusiasmo per la scuola etnico-mitica si attenua,  la tradizione popolare trova il suo solido terreno nell’ambito degli studi storici,  ai quali diceva di apportare i documenti tradizionali ad integramento delle fonti scritte.  Non  manca, in tale tempo, chi osa contrapporre alla storia maggiore, che  è consacrata negli atti archivistici e che attende a ricostruire le imprese dei Principi e dei Re, la storia minore, che è contenuta nella tradizione del popolo e ritrae le oscure vicende dell’umile plebe.

         Da qui, poi l’idea della demopsicologia come «studio delle classi povere», rappresentate nel mondo della cultura, la lotta di classe, che da tempo fermentava tra il popolo,  da una parte - «l’eterno diseredato, che si faceva prendere dai signori della intelligenza i germi fecondi dell’anima sua, i tempi lirici,  invenzioni narrative, le sue aspirazioni e le sue rivolte,  i suoi miti,  i suoi proverbi, le sue salutari esperienze delle erbe e delle acque, le sue tradizioni d’ogni maniera» - e l’aristocrazia e la borghesia della cultura dell’altra,  che «pregiavano solo la loro storia, la loro poesia, la loro morale, la loro religione,, sorridendo con supremo disdegno dell’umile polla a cui avevano attinto.»

         Come si vede, attraverso l’esame dei vari aspetti della tradizione, da quello mitico a quello storico, a quello sociale,  e via dicendo, sfuggiva ai demologi l’aspetto principale della nuova ricerca, quello che tutti gli altri comprende e vivifica, facendo vedere che gli sparsi e spesso spregiati «rottami di antichità», che il volgo gelosamente conserva, sono i segni della millenaria vita della razza e della sua civiltà, considerando questa come espressione di quella.

         Il criterio opposto a quest’ultimo concetto, che si va ogni giorno meglio affermando, è rappresentato dall’«antropologismo», ossia da quella dottrina o scuola che spiega le analogie che ricorrono negli usi, nei costumi, nelle leggende, ecc…. dei popoli con «l’identità dello spirito umano», e concepisce le tradizioni popolari come «sopravvivenze», cioè come superstiti manifestazioni di fasi mentali sorpassate dall’umanità civile nella sua evoluzione. 

         Invero il contrasto, a prima vista grave, si può ridurre ai minimi termini, ove il principio della identità si contenga entro i limiti compatibili con la conformità dello spirito nazionale, e  si consideri la sopravvivenza non come in quid spento,  ma come un elemento vivo.

         Non è possibile vedere nelle tradizioni popolari, che  comprendono un grandioso patrimonio di proverbi, di canti,  di racconti, di usi e di costumanze, un cumulo di «relitti» o di «rottami» o di «ruderi», quando si sa che esso sono radici che si sprofondano nel terreno della nostra vita etnica più antica e sono atte a rigermogliare. A tali radici sempre vive nel sostrato nazionale, allude un dotto romeno, Ovidio Densusianu, nel suo libro La vita pastorale nella poesia popolare, polemizzando contro i sostenitori delle facili teorie.«Nel folklore, come nella filologia – egli dice – oggi non di può più procedere per forza di formule prestabilite, per astrazioni, senza tener conto del complesso di fatti, dei loro legami e di tutto ciò che essi contengono come sfondo reale, come espressione d’un genere di vita … Solo partendo dalla realtà, dalla vera vita d’un popolo possiamo spiegarsi ciò che c’è di caratteristico, sia riguardo alla lingua, sia riguardo alla tradizioni popolare».

         Posto il principio che la tradizione, nel senso sopradetto, costituisce uno dei più genuini caratteri dell’esistenza morale d’un popolo, è evidente che più l’indagine si approfondisce e meglio risaltano i segni della stirpe e della razza. E qui, richiamando un vecchio paragone, possiamo raffigurare la tradizione ad uno strato geologico, che mostra, a chi sa scrutarlo, non solo l’intima natura sua, ma i successivi depositi storici, lasciando scoprire nei terreni più antichi le radici della vita primitiva.

         L’Italia, magnifica espressione etnica, offre strati notevoli nella storia delle sue genti e delle sue costumanze. Dagli studi del Bellucci, del Marro,  del Mayr, e di altri sappiamo che oggetti, costumi ed ornamenti, che si trovano attualmente nella vita popolare, erano noti ai lontanissimi progenitori dell’età del bronzo, del ferro e della pietra levigata. Dalle ricerche di altri studiosi sappiamo che non tutto dell’antichissima e gloriosa civiltà etrusca è scomparso, se se ne rinvengono tuttavia, qua e là, le vestigia negli usi e nei costumi del popolo. La contessa  Martinengo Cesaresco osservò un giorno, nella campagna toscana, che la donna che le faceva lume, portava in mano uno lucerna identica a quelle che si trovano nelle tombe dell’antica Etruria; un altro nobile appassionato delle tradizioni, il Conte Alessandro ninni,  rilevò scorrendo i registri dei pescatori illetterati dell’Adriatico, che accanto ai simboli figurativi indicanti le barche,  vi erano allineati dei segni corrispondenti in gran parte ai caratteri numerali etruschi, così le unità, le cinquine, le decine, le centinaia e le migliaia. E, mirabile cosa poi,  l’orafo Castellani, dopo lunghe ricerche e studi fatti indarno, riuscì a scoprire in un dimenticato villaggio dell’Appennino, fra rozzi montanari, la maniera di lavorare l’oro etrusco, che fino ad allora era rimasto un enigma.

         Più vasto e profondo è il retaggio latino. Esso è nella nostra natura, nel carattere, nella vita etica e sociale, e si manifesta con maggiore evidenza laddove l’uomo si sottrasse alla deleteria influenza della civiltà cosmopolita, che tutto pretende di uniformare. In molte regioni, nei borghi e nelle campagne, la casa  conserva io tipo romano, non solo nella costruzione anche nell’organizzazione interna; sicché ben disse l’abbate Dorsa, riferendosi alla Calabria; che entrando nell’abitazione del contadino, troviamo al primo ingresso io focolare,, che è posto nel centro, come il Lalarium, e che è il luogo presso cui si riceve, si trattano gli affari, si apparecchia il desco, si recitano le preghiere, durante le quali il         padre di famiglia esercita l’ufficio di sacerdote.

         Silio Italico e Orazio Flacco rievocando il primo la Mensae circa focum;e il secondo i positos vernas … circum renbidentyes Lares dovettero avere davanti alla mente una simile scena.

         Romana è, poi, l’organizzazione della nostra famiglia popolare, per l’autorità del capo, che è emersa dalla formula: «Padre, padrone» e per la modestia e l’operosità della donna, compendiate nel triplice aforisma: Fa la lana, corre alla campagna ed è donna guardiana. Se quest’ultima richiama alla memoria il precetto latino: Domum mansit, lanam fecit; quell’altra ricorda l’austera figura del Pater familias.  Gioia della famiglia è la figliolanza. Sopra una culla di legno, nel Lazio, si leggono queste dolci e belle parole:

«La provvidenza di Dio segue solo

l’abbondanza dei figlioli»

che fanno pensare a quelle dell’Epigrafe del Mietitore, piena di umano e santo orgoglio:

         Et genui et vidi iuvenes carosque nepotes.

In un proverbio è consacrato il seguente avvertimento:

         Da uomo senza figli,

         né per elemosina

          né per consigli.

e questo fa ricordare il divieto romano di far da testimone al cittadino senza moglie.

         L’agricoltura rispecchia nelle sue consuetudini l’anima antica e la romana sapienza, e lungo sarebbe per noi il voler spigolare dai lavori dei dotti, che alla materia dedicarono le loro ricerche, dati di raffronto riferentisi a questo o quell’aspetto della tradizione latina nella vita popolare odierna. Nei più umili usi lo spirito di Roma è sempre presente. Il bifolco che arando, infila al muso dei buoi un cestello a guisa di musoliera, e che li alletta ad abbeverarsi col fischio, ricorda le antichissime norme segnalate da Columella (cibum cum absumpserint bioves ad acquam duci oportet, sibiloque allectari, quo libentius bivant), da Catone (ficellas habere oportet boves) e da Plinio, che spiega la ragione della musoliera bovina, con queste parole : Si inter arbores vitesque aretur, fiscellis capistrari oportet, ne germinum tenera praecerpant.

         Del pari, all’editto del Pretore romano, De glande legenda, ci riconduce la consuetudine contadinesca, che distingue, per quanto riguarda la raccolta dei frutti pendenti o caduti sul fondo altrui, le ghiande dalle olive, dicendo.

La ghianda dove è,

L’oliva di chi è.

In parecchi di quei giuochi fanciulleschi, che vediamo svolgersi nelle aie e sul sacrato dei borghi o dei villaggi, le formule che sembrano incomprensibili,, sono latine; e talvolta giuoco e parole ci riportano ad avvenimenti del tempo romano. Basta ricordare lo sbricchi tarantino, in cui la formula dialogata:

-         Tùmene seie.

-         Apre porta.

-         Quante ne porta ?,

va  latinamente ricostruita, in questa maniera:

-         Tumulus es ?

-         Aperi portas

-         Quot ne portas?

Secondo la tradizione locale, questo gioco ha una notevole importanza storica perché si crede alluda al tentativo dei congiurati tarantini di assalire, col concorso di Annibale, la rocca occupata dai soldati romani, dopo aver subordinatola sentinella, che rispondeva appunto al nome di Tumulus.

     Anche nei canti popolari l’eco latina si fa sentire, e qualcuno ha cercato di ricondurre i contrasti vernacoli odierni a quelli antichi. I canti brevi ed alternati, che sono composti per lo più di due versi, e che Teocrito e Virgilio mettono in bocca ai loro pastori, corrisponderebbero ai nostri stornelli, i quali consistono in due endecasillabi, tolta l’invocazione del fiore,  E’ supponibile che un tale uso si conservasse nel medioevo e, giù giù, fino ai nostri tempi.

     Comunque, prescindendo dalla tradizione classica, la grande massa delle canzoni popolari che circolano nelle diverse province d’Italia, è l’espressione della gioventù della schiatta, allorquando le nostre plebi subirono l’influsso del risorgimento, e nuova vita, nuova energia, nuova cultura le vennero dirozzando. I critici delle vecchie generazioni credettero di poter ripartire il tesoro della nostra poesia popolare in due grandi cicli storici, detti l’uno del canto epico, e l’altro del canto lirico,  con due distinti aree geografiche; ma recenti studi hanno rilevato a  nuove, approfondite ricerche; onde l’idea che i due tipi di canto non siano circoscritti in determinate zone per ragioni etniche, ma siano comuni a tutto il popolo italiano, senza distinzione di luogo.

Il fatto non passò inosservato ai razzisti e agli antirazzisti d’oltralpe, onde, anni fa,  un etnologo sovietico lo mise in rilievo in una critica sugli studi del folklore in Italia; ma egli non  si accorse che era un errore, perché prescindeva da due essenziali circostanze, e cioè, \ da una parte, dalla considerazione che la statistica dei canti popolari e la ripartizione in due cicli non tenevano conto della Dalmazia, dell’Alto Adige e della Corsica; e, dall’altra, della nuova recente fioritura di studi, da cui risalta, in tutto il suo splendore, l’unità fondamentale delle tradizioni popolari italiane, espressione di un’altra unità: la razza.

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