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10
novembre 2003
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Da qualche mese la Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attivita' illecite ad esso connesse, con sede presso la Camera dei Deputati Senato della Repubblica, svolge interessanti audizioni, tra i rappresentanti delle imprese e delle associazioni, riguardanti le problematiche intepretative sulla nozione di rifiuto. Il 7 ottobre scorso è stato sentito il Dott.Maurizio Santoloci, Magistrato di Cassazione, uno dei maggiori esperti di normative ambientali nel nostro paese. Il Dott.Santoloci ci ha fatto la gentilezza di inviarci il testo del suo intervento che di seguito vi riportiamo. Buona lettura.
Estratto della audizione del Dott. Maurizio Santoloci Magistrato di Cassazione
In merito alle problematiche inerenti la definizione normativa della nozione di "rifiuto"
Roma - 7 ottobre 2003
Il decreto legislativo 8/07/2002 n. 138 convertito in legge 08/08/2002, n° 178 riporta nell'art. 14 l'interpretazione autentica della definizione di " Rifiuto" di cui all'art. 6 comma1, lettera A), del decreto legislativo 5/02/97 n.° 22( cosidetto Decreto Ronchi).Si tratta di un solo articolo e, a ben guardare, neppure di una nuova norma ma di una semplice "interpretazione" di un principio legislativo già esistente da anni. Eppure questo provvedimento riveste una importanza straordinaria nel settore della gestione dei rifiuti perché và ad incidere su uno dei punti fondamentali di tutto il sistema normativo in questione.
Questa " interpretazione " era stata annunciata da anni, prima redatta
e poi ritirata, ha costituito fonte di dibattiti e polemiche fortissime ed
una volta emanata ha di nuovo determinato profonde lacerazioni ideologiche
e dottrinarie. Le conseguenze sono rilevantissime, in particolare per tutte
le aziende, per le pubbliche amministrazioni e per gli organi di vigilanza.
Praticamente si inverte di fatto un sistema.
A questo punto è necessario ripercorrere brevemente i presupposti sui
quali si basa e si va a innestare questo provvedimento per meglio inquadrare
la sua esatta e reale portata a reali conseguenze pratiche.
Il concetto di rifiuto, elemento pregiudiziale per l'applicazione della normativa.
Va sottolineato che sussiste una rilevante differenza tra il concetto comune di rifiuto ed la definizione formale di "rifiuto". E questo è un punto essenziale, spesso confuso e sottovalutato in sede di gestione dei rifiuti e fonte di equivoci applicativi.
Si deve infatti evidenziare che tutto ciò che non è giuridicamente e formalmente "rifiuto" è escluso dal campo di applicazione del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, quindi non tutto ciò che intendiamo nel linguaggio comune come rifiuto equivale automaticamente alla relativa definizione giuridica. In ogni momento della gestione in questo settore va preliminarmente valutato se quella cosa identificata come "rifiuto" venga ricompresa nella definizione ufficiale. Se non viene appurata questa coincidenza con la definizione, quel materiale non è formalmente "rifiuto" e quindi non scattano i meccanismi applicativi del decreto 22/97.
La definizione ufficiale prevista dal decreto 22/97
Il decreto Ronchi definisce rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi" (art. 6, comma 1, lett. a) del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22). Il primo elemento essenziale della nozione di rifiuto è, pertanto, l'appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato "A" il quale sotto la dizione "categorie di rifiuti" stabilisce un elenco specifico che va dal punto Q1 al punto Q16.
In realtà, l'elenco dei rifiuti non è esaustivo ed ha un valore puramente indicativo. Significativi a tal fine sono i citati punti Q1 e Q16 dell'Allegato "A - Parte 1", che individuano due voci residuali capaci di includere qualunque sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti: infatti la voce Q1 riguarda "..i residui di produzione o di consumo in appresso non specificati", cioè non specificati dalle voci da Q2 a Q16, e la voce Q16 riguarda "..qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate", cioè nelle categorie da Q1 a Q15. Si tratta in pratica di due punti in bianco nei quali si può far rientrare ogni altra sostanza, materia o prodotto. L'allegato A è dunque un elenco "tecnico-politico", non operativo. Il legislatore europeo ha lasciato la norma bianca in riserva. Non è un elenco esaustivo ma generico.
Le condizioni soggettive: elementi primari ai fini della identificazione del "rifiuto" formale
Va dunque sottolineato che in base alla definizione sopra esposta è necessario anche e soprattutto che il detentore di una sostanza o di un materiale compreso nell'Allegato "A":
1) si disfi; 2) o abbia deciso di disfarsi; 3) o abbia l'obbligo di disfarsi dello stesso.
Trattasi, come appare evidente, di tre diverse previsioni del concetto del "disfarsi".
In realtà tale punto è il fulcro essenziale per la individuazione del "rifiuto" formale e per la connessa differenziazione rispetto alle materie prime. E per tanto proprio su tale passaggio si è concentrata da anni tutta l'attenzione politica e giurisprudenziale perché in realtà si tratta del vero confine tra il "rifiuto" ed il "non rifiuto", e quindi in definitiva del discrimine formale tra la doverosa applicazione del decreto n.°22/97 a livello di gestione o la esenzione totale ed assoluta da tale normativa. Ma la questione su tale punto è ben più antica e riguarda in realtà addirittura la normativa pregressa in materia perché il momento essenziale da sempre ogetto di dibattito è costituito da un solo quesito: quando un bene che viene riutilizzato è rifiuto e quando non lo è? Su questo delicatissimo interrogativo si fronteggiano da anni due inconciliabili schieramenti politici, dottrinali e giurisprudenziali che investono direttamente il mondo aziendale anche soprattutto in relazione alle conseguenti o meno sanzioni penali (importanti) che derivano o restano esenti seguendo l'una o l'altra interpretazione.
Rifiuti in partenza e materie prime in arrivo: un problema esistente fin dal tempo dei "residui".
Il problema , di enorme diffusione, è quello relativo alla destinazione di rifiuto verso la struttura di recupero. Infatti per una diffusa ed errata interpretazione praticamente fin dal momento dell'entrata in vigore del decreto 22/97 si è ritenuto che laddove un materiale che può essere potenzialmente un rifiuto venga destinato verso un'attività di recupero, automaticamente il materiale medesimo e tutte le operazioni conseguenti restano esenti dal regime di gestione dei rifiuti, ivi incluso il formulario per il trasporto e tutti gli altri adempimenti connessi a un normale sistema gestionale dei rifiuti in senso stretto. Sussiste dunque da tempo una errata equazione: bene che può essere recuperato = non rifiuto = estraneo al regime di trasporto e gestione dei rifiuti = esente da ogni adempimento sia in partenza che in arrivo. Nel contesto della normativa europea invece l'equazione è stata sempre ed è rimasta a tutt'oggi ben diversa: bene che può essere recuperato = rifiuto = trasporto di rifiuti = gestione dei rifiuti entro il decreto 22/97 = conferimento ad azienda di recupero = osservanza regole gestione = nascita di una nuova "materia prima".
In realtà già prima dell'entrata in vigore del decreto Ronchi la errata prima equazione sopra citata fu santificata dal governo del tempo, vigente il D.P.R. n.° 915/82, con i famosi decreti legge sui "residui". Con tale nuova categoria praticamente si tendeva a superare la gestione dei rifiuti provocando il salto diretto verso un recupero che restava esente dalla normativa di settore. Era tuttavia già pienamente vitale il sistema delle direttive europee non ancora recepite dall'Italia che non prevedevano affatto tale ipotesi. Dunque fu sollevata dallo scrivente quale allora Pretore di Terni eccezione presso la Corte Europea di Giustizia contro i decreti legge in questione asserendo un palese contrasto tra il salto di semplificazione previsto con l'atipico concetto di residui e la normativa europea, sottolineando che con questo sistema di fatto il Governo di allora eliminava dalla gestione dei rifiuti una rilevantissima fetta di rifiuti in senso stretto semplicemente classificandoli con una definizione che era estranea alla normativa Europea.
La Corte Europea condivise l'eccezione e con la sentenza del 25/06/97 sezione VI- Tombesi - affermò che la nozione di rifiuto ai sensi delle direttive CEE "(…) non deve intendersi nel senso che se esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Una normativa nazionale che adotti una definizione della nozione di rifiuti che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile (…)" con le direttive CEE.
E così la Corte smentì i "residui" ed i l tentativo di sottrarre rifiuti a regime dei … rifiuti semplicemente deviando con geroglifici verbali rispetto ai principi europei. Seguirono altre sentenze identiche ( ad es. 18/12/97 sez.VI causa n. 12996) e poi ancora più chiare: "la nozione di rifiuto non presuppone che il detentore che si disfa di una sostanza o di un oggetto abbia l'intenzione di escluderne ogni riutilizzazione economica da parte di altre persone" (sez. V 15/06/2000- procedimenti riuniti n. C- 418/97 e C- 419/97).
Successivamente entra in vigore in Italia la normativa europea tradotta puntualmente nel Decreto Ronchi n. 22/97 e la nostra Corte di Cassazione si è sempre allineata a tale principio: "il sistema di sorveglianza e gestione istituito dalle direttive CEE in materia si deve intendere riferito a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfi, anche se esse hanno un valore commerciale a fine di riciclo, recupero o riutilizzo" ( Cassazione penale sez. III, sent. 24/08/2000 n.2419 Presidente Zumbo). Ed ancora più chiaramente: "costituisce attività di raccolta, smaltimento e recupero di rifiuti, soggetta come tale ad autorizzazione amministrativa- la cui mancanza da luogo alla configurabilità del reato previsto dall'articolo 51, comma 1, lettera A del D.L;vo n. 22/97-anche quella che abbia in oggetto pneumatici usurati destinati ad essere immessi, dopo la raccolta, in cicli produttivi nei quali essi vengono utilizzati come materia prima" (Cass. Penale sez. III sentenza 18/02/2000 n. 28 Pres. Avitabile).
Va infatti sottolineato che il decreto 22/97, che traduce in Italia la normativa europea, prevede nell'allegato B le operazioni di smaltimento e nell'allegato C le operazioni di recupero. Dunque sostenere che si può recuperare senza restare profondamente dentro la gestione del decreto sui rifiuti significa praticamente voler ignorare l'allegato C che rappresenta invece la parte predominante dell'intero sistema normativo nazionale ed europeo. Consegue, pertanto, che su queste basi normative e giurisprudenziali ( europee e nazionali) il riutilizzo o recupero dei rifiuti è sempre stato considerato comunque un'attività di gestione ai sensi dell'allegato C del decreto 22/97, anche se l'azienda che li riceve, a sua volta, li accoglie e li utilizza dal suo punto di vista interno come "materia prima". Ma vi è stata in realtà una profonda distonia in questi anni tra la norma e la giurisprudenza da una parte e le prassi concrete di fatto tollerate in modo silente sul territorio, fino a diventare, seppur illegali penalmente , talmente diffuse da essere considerate praticamente non solo un diritto acquisito ma addirittura da far apparire i sostenitori delle antitetiche argomentazioni basate sulle chiare norme europee e nazionali come prive di senso.
Ma la Cassazione ha sempre ribadito i concetti della Corte Europea…
In queste more temporali, della nozione di rifiuto nel D. L.vo 22/97 si è
occupata anche la giurisprudenza della Cassazione, che, però non ha
aggiunto nulla di rilevante a quanto già noto.
Ripercorriamo, attraverso le massime riportate, i passi della giurisprudenza
italiana in tema:
In Cass. pen., sez. III, 26 giugno 1997, n. 6222 (ud. 22 maggio 1997), Gulpen
e altro leggiamo "In tema di smaltimento di rifiuti, la definizione di
rifiuto deve essere improntata al criterio oggettivo della "destinazione
naturale all'abbandono", non rilevando l'eventuale riutilizzazione né
la volontà di disfarsi della sostanza o dell'oggetto, sicché,
quando il residuo abbia il suddetto carattere, ogni successiva fase di smaltimento
rientra nella disciplina del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 e, dopo la sua
abrogazione, in quella del D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22. (Nella specie la
Suprema Corte ha ritenuto doversi considerare rifiuti le sostanze tossico-nocive
prodotte dall'errata miscelazione di paste polimeriche e depositate, dopo
la distribuzione in 113 fusti del peso complessivo di 20 tonnellate, in un
magazzino esterno all'azienda, trattandosi di scarti di lavorazione la cui
unica ed obiettiva destinazione non poteva essere che l'abbandono, per l'inidoneità
sia a soddisfare i bisogni cui erano destinati, considerata l'espulsione dal
ciclo produttivo del materiale, stoccato in un sito estraneo allo stabilimento
di lavorazione, sia al reimpiego".
Cass. pen., sez. III, 9 aprile 1998, n. 4280 (ud. 13 febbraio 1998), Ciurletti G. afferma ancora che rifiuto è "qualunque sostanza che rientri nelle categorie comprese nel catalogo dei rifiuti, e della quale il detentore si disfi o abbia deciso di disfarsi", e comprende anche i rifiuti allo stato liquido (in presenza delle due citate condizioni). Pertanto l'abbandono incontrollato sul suolo o l'immissione nelle acque superficiali o sotterranee di rifiuti allo stato liquido compresi nel catalogo europeo (dei rifiuti) è punito ai sensi dell'art. 50 del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22; mentre lo scarico di acque reflue non comprese nel suddetto catalogo continua ad essere disciplinato dalla legge 10 maggio 1976 n. 319"
Più recente la pronuncia della Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2001, n. 00157, Pacico I. ove si riporta "Al fine di configurare i rifiuti come "propri" dell'imprenditore non è necessario che gli stessi siano materialmente prodotti quali elementi di scarto di lavorazione dell'impresa, ovvero che derivino da una specifica attività di smaltimento, essendo sufficiente che si tratti di cose di cui l'originario detentore si disfi e che siano stati trattenuti dall'imprenditore in connessione con l'esercizio dell'attività produttiva di beni o servizi, con la prospettiva di disfarsene"
E ancora la Corte di Cassazione, sez. III, 5 aprile 2001, n. 13808. (c.c. 9 aprile 2001). Pres. Acquarone - Est. Teresi - P.G. Izzo "La definizione di rifiuto deve essere improntata al criterio oggettivo della destinazione naturale all'abbandono non rilevando l'eventuale riutilizzazione né la volontà di disfarsi della sostanza o dell'oggetto, sicché quando il residuo abbia il suddetto carattere, ogni successiva fase di smaltimento rientra nella disciplina del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 e, dopo la sua abrogazione, in quella del D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22. Costituiscono, pertanto, rifiuti e non materia prima secondaria i fanghi compressi provenienti dall'esaurimento del ciclo produttivo e destinati al parziale riutilizzo mediante processi chimici da eseguire presso altro stabilimento industriale".
Infine Cass. pen, sez. III, sentenza 11 maggio 2001, n. 19125 (ud. 9 aprile 2001), Porcu, afferma che: "La definizione di rifiuto deve essere improntata al criterio oggettivo della destinazione naturale all'abbandono non rilevando l'eventuale riutilizzazione né la volontà di disfarsi della sostanza o dell'oggetto, sicchè quando il residuo abbia il suddetto carattere, ogni successiva fase di smaltimento rientra nella disciplina del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, e dopo la sua abrogazione, in quella del D. L.vo 5 febbraio 1997, n. 22".
Da queste decisioni emerge come il problema di individuare il significato del termine disfarsi non si ponga tanto per le operazioni di smaltimento, in cui il definitivo distacco dal bene dal produttore e la perdita di utilità per lo stesso sono di regola evidenti, quanto per le operazioni tese al recupero e/o al reimpiego del bene. Sul punto era intervenuto anche il Ministero dell'Ambiente con la circolare 28 giugno 1999 recante "Chiarimenti interpretativi in materia di definizione di rifiuto" in cui si precisava che: "per qualificare rifiuto un bene risulta determinante il comportamento che il soggetto tiene o è obbligato a tenere o intende tenere". La circolare precisa che un soggetto "si disfa" di qualcosa quando è in atto o è stata effettuata un'attività di smaltimento di recupero: "con il termine disfarsi il Legislatore comunitario intende qualificare la destinazione, potenziale o in atto o obbligata, di un materiale, di una sostanza o di un oggetto alle operazioni di smaltimento o di recupero indicate negli allegati B e C al D. L.vo 22/97"
Il sequestro dei rottami ferrosi classificati dal Tribunale come rifiuti: l'antitesi alla diffusa prassi concreta.
I Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente hanno sequestrato nel dicembre 2001 un treno che trasportava rifiuti consistenti in lamiere e rottami da demolizione ferrosi destinati alle acciaierie per assenza dei regimi documentali in regola con il trasporto delineato dal decreto n. 22/97, ritenendo la natura di rifiuti di tali materiali e non quella di "materie prime secondarie".
Fino ad allora un comune senso di opinione molto diffuso aveva infatti considerato, appunto, questi ed altri materiali che venivano destinati al riutilizzo come una sorta di "materie prime secondarie" che vengono acquistate in quanto tali dall'azienda di destinazione e quindi sostanzialmente sottratti alla disciplina dei rifiuti. Con un criterio che retroagisce in modo automatico sia nella filiera del viaggio che in quella della gestione primaria. Quindi, in definitiva, tale luogo comune ha sempre sottratto alla normativa - soprattutto del trasporto ed anche della gestione in generale - ogni materiale che venisse indirizzato verso forme di recupero. Nel caso di specie, invece, I Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente hanno identificato ad Udine in un convoglio ferroviario nella zona di Udine un carico rilevante di rifiuti in senso stretto di tipo ferroso destinati alle acciaierie, che in tal caso vengono considerate siti di recupero ai fini della gestione del decreto 22/97 sui rifiuti.
La Magistratura confermava il sequestro. In particolare il Pubblico Ministero prima convalidava il sequestro e successivamente il Tribunale del Riesame confermava a sua volta il provvedimento stesso con una motivazione ampia e dettagliata nella quale viene delineata la esatta configurazione giuridica di tali materiali (Tribunale di Udine - sezione penale ordinanza n. 80/2001 in data 18/12/01 Di Silvestre - Presidente est). Si trattava di un evento clamoroso sotto il profilo giuridico e giudiziario, ma anche di principio. Perché per la prima volta nel nostro paese veniva affermato sia in sede di indagini di Polizia giudiziaria, sia in sede di valutazione giurisdizionale penale da parte della Magistratura, che i materiali-rifiuto che vengono destinati al riutilizzo e al recupero sono appunto "rifiuti" a tutti gli effetti e non possono essere automaticamente classificati "materie prime secondarie" per il solo fatto che sono destinati ad un'azione di recupero in quanto l'azienda che li acquista opera tale acquisizione dal suo punto di vista come materie prime per il proprio ciclo aziendale.
Il caso, dunque, al di là della fattispecie concreta, costituiva un indubbio momento di evoluzione di principio concettuale con riflessi su tutto il territorio nazionale e in ordine a qualsiasi tipo di rifiuto che transiti verso qualsiasi forma di recupero. E non dunque soltanto rottami ferrosi, ma ogni altro materiale. E non dunque soltanto per le acciaierie, ma per qualsiasi altra azienda che riceva rifiuti per esercitarne un recupero. Va rilevato che altro caso analogo aveva già investito il Tribunale di Trieste il quale ordinanza N. 38/01 RG reali e N. 6905/01 RG PM TS in data 18.10.2001 (Termini, Pres.;Tomassini, Rel) si pronunciava relativamente all'istanza di riesame ex art.324 Cpp presentata nell'interesse del responsabile legale di una società "avverso il decreto del Pm c/o Tribunale di Trieste del 29.9.2001con il quale veniva convalidato il sequestro di Pg di 6 carri ferroviari contenenti rifiuto rottame ferroso e il terreno 15 del PF Vecchio corrispondente a mq 1.635." La ipotesi di reato in quella sede contestata nei confronti del ricorrente e di altro soggetto era quella del reato p.e p. dall'art.113 Cp eeal D. lvo 22/97.
Appare evidente che in ambedue i provvedimenti del Tribunale di Udine e del Tribunale di Trieste veniva dunque riaffermato il corretto principio delineato dalla norma che non prevede affatto un automatismo del tipo "rifiuti in partenza e materie prime in arrivo". Ma il caso che ha dato luogo a questo intervento di PG è stato sempre comune e frequente su tutto il territorio nazionale ed esteso ad ogni altra forma di rifiuti che vengono destinati al recupero (e dunque non solo ai materiali ferrosi). Infatti, è capitato spesso che ci si è posti il quesito sulla classificazione del materiale che viaggia laddove l'azienda che lo riceve non è classicamente intesa come azienda di "recupero" dei rifiuti ma è un'azienda che in realtà riceve questi materiali come "materie prime" per il proprio ciclo produttivo, mentre in realtà chi le spedisce sostanzialmente le spedisce come rifiuti.
In ipotesi paradossale, durante il viaggio si ha una specie di trasformazione fittizia, in quanto dall'azienda conferente il materiale parte come rifiuto e quindi viene spedito secondo i dettati del D.L.vo n. 22/97, mentre l'azienda che la riceve è un'azienda che sfugge sostanzialmente alla fisionomia classica dell'azienda di "recupero" e dunque, in qualche modo, tende a ricevere una "materia prima". Trattasi di un rilevante equivoco interpretativo, che molte volte tende a classificare questo materiale che viaggia impropriamente come "materie prime secondarie" e dunque a farle sfuggire in toto alla regolamentazione del D.L.vo n. 22/97. Se così fosse, torneremmo praticamente all'epoca dei residui o comunque concetti similari, clamorosamente bocciata dalla Corte di Giustizia Europea, e dunque praticamente il materiale già nella fase di partenza, per scelta unilaterale dell'azienda conferente, non verrebbe classificato come "rifiuto" ma viaggerebbe come "materia prima secondaria" (concettualità ibrida che consentirebbe di occultare in realtà un viaggio di "rifiuti" in senso stretto). In realtà la costruzione è molto più semplice.
Non vi è dubbio che al momento della partenza una azienda che ha in proprio carico una produzione di "rifiuti" deve trattare tali materiali come tali. Quindi totalmente all'interno del D.L.vo n. 22/97.
La successiva "interpretazione autentica" del Decreto Legge.
Sulla base di questi presupposti nasce e si inserisce il provvedimento legislativo sulla interpretazione autentica della definizione di rifiuto varata con l'art. 14 del decreto legge in esame attraverso il quale in pratica si tende a ripercorrere la già transitata strada del salto di semplificazione adottato a suo tempo con i decreti legge sui residui. Perché in pratica con l'art. 14 in questione si stabilisce che non sono più i rifiuti i residui di produzione o di rifiuto che vengono riutilizzati senza passare dalle operazioni di recupero previste dal decreto Ronchi.
A questo punto dunque gli effetti di tale innovazione legislativa non sono modesti ma dirompenti e capovolgono nettamente tutto il sistema di gestione seguito fino ad oggi sulla base delle normative europee e nazionali, cancellando praticamente di colpo dal "sistema rifiuto"una massa enorme di materiali, che , fino ad oggi considerati appunto rifiuti, sulla base di tale "interpretazione autentica" tali non sarebbero più. Con tutte le facilmente intuibili conseguenze a livello di attività gestionali, di controllo e sanzionatorie. Sia per i casi attuali e futuri, si, paradossalmente, anche e soprattutto per i casi pregressi; ivi inclusi i numerosi procedimenti penali pendenti per attività di gestione illecita di rifiuti, penalmente sanzionata che oggi trovano all'improvviso in sede dibattimentale, un "corpo di reato"rifiuto che non è più appunto rifiuto e dunque non è più nemmeno corpo di reato.
La previsione specifica dell'art. 14
Vediamo, dunque, a questo punto cosa prevede esattamente il testo dell'art. 14 in esame. Il titolo del decreto e della legge di conversione è apparentemente poco significativo ai fini della gestione ambientale dei rifiuti: "Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate". Poi, però, in questo contesto di generica miscellanea, l'art. 14 reca il titolo "Interpretazione autentica della definizione di "rifiuto" di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22" e prevede:
"1. Le parole: "si disfi", "abbia deciso" o "abbia l'obbligo di disfarsi" di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, di seguito denominato: "decreto legislativo n. 22", si interpretano come segue:
a) "si disfi": qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22;
b) "abbia deciso": la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22, sostanze, materiali o beni;
c) "abbia l'obbligo di disfarsi": l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del decreto legislativo n. 22.
2. Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:
a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;
b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22."
Quali sono le conseguenze immediate dell'entrata in vigore dell'art. 14?
Mentre dunque le lettere a), b) e c) del comma 1 si limitano a descrivere e dettagliare gli aspetti dinamici delle tre previsioni nel loro oggettivo verificarsi, ai fini della profonda e radicale modifica sul sistema di gestione, appare rilevante il secondo comma il quale prevede, dunque, che nei confronti di beni, sostanze o materiali residuali di produzione o di consumo, una situazione di "non rifiuto" può verificarsi nel caso in cui essi possono e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza essere sottoposti ad alcun trattamento preventivo e senza recare pregiudizio all'ambiente. In questo caso non è fatto alcun cenno alle operazioni di recupero di cui all'allegato C al Dlgs 22/1997; quindi, si tratta del riutilizzo in senso letterale che, come tale, agisce sul "tal quale". Inoltre sussiste un secondo caso allorquando questi possono e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo dopo aver subito un trattamento preventivo, ma senza che sia necessaria alcuna delle operazioni di recupero individuate nell'allegato C al Dlgs 22/1997. In questo caso, invece, viene fatto cenno alle operazioni di recupero di cui all'allegato C al Dlgs 22/1997; quindi, si tratta di riciclaggio in senso proprio, poiché per poter usare un residuo di lavorazione è necessario un intervento, sebbene esso sia minimo come il trattamento.
Consegue pertanto che un residuo di lavorazione o di consumo può essere inserito in uno di questi tre sistemi di base:
· Riutilizzo tal quale (si potrebbe parlare di riutilizzo diretto)
· Riutilizzo previo trattamento (si potrebbe parlare di riutilizzo mediato)
· Recupero.
La conseguenza "rivoluzionaria" di questa nuova impostazione è che nell'intento del legislatore e nella finalità specifica della norma in esame nei primi due casi non si è più in presenza di rifiuti e si profila dunque una deregulation generale; nel terzo caso, invece, resta inalterato il profilo di "rifiuti" per tali residui di lavorazione o di consumo. Si è di conseguenza diffusa la voce tra le aziende che a questo punto sarebbe possibile stoccare liberamente materiali (ex rifiuti), anche pericolosi, tenendoli in giacenza per lunghi periodi fino a quando non si troverà un acquirente. Questo è assolutamente inesatto. Vediamo perché.
Una corretta lettura dell'art. 14 alla luce della normativa europea
Il fine dell'art. 14 appare evidente. Il momento soggettivo (decisione di disfarsi) e il momento prescrittivo (l'obbligo di disfarsi) sono i due punti cardine del concetto di "nascita" del "rifiuto" in senso giuridico. Sono due pilastri essenziali del sistema europeo di settore. Il dibattito, da sempre, si è sempre concentrato tuttavia sul "quando" i residui di produzione o di consumo cessano di essere rifiuti per trasformarsi in "non rifiuti". E su questo delicatissimo ed importantissimo punto interviene l'art. 14 attraverso il quale il nostro legislatore, non potendo modificare la definizione comunitaria, parte correttamente dal concetto europeo che tali residui di produzione o di consumo nascono come rifiuti; tuttavia individua poi due ipotesi alternative tra loro che consentono ad essi di sottrarsi dal regime dei rifiuti medesimi; infatti, la nuova legge ragiona a contrario poiché individua quando non ricorre né la decisione, né l'obbligo di disfarsi.
Prima
ipotesi. I residui di produzione o di consumo cessano di essere rifiuti quando
"possono e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo
o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo senza subire alcun intervento
preventivo di trattamento…". La previsione va letta attentamente. In
questo caso-base il riutilizzo non solo deve essere possibile (condizione
tecnica propedeutica) ma deve anche avvenire effettivamente ed oggettivamente.
Si noti che non si tratta, come molti hanno ipotizzato ad una prima sommaria
lettura, di due ipotesi alternative capace di rendere suscettibile un futuro
ipotetico riutilizzo il residuo, bensì letteralmente di una sola ipotesi
bisafica: tra la possibilità del riutilizzo ("possono") e
la sua effettività ("sono") esiste una congiunzione ("e")
e non una disgiunzione ("o") che consentirebbe la (erratamente)
ipotizzata alternativa.
In altre parole, sussiste in questa unica ipotesi un momento cognitivo nel
quale si deve verificare che un residuo "può" essere riutilizzato,
e poi in via strettamente congiunta e connessa una fase dinamica operativa
(processo fattuale) consistente nel riutilizzo effettivo ed oggettivo.
E'
dunque assolutamente errato e fuorviante, oltre che ancora illegale nonostante
la previsione dell'art. 14, operare (come molte aziende hanno iniziato a fare)
a "mettere da parte" qualcosa oggi senza che l'attuale tecnologia
consenta di riutilizzarlo. Il riutilizzo deve avvenire "ora" e non
in un momento futuro.
Va sottolineato che in sede di controllo e vigilanza è naturale un
esame approfondito di tali due momenti sinergici, e dunque se tale riutilizzo
non è effettivo ed oggettivo (va sempre provato in modo sostanziale
e concreto l'effettivo, oggettivo ed inequivocabile riutilizzo nei tempi e
nelle forme prescritte da parte dell'azienda) scattano le ordinarie sanzioni
previste dal decreto n. 22/97 per le varie ipotesi di gestione illegale di
rifiuti (verosimilmente ed in primis deposito temporaneo illegale o stoccaggi
abusivi fino ai più gravi casi di discariche illecite).
Certamente a rigore di stretta lettura dell'art. 14 oggi si può ipotizzare che in alcuni casi reali nei quali la carenza del trattamento rende possibile il riutilizzo di un residuo scatta il concetto del "non rifiuto". Esempi tipici: siero di latte (riutilizzato nei caseifici per produrre, ad esempio, la ricotta) segue quello delle vinacce (riutilizzate dalle distillerie per produrre grappa). Siero di latte e vinacce non sarebbero dunque più rifiuti.
Questo, tuttavia, sulla base della stretta lettura della nuova norma che tuttavia, va sottolineato, ripercorrendo esattamente la già percorsa strada dei decreti legge sui residui del periodo antecedente all'entrata in vigore del Decreto Ronchi appare in evidente antitesi con le già riportate sentenze della Corte Europea di Giustizia (per tutte sentenza 25 giugno 1997 C-304/94, Tombesi)che ha ritenuto che la nozione di "rifiuto" vigente in Europa non consente affatto che i residui industriali avviati a riutilizzo siano svincolati dai controlli e dagli obblighi previsti per i rifiuti.
Va rilevato che a questo punto si crea una situazione molto indefinita in sede giuridica e soprattutto giurisdizionale penale attesa questa distonia e soprattutto considerato che decisioni della Corte, come noto, sono vincolanti e non consentendo a nessun giudice di agire in modo difforme dalla legislazione comunitaria sui rifiuti e da quella di suo recepimento, si portranno certamente registrare casi di disapplicazione della nuova legge in sede di giudizio.
Il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo delle direttive comunitarie per conseguire il risultato perseguito da queste ultime. Quindi, in caso di più possibili interpretazioni del testo normativo prodotto dagli organismi nazionali va prescelta quella conforme alle prescrizioni comunitarie, e cioè, in questo caso, quella più restrittiva .
Seconda ipotesi. La norma prevede ancora che i residui di produzione o di consumo cessano di essere rifiuti quando "possono e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del Dlgs 22/1997".
Anche in questo caso, vige la propedeusi logica tra la possibilità del riutilizzo ("possono") e la sua effettività ("sono") e la carenza di alternativa tra l'una e l'altra; pertanto, si rinvia a quanto già detto al punto precedente.
Con questa formulazione,peraltro, il provvedimento evidentemente non tiene conto che la Corte europea di giustizia è costante nel richiedere che si adotti una definizione ampia di rifiuto, escludendone solo quei residui di produzione che siano direttamente riutilizzati nell'ambito dello stesso ciclo che li ha prodotti, e, quindi, senza neppure venire ad esistenza esterna.
Nella recente sentenza Corte di Giustizia CE, Sesta Sezione 18 aprile 2002, proc. C-9/00, Palin Granit Oy, si legge, infatti testualmente (punto 36) che "tenuto conto dell'obbligo, ricordato al punto 23 della presente sentenza, di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione "; e si evidenzia anche che "l'assenza di pericolosità della sostanza in questione non è un criterio decisivo per valutare la volontà del relativo detentore al suo riguardo" (punto 50), così come fa, invece, il legislatore italiano di oggi.
A questo punto, a maggior ragione appare evidente il palese contrasto con il punto 36 della sentenza citata della lettera b) di questo secondo comma, se si ritiene che il "trattamento preventivo" ammesso dall' Italia coincide con la "trasformazione preliminare" non ammessa dalla Corte europea. Contrasto, comunque, ancor più evidente se si considera che la Corte, nella stessa sentenza, evidenzia addirittura (punto 46) che "anche qualora una sostanza venga sottoposta ad una operazione di completo recupero ed acquisisca in tal modo le medesime proprietà e caratteristiche di una materia prima, essa può comunque essere considerata un rifiuto se, in conformità alla definizione di cui all'art. 1, lett a), della direttiva 75/442, il suo detentore se ne disfa o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsene."
Quali sono le conseguenze immediate a livello procedurale per i processi pendenti dell'entrata in vigore dell'art. 14?
Non vi è dubbio che oggi in sede processuale penale per tutti i processi
pendenti in relazione ad imputazioni per trasporto e gestione di rifiuti spacciati
come "materie prime secondarie" ci saranno sistematicamente richieste
di immediata dichiarazione di non doversi procedere "perché il
fatto non è più previsto dalla legge come reato" o forse,
più coerentemente con l' "interpretazione" di fatto retroattiva
della legge "perché il fatto non sussiste" o "non costituisce
reato"; ed infatti a rigor di logica seguendo la coerenza ideologica
della nuova norma che non crea un principio nuovo ma semplicemente specifica
in via "autentica" un principio che sarebbe in pratica sempre esistito,
tali materiali "non sono mai stati rifiuti"! Quindi il fatto sopraggiunto
non scrimina da oggi ma accerta un "non reato" da sempre tale… In
antitesi rispetto a tutte le sentenze della Corte di Giustizia Europea e della
Cassazione nazionale sempre coerentemente antitetiche a questa "interpretazione
autentica".
Ma si potrebbe giungere ad un paradosso ancora più assurdo. I processi
pendenti per "trasporto abusivo di rifiuti" o "gestione illecita
di rifiuti" presuppongono un "fatto storico" che si basa sul
principio che quelle materie sono rifiuti. Ma se, sulla base della "interpretazione
autentica", quelle materie non sono rifiuti ma praticamente ordinari
beni commerciabili, può intendersi che quel fatto storico così
come contestato proprio "non sussiste"! Perché la costruzione
giuridica creata sulla base della "errata" concettualità
di rifiuto ha permesso di costruire un evento-reato che non sussiste nelle
sue componenti di presupposto giuridico di base…
Dunque, oggi un soggetto imputato di un reato di gestione o traffico illecito di rifiuti, può ben chiedere in certe condizioni una sentenza immediata di proscioglimento "perché il fatto non costituisce reato" se quei rifiuti non sono… rifiuti! O forse può anche provare a chiedere una sentenza più radicale: se i rifiuti, non sono mai stati tali, il fatto giuridico di trafficare o gestire rifiuti… non sussiste (leggi: non è mai esistito in senso stretto perché si trattava di un innocuo fatto storico di commercio di beni ordinari).
Non vi è dubbio che in sede processuale in seguito all'entrata in vigore della nuova legge vi puo' essere una moratoria diffusa dei reati pendenti. Con sentenze che rapidamente diventeranno comunque definitive; ed una eventuale pronuncia della Corte Europea antitetica al concetto espresso dell'art. 14 non potrà intaccare indirettamente sentenze intanto "passate in giudicato" e cioè ormai immodificabili.
Il "non rifiuto" veicolo primario per smaltimenti illegali presentati come "riutilizzi"
Il vero problema che nasce dalla interpretazione autentica in esame va comunque rilevato nella tendenza alla derugulation, di fatto ormai radicata per anni di prassi sul territorio nazionale, in base alla base enormi quantitativi di rifiuti di fatto vengono accumulati, trasportati e smaltiti in senso proprio in via del tutto esente dal decreto 22/97 sostenendo un improprio "riutilizzo' che renderebbe appunto alieni tali materiali dalla norma di settore e, soprattutto, dai controlli preventivi e repressivi.
Ed e' questo infatti ilo punto fondamentale: riuscire a sottrarre dai controlli soprattutto di polizia il flusso rilevantissimo di rifiuti che vanno formalmente verso operazioni di recupero o "riutilizzo" e che invece mascherano vere e proprie operazioni di smaltimento di rifiuti in senso stretto.
Un mondo articolato che dietro il paravento delle prassi di fatto fino ad oggi radicate sul territorio, e poi avallate ufficialmente dall'art. 14, tende a far circolare ogni tipo di rifiuto per sottrarlo non solo alle regole gestionali, ma anche anche alle verifiche di controllo, ed innestando dunque smaltimenti veri e propri n ell'apparentemente innocuo campo dei recuperi. Si veda, a titolo di esempio parallelo ed indiretto, il caso dei fanghi e dei liquami zootecnici riutilizzati per usi agricoli.
Una pratica apparentemente innocua e per prassi resa esente da controlli e verifiche. E proprio questa pratica e' diventata fonte di illegalita' immense giacche', come purtroppo recenti clamorose inchieste anche con arresti hanno dimostrato, sotto la copertura di spandimenti di liquami e fanghi per uso agricolo si sono incardinate incontrollabili forme di smaltimento illegale di rifiuti liquidi riversati sui terreni in modo praticamente libero e senza verifica alcuna. Fino alla situazione di accertamento di grandi illegalita' che hanno posto in luce grandi discariche abusive sui terreni che sono state fino ad oggi mascherate come innocui "riutilizzi" di liquami zootecnici o fanghi per uso agricolo.
L'utilizzazione agronomica di fanghi e liquami e la fertirrigazione sono sempre stati, e per taluni incredibilmente ancora restano, zone franche dalla normativa che disciplina lo smaltimento dei rifiuti. Una interpretazione molto diffusa non soltanto tra le aziende ma incredibilmente anche e soprattutto tra i pubblici amministratori e perfino tra alcuni organi di vigilanza, ritiene che tali pratiche siano del tutto esenti dalla disciplina giuridica dei rifiuti. Una sorta di area di deregulation totale rimessa esclusivamente alle blande e modestissime norme e regolamenti (magari locali) che vanno a sottodisciplinare lo spandimento di fanghi e liquami sui terreni agricoli. Questa diffusa interpretazione ha portato di fatto ad una catena perversa di eventi conseguenti. Vediamo infatti che se si parte dal presupposto (non condivisibile) che lo spandimento di fanghi e liquami zootecnici (e di ogni altro tipo) sui terreni agricoli a fini di utilizzazione agronomica o fertirrigazione è del tutto esonerato dalla disciplina della normativa sui rifiuti (decreto n. 22/97) e della normativa sugli scarichi (decreto n. 152/99), consegue che tali materiali quando vengono sparsi sui terreni non sono rifiuti (né liquidi né fangosi). E le relative sanzioni tutt'al più sono limitate alle blande e irrilevanti previsioni amministrative inerenti tale materia. Consegue in modo logico ed inevitabile un effetto metastatico coerente: se tali materiali non sono rifiuti, chi li trasporta non trasporta rifiuti e dunque da un lato non deve essere iscritto all'Albo del decreto n. 22/97 e dall'altro - soprattutto - non deve far viaggiare tali "materiali non rifiuti" con il formulario di identificazione previsto dal medesimo decreto (che presuppone un "rifiuto" in fase di trasporto); ancora ulteriore effetto domino va ritrovato nel fatto che a questo punto se quelli che viaggiano non sono rifiuti chi li ha prodotti e li ha consegnati al trasportatore non ha certamente prodotto rifiuti! Dunque all'origine tali materiali non vengono né prodotti, né accumulati né consegnati a terzi come rifiuti, e naturalmente non va tenuto il registro di carico e scarico, non va compilato il MUD, non va riempito a monte ed a valle il formulario. Dunque, per tali fanghi e liquami il decreto n. 22/97 non si applica in via integrale. Tutta zona franca dalla regole e dalla disciplina in materia di rifiuti.. Un'area dunque di immediato interesse per forme di illegalita' di vario tipo.
Se spandere tali fanghi e liquami sui terreni è, dall'inizio alla fine, tutta un'attività totalmente resa esente dai controlli e dagli obblighi in materia di disciplina dei rifiuti, è chiaro che tale prassi era destinato a diventare il veicolo propulsore dello smaltimento illegale di ogni tipo di altri liquami industriali i quali, mischiati ai fanghi e ai liquami zootecnici o di altra natura ma comunque destinati alla "libera" utilizzazione agronomica o fertirrigazione, hanno fino ad oggi usufruito di questo formidabile vettore incontrollato per arrivare indisturbati sui terreni di comodo finali e finire poi in tutta tranquillità sotto terra attraverso la naturale permeabilità conseguente.
Ed in alcune zone su questi temi c'è ancora chi sostiene che utilizzazione agronomica e fertirrigazione sono "libere". Una libera circolazione per "riutilizzi" che, a titolo manualistico, e' del tutto parallela, come conseguenze, alla deregulation di fatto prevista dall'art. 14 per gran parte di rifiuti di ogni tipo che finiscono cosi' in sistemi di smaltimento illegali mascherati - come i rifiuti liquidi zootecnici - grazie a forme di "riutilizzo" di pura facciata.
Quindi si ritiene, in conclusione, che deregolamentare la nozione di rifiuto cosi' come previsto nell'art. 14 in esame, significa indirettamente sottrarre alle regole ed ai controlli (ed agli aspetti repressivi anche penali) una immensa ed incontrollabile quantita' di rifiuti realmente tali che possono essere smaltiti in illegali forme di gestione "in bianco" sistematica dissimulata dietro la copertura giuridica di innocue forme di "riutilizzo".
Dott. Maurizio Santoloci