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28 marzo 2002

Come volevasi dimostrare. Oggi per chi ci governa risolvere un problema significa negarne l'evidenza. Il sequestro delle caldaie dell'Agip che forniscono energia a tutto il petrolchimico di Gela è andato a cozzare contro un provvedimento urgente, un decreto-legge, che ha modificato il codice sotto gli occhi dei magistrati. La previsione di qualche settimana fa non poteva essere più precisa. D'altronde repetita iuvant, c'era già un precedente illustre, quello dello smarino contaminato da idrocarburi proveniente dai cantieri toscani della TAV.

Purtroppo in questa vicenda nessuno ci fa una gran bella figura. Non il Consiglio dei Ministri che sfrutta la sollevazione popolare per ergersi paladino dei lavoratori, non i giudici che basandosi solo su astrazioni e assunti giungono a decisioni estreme come la chiusura di un petrolchimico, non gli enti locali che stanno a guardare in attesa che qualcuno si muova.

Tutto ruota attorno alla nozione di rifiuto, ad una disputa che si trascina da anni nelle aule dei tribunali con alterne vicende. La cosa che più sollecita disappunto non è tanto e solo il fatto eticamente discutibile di un contrasto giuridico sanato a forza di eccezioni, quanto che spesso la costruzione del diritto in materia di tutela dell'ambiente si basi sulla interpretazione, sull'analisi logica, sul significato delle parole in un contesto piuttosto che in un altro, quando invece si vorrebbe che le azioni di tutela fossero fondate sulla concretezza del pericolo, sull'incidenza del rischio.

Il dissequestro del petrolchimico è una vicenda esemplare perché da un lato mostra la fragilità di un sistema di tutele tutto fondato sulla "lettura ermeneutica" dei sacri testi, su una giurisprudenza poderosa che in realtà cela un grande vuoto di conoscenza tecnica, dall'altro spiega perché in Italia vince l'invito alla disobbedienza, al ricorso, alla intolleranza delle regole. Chi mette all'indice le leggi ha buon gioco, basta dire che nuocciono al senso comune.

Il 30 % degli impianti della raffineria di Agip petroli sono stati fermati, si è sfiorato il blocco totale, fermi per mancanza di vapore pure gli impianti di Enichem ed a catena tutti quelli del petrolchimico. Fermo il petrolchimico, si è paralizzato pure l'indotto. A riposo pure il porto isola dove giornalmente attraccano le navi a caricare e scaricare materie prime e prodotti petroliferi, chiuso il porto industriale, precettati gli operai che lavorano al depuratore ed al dissalatore. Eppure è bastato poco, è stato sufficiente scrivere che quel rifiuto non è più un rifiuto ma un combustibile e tutto è tornato come prima. O quasi.

Se leggiamo gli articoli del dopo sequestro cogliamo qualche differenza: " Limiti rigorosi, nella produzione di energia con il pet coke, sono stati fissati dal provvedimento con cui la Procura della Repubblica di Gela ha disposto, ieri, il dissequestro dei depositi di carbone del petrolchimico. L'iniziativa ha suscitato "perplessità e preoccupazioni" da parte dell'Eni e dei sindacati. Restrizioni e vincoli sono infatti così tassativi da rischiare di ridurre a zero la redditività dello stabilimento e da indurre le aziende che vi operano a chiudere i battenti, per mancanza delle condizioni di sicurezza degli impianti o perché la produzione non è più conveniente."

Cosa è dunque avvenuto, che dopo aver analizzato il nuovo decreto-legge che classifica il pet coke come combustibile, il pubblico ministero, ritiene che a Gela, lo stesso provvedimento legislativo, in deroga a un decreto del ministero dell'ambiente del 1990, autorizzi l'uso del coke negli impianti termici e termoelettrici a servizio esclusivo della raffineria di Agip Petroli. Il tutto dipenderebbe da una condizione dettata dal decreto-legge che si ritrova identica anche nel vecchio DPCM del 1995, una condizione francamente incomprensibile per la quale se l'utilizzo del pet-coke è fuori sito la percentuale in massa di zolfo in esso contenuto non deve superare il 3%, mentre se lo stesso viene bruciato nel medesimo luogo di produzione, cioè l'Agip di Gela, non deve sottostare a nessuna restrizione.

L'art.2 comma 2, del decreto dice" L'uso del coke da petrolio nel luogo di produzione è consentito in deroga a quanto previsto all'allegato 3 parte B, punto B4, del decreto del Ministro dell'ambiente in data 12 luglio 1990, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 174 del 30 luglio 1990." Il DM fissa le "Linee guida per il contenimento delle emissioni degli impianti industriali esistenti e la fissazione dei valori minimi di emissione" e la parte B dell'allegato 3 si riferisce alle emissioni da RAFFINERIE DI OLII MINERALI. In particolare il punto B4 stabilisce, per l'appunto, che "I combustibili utilizzati non possono contenere più del 3% in peso di zolfo."

Se c'è una spiegazione tecnica a supporto di questa eccezione non l'abbiamo trovata. Il PM ne ha dato una lettura tutta particolare. Poiché la deroga vige solo per gli stabilimenti che producono pet-coke, l'energia prodotta dall'Agip con la combustione dello stesso può andare solo a suo uso e consumo. Non rientrerebbe dunque nella deroga la vendita di energia elettrica a Enel (100 megawatt) né la fornitura di corrente o di vapore, prodotti con la combustione del pet coke, agli impianti di altre società che operano nel petrolchimico, come Enichem e Polimeri Europa, o agli impianti consortili per gli usi civili, quali il dissalatore e il depuratore biologico.

Dopo il primo sconcerto anche questo problema pare essere stato superato, o, più semplicemente, è finito nell'oblio nel quale sono destinati a confluire tutti i provvedimenti di fatto inattuabili o, più spesso, incontrollabili.

Ma per tornare al decreto l'appiglio è di nuovo quell'art.8 che definisce le esclusioni dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti. Il comma 1 annovera alle lettere

"f) i materiali esplosivi in disuso;

f-bis) le terre e le rocce da scavo destinate all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti supe-riore ai limiti di accettabilita' stabiliti dalle norme vigenti;

f-ter) i materiali vegetali non contaminati da inquinanti in misura superiore ai limiti stabiliti dal decreto del Ministro dell'ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, provenienti da alvei di scolo ed irrigui, utilizzabili tal quale come prodotto."

e adesso anche:

"f quater) il coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso industriale."

Conclusioni

L' insegnamento che si trae dalla vicenda è duplice.

L'incertezza sulla definizione di rifiuto è alta. Può accadere che lo stesso comportamento sia considerato lecito in un caso e illecito nell'altro. Tutto perché piuttosto che considerare gli elementi che possano rappresentare un fattore di rischio per l'ambiente e per la salute vengono portati in discussione aspetti di puro e specifico profilo dottrinale. A questo punto servirebbe non tanto una nuova definizione di rifiuto che metta tutti d'accordo, cosa che si ritiene alquanto improbabile, ma una legislazione che tuteli l'ambiente a partire dal controllo delle sostanze pericolose, sia che si trovino all'interno di materie prime, che di prodotti finiti che, appunto, di rifiuti. Si potrebbe obiettare: c'è già. Non è così vero. Vi sono delle discipline specifiche il cui campo di applicazione è molto ristretto (incidenti rilevanti), o altre che hanno fini e tutele diverse (etichettatura sostanze e preparati pericolosi). Per ritrovare delle norme tecniche che abbiano un minimo di contenuti e possano essere spalmate sulla maggioparte di attività, impianti, installazioni bisogna risalire al DPR 547/55, che, come i più sanno, riguarda la tutela dei lavoratori. In generale quando si parla di pericoli ci si deve riferire più frequentemente a normativa in materia di sicurezza, tutela del lavoro, prevenzione incendi. Manca una legge quadro che ci dica come, quando e perché utilizzare, manipolare, trasportare certe sostanze invece di altre avendo come obiettivo prioritario la tutela dell'ambiente.

Una seconda considerazione riguardo questo approccio. Invece di ricercare parametri e di collegare dati si preferisce procedere all'enucleazione dell'oggetto di dibattito, provvedendo con emendamenti ad hoc. Questa cosa è deleteria, incentiva la questua di nuove esclusioni sulla base di motivi discutibili. In questo modo la lettera f) del comma 1 dell'art.8 del D.Lvo 22/97 è destinata inevitabilmente ad allungarsi, utilizzando la numerologia romana disponibile. C'è già infatti chi bussa alle porte come l'Unione Industriale di Prato che pone a similitudine del caso gelese il problema della distillazione del Dmf, un solvente utilizzato, insieme all'acqua, per la produzione di finta pelle, in gergo gli "spalmati". Repetita iuvant.

 

 

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PET-COKE: IL CASO E' CHIUSO