leggi e sentenze
23 novembre 2005

Un numero più consistente del solito di sentenze sulla normativa rifiuti è stato dato alle stampe dalla Corte di Cassazione in quest'ultimo periodo. Vediamone novità e conferme.

Rifiuti e acque di dilavamento (n.34377/05): secondo la Cassazione le acque di dilavamento inquinate da oli e grassi che ruscellano sulle sponde di un corso d'acqua sono rifiuti, non sono scarichi. La vicenda da cui trae origine la sentenza è questa. Viene segnalato un deposito di rottami, tra cui anche auto da demolire, il cui dilavamento da parte delle acque piovane comporta il rilascio di oli e sostanze solide nel vicino corso d'acqua. Il deposito si trova infatti lungo le sponde di un corpo idrico e non dispone, evidentemente, di sistemi di raccolta dei liquidi che si originano sulla sua superficie. Tuttavia siamo nel maggio del 2001 e non è ancora stata recepita la direttiva comunitaria sui veicoli fine vita. Il decreto legislativo che ne scaturirà, il n.209 del 24 giugno 2003, stabilisce infatti che il centro di raccolta sia costituito da "area adeguata, dotata di superficie impermeabile e di sistemi di raccolta dello spillaggio, di decantazione e di sgrassaggio" e attrezzato con "sistemi di convogliamento delle acque meteoriche dotati di pozzetti per il drenaggio, vasche di raccolta e di decantazione, muniti di separatori per oli, adeguatamente dimensionati." Niente di tutto questo è evidentemente già presente presso il deposito in questione, ma, come detto, non vi sarebbe stato obbligato, salvo che l'autorizzazione in essere non avesse previsto indicazioni analoghe a quelle citate.

Il ricorso in Cassazione, dopo la condanna iniziale per violazione dell'art.59 del D.Lgs 152/99 per scarico non autorizzato, muove dalla contestazione di due fatti:

- il primo è che che non è stato accertato l'effettivo inquinamento provocato nel Chienti, ma il giudice di primo grado si è limitato a presumerlo,

- il secondo era che solo poche autovetture erano prive di cofano e quindi esposte alle intemperie.

La Cassazione assolve sulla base di queste considerazioni.

Le acque di dilavamento mancano di definzione nelle norme sull'inquinamento idrico, non possono essere assimilate a scarico di acque industriali la cui mancata autorizzazione è sanzionata ai sensi dell'art.59 soprarichiamato. Inoltre mancano le disposizioni regionali che ne ne dovrebbero regolamentare la gestione, secondo l'art.39 dello stesso decreto.

In seconda analisi la definizione di scarico comprende le immissioni effettuate tramite condotta e posto che comunque il termine "condotta" può essere intepretato estensivamente, nel caso in esame riesce difficile applicarne la definizione in quanto manca proprio un sistema stabile di deflusso delle acque meteoriche, ma il tutto ruscella lungo le sponde del corso d'acqua.

Tuttavia non è corretto concludere che il comportamento segnalato sia lecito solo perché non esiste un sistema stabile di deflusso comparabile alla definizione di scarico. Se non si applica la normativa sugli scarichi si applicherà quella sui rifiuti, in specie l'art.50 del decreto legislativo n.22 che ne punisce lo scarico in acque superficiali e sotterranee.

Ma attenzione, dice ancora la Corte, l'accertamento sullo scarico di rifiuti non può essere presuntivo. Occorre che vi sia la prova della formazione di un rifiuto dall'azione dilavante degli autoveicoli. Quindi, sebbene l'orientamento in casi come quello descritto sia di riferirsi alla normativa sui rifiuti, all'art.14 del D.Lgs 22 in particolare, non basta segnalare l'evento, bisogna anche raccogliere un'aliquota dei rifiuti liquidi che ruscellano verso il corpo idrico ed esaminarne il contenuto, verficare se questi sono qualificabili come proveniente dal deposito di rottami. Basterà ricercare oli e grassi totali.

Due cose.

Non si può non evidenziare come le conclusioni siano influenzate dalle carenze del decreto legislativo n.152/99. Se nel decreto fosse stato effettivamente definito anche lo "scarico di acque di dilavamento" probabilmente si sarebbero raggiunte conclusioni opposte. Infatti riflettendo su come pervenire a questa definizione si sarebbero immaginati casi del tutto analoghi a quello descritto, dove non esiste un sistema stabile di deflusso, quindi difficilmente riconducibili alla nozione di scarico. Il che avrebbe portato a considerare che, forse, probabilmente, quasi certamente, la distinzione tra scarichi e rifiuti operata con riferimento alla presenza o meno di una condotta non è proprio il modo migliore per definire i due campi di applicazione.

Come seconda osservazione ci si augura non si presentino casi analoghi almeno per i centri di raccolta di veicoli a fine vita visto che dovrebbero essere stati adeguati tutti alle disposizioni del decreto legislativo n.309.

I pneumatici ricostruibili sono rifiuti: lo ha stabilito una sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto un ricorso presentato da due trasportatori di pneumatici usati, accusati di aver compiuto la loro attività  in deroga alle misure concernenti l'iscrizione all'albo e imputati di gestione di rifiuti non autorizzati. I due trasportatori effettuavano il conferimento dei pneumatici ad un centro di rigenerazione, dopo averli raccolti presso un gommista convenzionato con lo stesso centro, considerandone la possibilità di un recupero.

Considerazioni. Né il gommista né il trasportatore hanno l'intenzione di disfarsi dei pneumatici ricostruibilie, sia il primo che il secondo operano perché i pneumatici si possano rivendere dopo il trattamento di ricopertura. Solo una parte dei pneumatici utilizzati vengono effettivamente smaltiti come rifiuto, quelli che il centro di rigenerazione ha valutato come irrecuperabili. Da qui quindi solo quest'ultimi ripartono in conformità alle disposizioni in materia di rifiuti. Purtroppo questa prassi, che è addottata in tutto il Paese, incappa nella interpretazione autentica della nozione di rifiuto, la quale, contrariamente a quanto si può immaginare, in questo caso non deregolamenta. Infatti secondo il Dl 138/2002 solo i pneumatici riutilizzabili senza alcun trattamento non sono rifiuti.

A nulla è valsa la modifica all'elenco dei codici europei dei rifiuti. Il nuovo Cer ha infatti modificato la precedente voce "pneumatici usati" nella più corretta voce "pneumatici fuori uso", di cui al codice 16 01 03, adeguandola alla analoga definizione, veicoli fuori uso, già esistente nel vecchio Cer. Pertanto come prima era indiscutibile che un veicolo usato non potesse essere considerato rifiuto a priori, in mancanza del pre-requisito dell'essere fuori uso e cioè dell'essere giunto alla fine della sua vita utile (end of life vehicle nel testo inglese), adesso, anche per i pneumatici viene utilizzata la medesima espressione. Un pneumatico usato che non sia ancora fuori uso non può quindi essere considerato rifiuto, a meno che non esistano le altre condizioni di legge per essere considerato tale (abbandono ect). A seguito della modifica il Ministero dell'ambiente, con DM 9 gennaio 2003, ha soppresso la voce 10.3 del suddetto allegato del DM 5 febbraio 1998. È stato così posto rimedio all'inesatto inserimento dei pneumatici ricostruibili, che rifiuti non sono, nella categoria dei rifiuti recuperabili in procedura semplificata (circolare Assogomme).

La questione non è quindi risolta, se la Cassazione continua a ragionare in questi termini. E' pur vero che si registrano spesso abbandoni di pneumatici e che, non tutti coloro che trasportano, lo fanno con intenti legittimi (compresi purtroppo i semplici cittadini). Questo comunque è un caso esemplare. Posti di fronte alla scelta i giudici preferiscono condannare piuttosto che assolvere, per il timore di creare quel precedente che permette ai veri colpevoli di agire indisturbati. In questo modo però la maggioranza incolpevole degli operatori del settore è costretta ad adempimenti di cui si potrebbe legittimamente fare a meno.

Ecopiazzole da autorizzare (n.34665/05): seconda recentissima sentenza della Cassazione sul tema. Ancora in contrasto con una lettura corretta delle norme, secondo il modesto parere di chi scrive. Si tratta in questo caso del Comune di Cascia che, come centinaia di altri comuni italiani, ha organizzato la sua raccolta differenziata in un'area dedicata dotandola delle attrezzature necessarie, stabilendone gli orari di apertura, organizzandone il funzionamento.

I cittadini arrivano con i loro mezzi, passano al vaglio del personale di servizio all'isola, conferiscono le varie tipologie di rifiuto separandole nelle diverse postazioni a queste adibite, in attesa delle ditte convenzionate che, periodicamente, si recano sul posto per raccoglierli e avviarli ai cicli di recupero previsti. Secondo i Carabinieri del NOE ciò non è possibile senza autorizzazione e quindi ne dispongono il sequestro che verrà convalidato dal magistrato di turno.

Il ricorso del povero Sindaco in Cassazione viene rigettato. Le motivazioni sono le medesime della precedente sentenza esaminata lo scorso mese, con una aggravante in più. Nel caso descritto non vi è ombra di gestione alcuna, sono solo cittadini che fanno il loro dovere senza altra operazione che non sia quella di separare i rifiuti per tipi omogenei. La Corte continua a ragionare di categorie formali come il deposito temporaneo, quello preliminare o la messa in riserva che non si applicano nell'ambito della organizzazione della raccolta dei rifiuti urbani, ma solo in quello della produzione di rifiuti speciali, considerando i cittadini alla stregua di una qualsiasi attività d'impresa e il Comune, che ha l'obbligo (non la facoltà) di garantire il servizio di nettezza urbana, un contoterzista che gestisce rifiuti altrui. Se non vi sarà un intervento ministeriale in merito (a lungo sollecitato dalle Regioni) non resta che procedere a presentare domanda, con l'accortezza di mantenersi sotto alla soglia delle 100 t/giorno, poiché in caso contrario l'ecopiazzola deve essere sottoposta nientedimeno che alla disciplina in materia di valutazione di impatto ambientale. Di male in peggio.

Produttore dei rifiuti (n.36963/05): la Cassazione ci ripensa e sull'identificazione del produttore dei rifiuti mette la parola fine (forse). La vicenda è dell'aprile 2001: il comune di Fivizzano incarica un'impresa di demolizione per l'abbattimento di alcuni fabbricati le cui coperture sono di cemento-amianto. Viene affidata in subappalto ad una seconda impresa specializzata la rimozione in sicurezza delle coperture in ottemperanza all'art.34 del D.lgs 271. Al termine dei lavori quest'ultima trasporta i rifiuti ad Avenza di Carrara. Il mezzo vettore incappa in un controllo, risultando non iscritto all'Albo Nazionale Gestori Rifiuti, e l'impresa viene per questo sanzionata dal giudice di primo grado. Il ricorso verte sulla qualifica di produttore detenuta dalla ditta stessa in quanto è con il suo intervento che si è generato cemento-amianto da avviare allo smaltimento, conseguentemente non è richiesta iscrizione a chi effettua il trasporto di rifiuti da sé prodotti. Il quarto comma dell'art.30 del D.Lgs 22/97 prevede l'iscrizione per le imprese che effettuano trasporto di rifiuti prodotti da terzi. Come conferma la Cassazione considerato che il Comune aveva affidato la rimozione in subappalto a questa impresa e che la stessa aveva esguito i lavori da cui si era originato il rifiuto costituito da cemento-amianto la qualifica di produttore era rivestita da quest'ultima, senza obbligo di iscrizione all'Albo. La Corte ha quindi assolto il titolare.

La pollina è un rifiuto in assenza di legge regionale (n.37405-05): se ne parlava giusto il mese scorso di deiezioni di origine animale. Mentre la Corte di giustizia CE ne sancisce l'esclusione dalla normativa rifiuti la Cassazione invece esprime una valutazione opposta. Le motivazioni che si leggono non sono tra le più coerenti con il dettato comunitario, infatti è sufficiente la coincidenza con il codice 020106 "feci animali, urine e letame (comprese le lettiere usate) effluenti, raccolti separatamente e trattati fuori sito" perché la Corte Suprema concluda che "il materiale accumulato e sparso sul terreno debba essere definito rifiuto, visto che il ( ) ha l'obbligo di disfarsene (?) e comunque nel caso concreto si è disfatto." Perplessità a iosa. Non vi sono obblighi allo spandimento delle deiezioni, lo spandimento è a fini agronomici e quindi si può ritenere vi sia un interesse alla loro riutilizzazione.

Nella sentenza si ricorda tuttavia che l'art.8 del D.lgs 22/97 prevede, ai sensi della lettera c) comma 1, che le materie fecali utilizzate nelle normali pratiche agricole non sono rifiuti in quanto disciplinati da specifiche disposizioni di legge. Tuttavia un allevamento avicolo con migliaia di polli non è un'attività agricola, secondo la Corte, e l'esclusione opera a condizione che le materie fecali siano riutilizzate nell'attività agricola stessa. Di allevamenti a dimensione industriale il nostro Paese è pieno e, visto che sono tutti dediti allo spandimento di deiezioni sul terreno, secondo ciò che sostiene la Cassazione, tutti incondizionatamente si trovano, ahiloro, in violazione delle norme sui rifiuti. Ciò accade anche in virtù dell'applicazione della disciplina concorrente sulle acque di scarico, prima prevista nella L.319/99 e oggi nel D.Lgs 152/99. In particolare l'art.38 di quest'ultimo decreto, si badi bene avvenuto in recepimento alle direttive comunitarie, dispone che l'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, siano essi sia solidi che liquidi, sia che provengano da attività agricole o agricole solo di nome, venga regolamentata dalle regioni sulla base dei criteri e norme tecniche adottati con decreto del Ministero per le politiche agricole e forestali. Ma poiché il decreto non è stato emanato e non esiste una disciplina regionale a cui fare riferimento, almeno in Friuli Venezia Giulia, non ci si può appellare all'art.62 del D.Lgs 152/99 il quale, transitoriamente, rende ammissibile l'utilizzazione agronomica delle deiezioni secondo le disposizioni previgenti della regione in cui si risiede. Quindi, il risultato è che, se la regione ha a suo tempo emanato qualche disposizione in merito le deiezioni sul suolo non sono rifiuti, se invece è rimasta inerte le deiezioni sul suolo sono rifiuti. Mah.

Il CDR può essere ottenuto sua da rifiuti urbani che speciali non pericolosi ed è irrilevante la forma delle procedure autorizzatorie (n. 16351/05): la sentenza tra origine dal sequestro in data 19 luglio 2004 di uno stabilimento di Barletta (BA) autorizzato in via ordinaria allo stoccaggio provvisorio ed adeguamento volumetrico mediante triturazione a freddo di rifiuti vari. Da queste operazioni si otteneva un combustibile alternativo che, ceduto a Buzzi Unicem, era oggetto di recupero energetico nel proprio impianto. Secondo il Tribunale la misura cautelare del sequestro era giustificata, perché non si trattava di rifiuto destinabile alla combustione ed al recupero energetico non provenendo in via esclusiva da rifiuti urbani, ex articolo 6 lettera p del decreto Ronchi e perché il combustibile di rifiuto può essere prodotto solo in regime di procedura semplificata ex articoli 31 e 33 del decreto Ronchi, in quanto il legislatore avrebbe al momento dettato specifiche norme tecniche soltanto per tale tipo di procedura ai sensi del Dm 5.2.1998 onde assicurare la compatibilità ambientale.

Queste due motivazioni erano sufficienti per configurare il reato di concorso continuato in attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, ipotesi forzosa quanto meno.

Sostiene il ricorrente che l'ordinanza impugnata non aveva tenuto conto del mutato quadro normativo sopravvenuto al decreto Ronchi, cioè della legge 179/2002, che ha inserito tra i rifiuti speciali il Cdr, quale combustibile derivato da rifiuti, senza più il riferimento esclusivo ai rifiuti urbani e della Decisione 2001/118/Ce che ha aggiornato il Catalogo europeo dei rifiuti, inserendo espressamente quello dei "rifiuti combustibili", codici 19.12.10, non riferito ai soli rifiuti urbani.

In modo ancora più evidente l'autorizzazione della Giunta provinciale di Bari del 22.12.1998 n. 848 faceva riferimento allo stoccaggio, adeguamento e triturazione di rifiuti destinati al riutilizzo in un processo di combustione, così come nelle determine successive dove si tratta di una produzione di rifiuti destinati alla combustione per 33000 t/anno.

Infine la legge delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'interpretazione della legislazione ambientale, legge n. 308, del 15.12.2004, che esclude il Cdr dalla nozione stessa di rifiuto, se rispondente alle norme tecniche del Dm 5.2.1998 o a quelle UNI - 9903.

Secondo la Cassazione il ricorrente ha ragione su tutta al linea.

Infatti una lettera integrata del testo di legge, ispirato al recupero dei rifiuti, ha quale punto cardine del settore la prevenzione e la riduzione dello smaltimento finale che sono resi possibili anche dalla "utilizzazione principale dei rifiuti come combustibile o come altro mezzo per produrre energia".

Inoltre è vero che l'ordinanza ignora la legge 179/2002 che ha inserito il Cdr quale combustibile senza il riferimento esclusivo ai rifiuti urbani e il Dpr 15-7-2003 n. 254 articolo 9 che consente la utilizzazione dei rifiuti sanitari (rifiuti speciali) per produrre combustione ed energia.

Infine "non è corretta anche la seconda affermazione della ordinanza impugnata, secondo cui il Cdr utilizzabile per recupero energetico in inceneritori dedicati ed in impianti industriali (es. cementifici o centrali termoelettriche) sia solo quello prodotto in regime di procedura semplificata ex articoli 31 e 31 Dlgs 22/97 e non con la procedura ordinaria. Trattasi di tesi non condivisibile anzitutto per ragioni logiche, poiché l'autorizzazione dell'autorità competente è un atto che offre maggiori garanzia di controllo rispetto alla comunicazione ad opera dell'interessato…..Nella comunicazione unilaterale da parte dell'interessato, tipica delle procedure semplificate, la P.a. o rimane in silenzio oppure è costretta a richiedere documentazione integrativa ex post."

Ciò che era veramente necessario fare era una verifica sulla natura del Cdr prodotto, sulla corrispondenza con le caratterisiche tecniche prescritte in autorizzazione, e sull'effettivo ed univoco riutilizzo del materiale ceduto alla Buzzi Unicem Spa in conformità alle disposizioni che questa doveva rispettare sulla base della propria autorizzazione al recupero energetico. Ma "tale accertamento non risulta essere stato compiuto, perché ritenuto non necessario alla luce dei due erronei presupposti di cui si è già detto."

Visto peraltro quanto sostenuto dal ricorrente circa la corrispondenza ai requisiti del Cdr di qualità, dettati dalla norma UNI 9903-1, che con la sopravvenuta L.308, ne esclude la natura stessa di rifiuto, la Cassazione accoglie il ricorso demandando il Giudice di rinvio ad accertare:

a) se nel caso in esame il Cdr è conforme alle norme tecniche UNI 9903-1;

b) se esso è utilizzato in modo certo in impianti di produzione di energia elettrica o in cementifici (come risulterebbe nel caso concreto).

Considerazioni: ancora una volta si procede attraverso valutazioni di forma e non di merito, è sufficiente un'interpretazione sopra le righe per mettere sotto sequestro un impianto regolarmente autorizzato (per una volta che non si erano seguite le procedure semplificate…). Dell'ipotesi di reato configurato dall'art.53 bis del D.Lgs 22/97, traffico illecito di rifiuti, se ne può anche abusare.

 

 

 

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