interventi
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dicembre 2002
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L'incidente all'impianto TDI della Dow Poliuretani occorso il 28 novembre a Porto Marghera non è che l'ultimo di una serie avvenuta all'interno del petrolchimico in questi ultimi anni. Oltre a porsi gli ormai consueti interrogativi sulla necessità di mantenere la chimica fine in un'area così fragile ecologicamente come la laguna, le domande più frequenti riguardano le cause dell'incidente e i suoi riflessi sull'ambiente e la salute dei veneziani (e non solo). Naturalmente è in corso l'inchiesta e fra qualche tempo potremo conoscere più nel dettaglio alcune delle risposte, anche se forse non tutte. Nel frattempo sulla base delle cronache raccolte e delle prime notizie provenienti da chi l'impianto lo conosce bene è possibile non solo affacciare qualche ipotesi, ma aprire un discorso più generale su un argomento estremamente impegnativo come il controllo dei rischi industriali.
I fatti
L'incidente è avvenuto il 28 novembre alle ore 19.40.
L'impianto per la sintesi di TDI, toluene diisocianato, materia prima per la produzione di poliuretani, è costituito da 7 reparti: TDI 1 (produzione di dinitrotoluene) 2 (produzione di ossido di carbonio), 3 (idrogenazione), 4 (produzione di fosgene), 5 (produzione di TDI), 7 (riciclo di acido solforico) e AS5 (produzione di acido nitrico). La reazione di sintesi avviene tra la metatoluendiammina e il fosgene. La metatoluendiammina è ottenuta dal toluene attraverso un processo di nitrazione e successiva riduzione, mentre il fosgene si ottiene per reazione diretta tra cloro e ossido di carbonio.
Le materie prime principali utilizzate nell'impianto TDI sono pertanto:
·
Acido Nitrico
· Toluene
· Monossido di Carbonio
· Idrogeno
· Cloro
· Fosgene (prodotto intermedio di lavorazione)
L'evento ha riguardato il reparto 5 e in particolare quella sezione d'impianto che recupera TDI dal flusso delle peci clorurate altobollenti, residuo di processo destinate all'incenerimento. "C'è stato uno scoppio che ha riguardato il serbatoio D528/2, seguito da un incendio che ha coinvolto la parte connessa dell'impianto e direttamente un secondo serbatoio, il cui ulteriore scoppio, a distanza di circa un'ora dal primo, ha spento l'incendio. Nel corso dell'incendio sarebbero bruciati toluene e peci altobollenti contenenti anche TDI, in quantità, stimata in prima approssimazione dalla ditta, tra le 10 e le 20 tonnellate." (ved. Relazione ARPAV).
Dall'incendio si è sviluppata una nube contenente sostanze pericolose, di qualità e quantità ancora non completamente definita, che è ricaduta a ombrello sul petrolchimico per una condizione di vento pressochè nullo nella zona. In seguito all'incidente tre lavoratori sono dovuti ricorrere a cure mediche per intossicazione dovuta all'inalazione delle sostanze sprigionatesi dall'incendio.
Alle 20.30 è stato dato l'allarme. Alle 21.32 il cessato allarrme.
Le sostanze coinvolte
Da quello che è possibile comprendere l'incidente ha riguardato un deposito di rifiuti del processo di sintesi del TDI costituito da peci che contengono idrocarburi aromatici, cloroderivati, catene carboniose e altro ancora. Non stiamo parlando quindi di un reattore, ma di un serbatoio di stoccaggio all'interno del quale si è sviluppata una reazione incontrollata.
Una situazione del genere pare non sia stata prevista. L'analisi dei rischi presenti in impianto non ha considerato questo come evento probabile, "top event" come si usa dire secondo la terminologia Hazop.
Posto che con così pochi elementi sarebbe azzardato fare delle ipotesi si può, in ogni caso, sottolineare come si stia parlando di una molecola (anzi di una miscela di isomeri) non solo classificata come tossica, ma anche decisamente reattiva. Tipica reattività è quella con l'acqua con la quale libera CO2 e calore, oltre a polimeri di urea. Anche il vapor d'acqua può essere iniziatore di una reazione. L'aumento di volume e temperatura può far esplodere i contenitori. Secondo la scheda di sicurezza il TDI deve essere stoccato in modo da evitare il contatto con agenti ossidanti come i perclorati, i perossidi, i permanganati, i clorati, nitrati, con acidi e basi forti come acido cloridrico, nitrico e solforico o come l'idrato di sodio o di potassio, con ammine, alcoli, glicoli. Reazioni violente si hanno con il caprolattame. Devono essere evitate fiamme libere e sigarette accese quando si lavora con il TDI. In caso di incendio possono formarsi sostanze pericolose come l'acido cianidrico. E' preferibile che lo stoccaggio avvenga sotto battente di azoto.
Partendo da questa carta d'identità poco rassicurante le analisi di rischio che vengono condotte sui processi coinvolgenti TDI prendono in considerazione, tra le ipotesi più temute, proprio il possibile contatto con acqua. Tipicamente in questi impianti la presenza dell'acqua è legata alle necessità di raffreddamento di reattori e serbatoi: l'acqua viene fatta circolare in serpentine interne od esterne. Oppure è utilizzata acqua nelle guardie idrauliche, un sistema di abbattimento delle emissioni che sfrutta la rettività con il TDI per provocarne la decomposizione (naturalmente si tratta di concentrazioni minime che non generano alcuna conseguenza). Una foratura del fasciame del serbatoio od un risucchio dalla guardia idraulica può avere portato a contatto con il TDI una improvvisa cascata d'acqua.
A titolo informativo è riportata nella sezione documenti la sentenza di condanna relativa all'incidente occorso nel 1995 alla Tagos di Busto Arsizio nella quale si lavorava appunto il TDI. In quella occasione circa 40 persone ricorsero alle cure ospedaliere e 700 lasciarono le loro case. Nella sentenza sono riportati stralci delle perizie riguardanti le possibili cause dell'incidente.
Ora incidenti come questi non sono mai ascrivibili ad una sola causa, ma a più concause. Certo non depone a favore della gestione Dow quello che si è saputo a proposito dell'elevata temperatura registrata da giorni all'interno del serbatoio, superiore alla soglia di rischio di 110-120 gradi, senza che venissero ridotti il carico di materie prime in produzione. Un allarme temperatura era peraltro scattato alle ore 14.00 dello stesso giorno. C'era inoltre un problema di agitatore delle peci che non funzionava a causa di incrostazioni, ma piuttosto che fermare l'impianto si decideva di rimandarne la riparazione più avanti.
Inoltre non è possibile escludere che nella massa del rifiuto sia finita per errore una di quelle sostanze sopracitate che reagiscono attivamente con il TDI.
In ogni caso alla reazione incontrollata è seguito un incendio e con l'incendio hanno preso fuoco le peci clorurate. Considerato che la temperatura raggiunta non sarà stata senz'altro sufficiente per la completa demolizione ossidativa delle sostanze organiche coinvolte (come in un inceneritore, per intendersi), il pensiero dei tecnici richiamati sul luogo dell'incidente è andato subito alla probabile formazione di diossine e furani, come ad altri prodotti incombusti di analoga pericolosità. Per questo motivo la nube è stata abbondantemente irrorata con acqua, in modo da abbattare i fumi impedendone la diffusione. Se da una parte questa azione tempestiva ne ha probabilmente ridotto le concentrazioni nell' aria, nondimeno lo sversamento delle acque inquinate da tali composti ha finito per interessare la laguna, come si è appreso dalle indagini svolte in tempo reale dal Magistrato delle Acque su campioni dello scarico SM15 a servizio del petrolchimico.
Sebbene si possa immaginare come sia difficile tecnicamente, in tutte le condizioni, assicurarsi che le acque di spegnimento di un incendio possano essere sempre controllate in modo da non provocare danni ai corpi idrici, nel sito dell'impianto TDI evidentemente non è stato installato alcun sezionamento manuale dei reticoli fognari o altro sistema in grado di interrompere il flusso di inquinanti verso la laguna.
L'emergenza
Qualcosa non ha funzionato nei tempi. Secondo la versione ufficiale l'incidente è scoppiato alle 19.40. Il fax alla Prefettura, al Comune e alla Provincia parte dallo stabilimento solo 23 minuti dopo. Probabilmente la responsabilità è del management che riteneva di dover trattare "in famiglia" l'avvenimento, senza avvertire chi di dovere. Alle 20.27 la centrale operativa della Protezione civile è attivata. Alle 20.32 su segnalazione dei Vigili del fuoco il sindaco dirama l'allarme.
Nonostante le raccomandazioni contenute nell'opuscolo distribuito con le principali norme di comportamento da osservare in caso di incidente, la gente è stata colta di sorpresa, in molti non hanno saputo cosa fare, iniziando a telefonare ad amici e conoscenti. Le voci circa l'interessamento del fosgene hanno poi scatenato il timor panico.
Qualcosa non ha funzionato anche nel coordinamento. La convocazione in Prefettura è andata deserta, mentre i rappresentanti delle Istituzioni si sono recati presso il comando dei vigili del fuoco, in terraferma. Il dissidio sulla postazione di comando si deve all'inopinato intervento del legislatore che, con legge n.401/2001, ha inteso riassegnare alla figura del Prefetto la direzione unitaria dei servizi di emergenza da attivarsi a livello provinciale. Tale direzione era già stata attribuita alle Province ai sensi del D.Lvo 412/98. Per inciso con la stessa legge è stata cancellata quella positiva esperienza che andava sotto il nome di Agenzia di Protezione Civile.
Certe prese di posizione hanno come unico motivo quello di riportare verso il centro le leve perdute del controllo: se paiono al momento prive di conseguenze ci si rende conto della loro gravità solo quando vengono drammaticamente rimesse in gioco dagli eventi. Una mancanza di chiarezza nei rispettivi ruoli e funzioni genera confusione e la confusione in questi momenti può risultare veramente pericolosa.
Peraltro, nella constatazione delle dimensioni che assumeva l'incidente, il sindaco di Venezia, Paolo Costa, e il comandante dei vigili del fuoco, Adriano Pallone, si precipitavano sul luogo creando le basi per una reciproca consultazione. E' qui che i due si sono parlati decidendosi per la messa in allarme della città. Certo non è stato un comportamento dettato da raziocinio.
Bisogna però suggerire a proposito alcune considerazioni: la decisione di dare l'allarme e di indicare le prime contromisure deve necessariamente poggiarsi su una valutazione la più oggettiva possibile della situazione, dunque ravvicinata. Questa valutazione implica anche una responsabilità elevata e una esperienza altrettanto consolidata, in caso contrario dovremmo pensare che le eventuali conseguenze di una direttiva basata su dati imprecisi o approssimati finiscano poi per ricadere sull'anello più debole della catena di comando, sul personale che si sta prodigando per spegnere l'incendio o raccogliere campioni di acqua e di aria.
Possiamo già immaginare, per fare un esempio, come un'eventuale inchiesta aperta a seguito del riscontro di danni a cose o persone coinvolte in operazioni di sgombero, dovendo porsi l'obiettivo di chiarire se l'allarme sia stato dato a ragion veduta, rischi di perseguire non tanto le alte cariche, ma chi, presente e operante sul luogo dell'evento, si sia reso colpevole di avere fornito informazioni giudicate, a posteriori, errate.
Alla luce di queste considerazioni non è più così riprovevole l'iniziativa del sindaco e del comandante dei vigili del fuoco e anzi, in una certa misura, dovrebbe essere spunto di una riflessione più approfondita.
Riguardo all'efficacia dell'intervento, sotto il profilo tecnico, appare evidente che la fortuna, in questo caso, ha avuto un ruolo importante. Con lo scoppio del secondo serbatoio all'incendio è venuto a mancare improvvisamente ossigeno, il che ha significato togliere alimento alle fiamme. Nondimeno è importante segnalare la tempestività delle squadre di emergenza interne al petrolchimico accorse congiuntamente ai pompieri del turno C di stanza nella caserma di Marghera, senza i quali le conseguenze sarebbero state certamente maggiori. Così come è stata significativa, sia organizzativamente che dal punto di vista tecnico, l'attività di monitoraggio e controllo in tempo reale condotta dal personale dell'ARPAV e del Magistrato del Po il che ha permesso, nel giro di qualche giorno, di avere già tutti i dati sulla base dei quali esprimere i primi giudizi.
Considerato che gli enti istituiti con il fine precipuo di garantire l'operatività necessaria in caso di emergenze che possano comportare conseguenze per le persone e danni per l'ambiente navigano sempre in condizioni di evidente sofferenza sotto il profilo delle risorse di mezzi e personale è forse il caso che eventuali critiche siano rivolte a chi, avendo compiti e responsabilità di governo locale e nazionale, non le ha sostenute adeguatamente garantendone un migliore funzionamento. Alle persone che vi lavorano vanno invece plausi e riconoscimenti.
I controlli
Ogni qualvolta avvengono fatti di questa portata scattano inesorabilmente prevedibili interrogativi sulla scarsezza dei controlli. Per come è strutturata e applicata nel nostro paese la normativa sui rischi di incidenti rilevanti, tenuto conto che si è partiti con il primo recepimento della direttiva Seveso nel lontano 1988, e che la Seveso II è stata trasposta nel nostro ordinamento con il D.L.vo 334/1999, non si può essere purtroppo molto ottimisti.
Il problema maggiore è rappresentato dalle istruttorie non concluse dei rapporti di sicurezza presentati dalle aziende ad alto rischio. Nonostante il tempo trascorso il numero delle pratiche esaminate ed approvate è decisamente esiguo. Le motivazioni sono diverse: senz'altro l'elevata complessità della materia, l'identificazione delle migliori misure di sicurezza, la conoscenza superficiale dei processi, la difficoltà di stabilire un margine di accettabilità del rischio, la concomitanza di più notifiche.
Uno dei maggiori ostacoli sta tuttavia nell'elefantiasi procedurale la quale è al contempo causa ed effetto di una velleità centrale, la solita smania ministeriale di "pesare" sulle decisioni importanti. L'aggregato amministrativo che sovrintende all'espletamento delle istruttorie si chiama Comitato Tecnico Regionale, CTR, di cui all'articolo 20 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 luglio 1982, n. 577, la cui composizione risulta allargata a ricomprendere le rappresentanze tecniche di autorità locali e nazionali. La regìa è tuttavia ministeriale e si sa che in questi casi il procedere avviene tra mille cautele. Tra competenze negate o mal assegnate il risultato è che queste istruttorie non progrediscono e che nessuno è in grado di rispondere ad una semplice domanda come: "gli impianti sono a norma?", né chiarire quando e con quali modalità i sistemi di sicurezza presenti e la loro gestione debbano essere controllati.
Ne discende che le ispezioni vengono effettuate senza alcun supporto, secondo solo la personale sensibilità e preparazione dei singoli operatori. Se mancano le conclusioni dell'inchiesta tecnica dove vengono indicate le valutazioni tecniche finali e le proposte di eventuali prescrizioni integrative, l'ispettore dovrà necessariamente ripartire dalla documentazione agli atti effettuando una istruttoria a proprio uso e consumo, con ciò che ne consegue in termini di impegno e comprensione. Eppure basterebbe poco, potrebbe essere sufficiente che il CTR provvedesse a fornire le "prime disposizioni in materia di controllo degli impianti" in attesa di completare l'esame documentale per le parti maggiormente sotto discussione.
Inoltre, poiché gli ispettori dedicati a questa particolare tematica sono solo quelli formati e patentati a seguito di uno specifico percorso professionalizzante istituito dal Ministero dell'Ambiente, inevitabilmente pochi e costretti a lunghi spostamenti, possiamo immaginare con quali frequenze vengano effettuate le visite agli impianti e con quale tempestività possano essere richiamati per un indispensabile consulto in caso di incidenti o anche solo per supportare le scelte di pianificazione. A questo aggiungiamo che le verifiche sono effettuate sulla base delle disponibilità finanziarie previste dalla legislazione vigente, il che significa che se il relativo capitolo di bilancio non è periodicamente aggiornato, verifiche non se ne fanno.
Il risultato purtroppo è un pericoloso scollamento tra i livelli decisionali locali e chi detiene le conoscenze, lontano nel tempo e nello spazio, ragion per cui, nelle condizioni di stress, la "governance" si riduce al solito rimpallo di responsabilità, dove tutti sono colpevoli e quindi non lo è nessuno. La situazione va revisionata al più presto prefigurando la soluzione del decentramento come primo passo per sbloccare l'impasse amministrativo.
Le contromisure
Tra i veneziani l'incertezza e l'esasperazione sono sintomi preoccupanti. Prima che la malattia si riveli incurabile occorre iniziare una terapia d'urto. Considerando che l'impiantistica attuale ha davanti dai 5 ai 10 anni di vita residua si va incontro ad un processo di transizione che potrà essere di sviluppo, di trasformazione o di chiusura delle attuali produzioni industriali. Se le imprese sbloccheranno gli investimenti dipenderà anche da quale sarà il vento che agita le istituzioni. In questo fase di passaggio ogni arretramento aumenta la probabilità di nuovi incidenti.
Serve allora lanciare una "operazione trasparenza" per dimostrare ai veneziani che non sono lasciati soli davanti ad avvenimenti che incalzano (1). Si costituisca un nucleo di esperti in sicurezza impianti, presi dagli organi territoriale, dai profili universitari, dal mondo delle professioni e si attribuisca loro un incarico a tempo pieno, di almeno un anno: quello di verificare le produzioni a rischio, di identificarne i punti deboli, le criticità, le irregolarità. Ogni ispezione sia accompagnata da una relazione e ogni relazione trovi le modalità per poter essere resa pubblica, partecipata. In questo modo si sconfigge il sospetto, si allontana la paura.
Solo così si darà il segnale che non si rimane impotenti, che si è in grado di reagire garantendo la sicurezza ai cittadini e il lavoro ai lavoratori.
Note
(1) a proposito di trasparenza si esprime il proprio apprezzamento per l'iniziativa del ARPAV che, a pochi giorni dall'evento (il che costituisce di per sè un fatto rilevante), ha voluto pubblicare sul sito il resoconto delle analisi relative ai campioni raccolti e fornire alcune informazioni di prima mano su quello che avvenuto, compresa una documentazione fotografica dello scenario incidentale che rende al meglio, più di tante parole, il rischio corso.
ARPAV - Rapporto di sintesi sull'incidente di Porto Marghera del 28 novembre