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13 dicembre 2002

E' di questi giorni la dichiarazione di "stato di emergenza socio-ambientale per le aziende chimiche Acetati-Italpet" di Verbania (NO). Contrariamente a quanto si possa subito immaginare non c'è di mezzo nessun terremoto, o esondazione, o eruzione, o altro fenomeno naturale in grado di compromettere il funzionamento di queste imprese, ma lo sconvolgimento che minaccia lo stato socio-ambientale di Verbania è da ricercarsi ..... nell'operato della Autorità Giudiziaria. A seguito di un esposto della locale Legambiente l'indagine svolta dalla Procura ha portato alla decisione di eseguire il sequestro dello scarico industriale comune alle due aziende. Questa opzione infatti, quando lo scarico ha caratteristiche di tutto rispetto per quantità e qualità, porta inevitabilmente alla fermata della produzione e alle conseguenze occupazionali che ognuno può comprendere.

Negli ultimi anni vi sono due importanti precedenti che hanno avuto l'onore delle cronache. Il sequestro dello scarico SM 15 del Petrolchimico di Marghera e quello della cartiera di Tolmezzo in Carnia. Con l'aiuto dei documenti resi disponibili grazie alla rete è possibile tracciare un quadro più completo di questo strumento di carattere preventivo e di come dovrebbe essere utilizzato.

La definizione esatta di "sequestro preventivo" si ritrova descritta all'art.321 del Codice di Procedura Penale: "(Oggetto del sequestro preventivo) Quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato. Prima dell`esercizio dell`azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari."

L'introduzione del sequestro preventivo si deve alla revisione del Codice di Procedura Penale (C.P.P.) operata dal legislatore nel 1989 il quale ha inteso diversificarlo dal sequestro probatorio per presupposti e finalità. Mentre il sequestro probatorio è dedicato ai mezzi di ricerca della prova il sequestro preventivo serve ad impedire che lo svolgimento di attività connesse all'uso di cose pertinenti al reato possa, nell'attesa della definizione del procedimento penale, causare danni ulteriori o favorirne altri. Il sequestro preventivo ha, perciò, una finalità cautelare intesa come prevenzione e tutela della collettività da altri reati.

Di qui l'utilizzo a fini di tutela ambientale e dei lavoratori. Tuttavia in considerazione del fatto che come tipo di sequestro è in grado di coinvolgere diritti ed interessi di primaria importanza il legislatore ha voluto sostenerlo con alcune garanzie, in particolare l'attribuzione del potere di sequestro al giudice (e in via solo residuale alla polizia giudiziaria ed al pubblico ministero) e la creazione di un sistema di impugnazioni e ricorsi contro il provvedimento stesso da parte degli interessati. Non si può nascondere in effetti che la decisione di procedere ad un sequestro preventivo possiede già le caratteristiche di una sanzione, tanto più pesante quanto maggiore è il valore della cosa sequestrata, sia proprio che da questa discendente.

Il meccanismo è questo: se il magistrato, che svolge le funzioni di pubblico ministero, attraverso gli atti della polizia giudiziaria che riferiscono di un reato, rileva un pericolo per la collettività o l'ambiente rivolge istanza al giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) perché disponga il sequestro. Il GIP, esaminata l'istanza e le prove, gli elementi, le circostanze che supportano la stessa può decidere in senso favorevole alla richiesta oppure rigettarla, restituendo le cose sequestrate. Contro ordinanze e decreti del GIP è possibile ricorrere al tribunale del riesame il quale è tenuto ad esprimersi entro 10 giorni dalla ricezione degli atti. Anche questo organo giurisdizionale può emettere un verdetto favorevole all'una o all'altra parte in causa. E' importante sottolineare come la richiesta di riesame non sospenda l'esecuzione del provvedimento.

L'esercizio della facoltà di procedere al sequestro non è quindi rimesso a discrezionalità assoluta, bensì alla sussistenza di una situazione di pericolo grave, anche se non imminente, per l'incolumità dei lavoratori o la tutela dell'ambiente. In ogni caso la sottoposizione della richiesta al vaglio di un altro giudice permette di riequilibrare, laddove necessario, interpretazioni troppo soggettive di questo pericolo.

Tuttavia bisogna riconoscere come nella materia ambientale, diversamente da quella della sicurezza delle macchine o dei luoghi di lavoro, non sia così immediato stabilire se gli elementi di cui si dispone siano la fotografia di una situazione reale o invece ne rappresentino una delle possibili versioni, magari la meno frequente. Cioè mentre di una macchina, impianto, attrezzatura è quasi sempre possibile esaminare i dispositivi di sicurezza presenti, in qualsiasi momento e senza particolari prove, così non è altrettanto facile sostenere che uno scarico sia regolare o meno, sia inquinante o meno. I motivi sono diversi. Proviamo ad elencarne alcuni:

1. Innanzitutto non è scontato che lo scarico industriale sia ispezionabile, anzi, è spesso vero il contrario. I reflui prodotti da uno o più processi che avvengono all'interno dello stabilimento recapitano all'interno di un sistema di condotte interrate di cui spesso non ha conoscenza la stessa impresa. Questo aspetto è tanto più vero quanto più è vecchio l'insediamento, complesso sotto il profilo organizzativo e strutturale, e gestito in maniera superficiale. Anche i passaggi di proprietà contribuiscono a rendere ardua la ricostruzione dei flussi e per questo spesso si ricorre alla memoria storica di chi ha lavorato una vita nella stessa azienda. Per fare un esempio è stato necessario un anno di lavoro al perito incaricato dalla Procura di ritracciare il reticolo fognario del Petrolchimico di Marghera.

2. Direttamente collegato al primo motivo è la necessaria conoscenza del ciclo di produzione, con le materie prime in ingresso e i prodotti secondari che possono derivare dalla reazione di sostanze. Per poter determinare se lo scarico rispetterà o meno i limiti di tabella III dell'allegato 5 al D.L.vo 152/99 bisogna conoscere sostanze e prodotti di reazione che è possibile ritrovare miscelati ai reflui scaricati, sapere dove si formano, quando vengono scaricati e in quale punto della rete. Queste informazioni servono per due motivi: il primo è quello di dover effettuare un campione rappresentativo dello scarico, cioè in grado di costituire quella fotografia più prossima al reale di cui necessita il magistrato. Il secondo è di dover escludere che allo scarico terminale, là dove si effettuerà il prelievo, giungano anche ingenti quantità di acque pulite (per es. di raffreddamento) con lo scopo non dichiarato di diluire i reflui e quindi di rispettare i limiti.

3. Un ulteriore aspetto da non sottovalutare è la posizione amministrativa dell'azienda sotto il profilo autorizzativo. Le cose sono diverse a seconda che il regime autorizzativo sia relativo ad un insediamento esistente al 13 giugno 1999 o nuovo. Nel primo caso potremmo ancora ritrovarci nella condizione di una autorizzazione inespressa, di che dobbiamo rendere grazie a questa sciagura legale del silenzio-assenso vigente dal 1976 con Legge n.319, c.d. Merli. Per chi non lo sapesse questo chiarisce i tanti perché di una evidente arretratezza tecnologica per quanto riguarda gli impianti di depurazione, se non la loro completa assenza. Qualora invece fossimo in presenza di un atto espresso andrà approfondita la lettura della parte dedicata ai limiti fissati dall'autorità, potrebbero esservi delle sorprese.

4. Infine c'è il connotato della dinamicità dello scarico rispetto a quello della fissità di una macchina. Per sostenere che uno scarico non è a norma è necessario dimostrarlo con una attività di campionamento e analisi che, oltre ad essere condotta secondo metodiche ufficiali pena la loro contestabilità, richiede tempo, molto tempo. Non è escluso che campionamenti e analisi debbano inoltre essere ripetuti né che debbano essere eseguiti con modalità e frequenze diverse proprio per raggiungere l'obiettivo della maggiore corrispondenza. Per una macchina senza i dispositivi di sicurezza è sufficiente, spesso, solo una accurata documentazione fotografica.

Già da questa breve sintesi è facile comprendere come la raccolta delle prove sia l'elemento cruciale del provvedimento. Queste, nell'ipotesi del sequestro, devono servire a due cose: a dimostrare l'esistenza di uno o più reati, a far comprendere la sussistenza di un pericolo grave e ulteriormente aggravabile. Mentre per la sussistenza di un reato, fatti salvi i problemi che abbiamo rappresentato, si può disporre con ragionevole sicurezza di prove certe, lo stesso non si può dire per la seconda necessità. Qui entra in gioco la personale valutazione del pubblico ministero. E' chiaro che più precisa e circostanziata è la descrizione dello stato dei luoghi che si ritrova nel rapporto della polizia giudiziaria, maggiore è la sua comprensione. E tuttavia c'è un ampio margine di discrezionalità che si riserva il magistrato, dal quale dipende la decisione se procedere o meno per un sequestro. Discutendo di ambiente dovremmo parlare di "sensibilità" poiché l'attenzione a questi temi può non essere la medesima, tanto è vero che , per scelta o per necessità, nelle Procure si prefigura spesso una suddivisione dei carichi di lavoro sulla base delle specializzazioni ed esperienze acquisite, cosicchè c'è chi si interessa in prevalenza di reati ambientali, chi di reati in materia di igiene e sicurezza dei lavoratori, chi di altro ancora.

La specializzazione, oltre ad favorire l'acquisizione di una maggiore esperienza in ambito legale, ha un indubbio vantaggio, per l'argomento che stiamo trattando. Quello di poter valutare e mettere a confronto situazioni tra loro simili, nel tempo e nello spazio, e quindi di potersi costruire una scala di indicatori mirati sulla base dei quali si riduce il margine di possibili sovrastime della gravità dei fatti. Questa esperienza andrebbe poi sfruttata anche in relazione alle attività di polizia giudiziaria alla quale il magistrato potrebbe inviare direttive in grado di indirizzare la stessa verso le fattispecie di reato più impattanti, riducendo nel contempo la ricerca di reati bagatellari o l'uso troppo disinvolto del sequestro d'iniziativa.

Vi è poi un altro elemento che deve essere tenuto in conto nel sequestro di uno scarico e cioè come può dimostrarsi che questo sia stato regolarizzato. E' pleonastico che per acconsentire al dissequestro è indispensabile sia consegnata la prova provata della sua messa a norma. Ma come riuscire a certificare che le caratteristiche chimico-fisiche dello scarico sono rientrate nei limiti se lo stesso non viene prima rimesso in funzione? E' una contraddizione in termini, il classico cane che si morde la coda. Da questo impasse tecnico-normativo si esce con una certa difficoltà, come vedremo negli esempi che seguono.

Un secondo problema, ancora più incalzante, è quando si appalesa l'inesistenza di una soluzione rapida e tempestiva. Possiamo immaginare come occorra tempo per progettare ed installare impianti di tecnologia già nota, si pensi allora cosa deve significare per un'impresa la ricerca e l'applicazione di uno o più accorgimenti mai sperimentati. Se le alternative non sono a portata di mano il sequestro minaccia di durare non giorni, ma mesi e mesi.

Per venire agli esempi è molto istruttivo leggersi gli atti della "Commissione Parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuri e sulle attività illecite ad esso connesse", relativi alla precedente legislatura, quando ad una delle audizioni previste è stato invitato il Sostituto Procuratore dr.Luca Ramacci della Procura di Venezia. Il testo è riportato integralmente nella sezione documenti. L'audizione è avvenuta il 24 giugno 1998, a poca distanza dal dissequestro dello scarico SM 15 dell'Enichem. Richiesto di una breve introduzione circa le attività d'indagine condotte fino a quel momento il PM così relazionava:

"Per quanto riguarda poi l'inquinamento idrico, abbiamo cominciato ad effettuare i controlli dagli scarichi maggiormente a rischio. Il primo scarico controllato è stato quel SM15 di cui si è molto parlato in questi giorni, perché era quello che ci preoccupava maggiormente a causa della presenza di alcune sostanze che, al momento del primo controllo, non erano conosciute. Preciso che quelle sugli inquinanti liquidi sono indagini più difficili da eseguire. Mentre infatti gli accertamenti sui fumi, che comportano un'attività complessa e protratta nel tempo, ma non necessitano della sorpresa, le indagini sui liquidi, purtroppo, devono essere svolte organizzando tutto un apparato che ci consenta di andare sul posto senza che gli interessati lo sappiano prima, altrimenti non troveremmo nulla……

Se ne è parlato molto, forse anche in modo non del tutto esatto. Abbiamo fatto tre campagne di analisi: una di iniziativa del magistrato alle acque, nel senso che sono stati da me delegati a fare i controlli e loro, di loro iniziativa, hanno fatto dei prelievi. Successivamente, perché altrimenti il giudice non avrebbe ritenuto valide queste analisi per problemi di procedura, con due decreti di ispezione, ho fatto ripetere nuovamente le analisi. Queste la prima volta sono state confermate. Il dottor Ferrari, però, ebbe modo di vedere un pulviscolo nero in superficie, di cui non era nota l'origine. Abbiamo così ripetuto per la terza volta le analisi ed abbiamo trovato il nero fumo, che poi in realtà era costituito da idrocarburi policiclici aromatici. I risultati delle analisi erano veramente gravi perché evidenziavano lo scarico in laguna di 65 chilogrammi l'anno di tali idrocarburi: sono molti perché, come dice il dottor Ferrari, si tratta di un quantitativo idoneo a contaminare in modo irreparabile, in linea teorica perché poi la sostanza si distribuisce, 200 tonnellate l'anno di sedimento lagunare. Vi erano poi 47 mila chili l'anno, pari a 129 chili al giorno, di fanghi classificabili come rifiuti pericolosi o tossico-nocivi con il DPR n. 915 del 1982, perché contaminati da questi idrocarburi policiclici aromatici provenienti dal depuratore biologico gestito dalla società Ambiente, che depura anche per Enichem.

Il terzo elemento era il famigerato bromoformio: questo era stato riscontrato - lo abbiamo saputo poi - anche dai chimici dell'Istituto superiore di sanità, che però non erano riusciti ad individuarne l'origine, tant'è che quando dissi loro che era stato trovato il bromoformio nell'SM15, scambiandosi le idee tra loro dissero che questa era quella curva di cloro che non riuscivamo ad identificare nelle acque della laguna. Il bromoformio era prodotto da attività di clorazione delle condotte; essendo il cloro un biocida, viene utilizzato per uccidere le alghe che si formano nella tubature; le alghe, però, si formano perché l'acqua è calda ed inquinata; in altre parole, è una sorta di circolo vizioso in cui si clora e si inquina per eliminare l'inquinamento già prodotto.

Il bromoformio, mi diceva il dottor Ferrari, è molto stabile; è della stessa famiglia del cloroformio, ma quest'ultimo è molto volatile e quindi si elimina subito, mentre il bromoformio, ripeto, è stabile e molto pericoloso; esso veniva immesso in laguna in quantitativi massicci; mi pare 70 tonnellate l'anno. A fronte di questa situazione e conoscendo anche l'atteggiamento, che poi è cambiato, delle aziende in questione, è stata fatta la richiesta di sequestro."

Non c'è altro da aggiungere se non che l'ecosistema così particolare della laguna veneziana è noto come sia già fortemente compromesso e che lo scarico SM 15 non è, come potremmo immaginare, un condotto che recapita acque inquinate, ma un vero e proprio canale che si percorre in motoscafo, grazie alla incredibile portata di 50.000 mc/ora!. Le tonnellate anno di sostanze riversate in laguna non sono altro che il prodotto della concentrazione del singolo inquinante per la portata e per i giorni lavorativi in un anno. E' interessante notare come i risultati delle indagini svolte abbiano messo in luce un inquinamento che non dipendeva dai processi produttivi in essere, ma da circostanze che non avrebbero dovuto presentarsi: il fatto che i residui di nerofumo venissero scaricati in fogna, invece di essere trattati come rifiuti, la disinfezione delle acque con cloro gassoso e la conseguente formazione di prodotti secondari estremamente persistenti. Si capisce inoltre come non sia stato affatto semplice pervenire a questi riscontri.

L'esempio dello scarico SM15 è utile anche per comprendere la fase processuale del sequestro, grazie agli atti resi disponibili dallo stesso Ramacci sul suo sito www.lexambiente.it. La prima richiesta è stata tramessa al GIP in data 10 novembre 1997 ed esaudita dall'ufficio per le indagini preliminari in data 30 marzo 1998. E' importante sottolineare il tempo trascorso dalla prima richiesta. Le garanzie che il legislatore richiede siano applicate, nel caso in concreto che stiamo esaminando, mettono in secondo piano la tutela collettiva: per il periodo intercorso lo scarico ha continuato a produrre i suoi effetti. Peraltro il ritardo è stato maggiore a causa di una diversa valutazione sui contenuti del provvedimento di sequestro.

In effetti, il giudice per le indagini preliminari decideva sì di concedere il sequestro, ma ne rimandava l'esecuzione alla scadenza di quattro mesi dalla data del decreto in modo da pemettere ad Enichem la messa a norma dell'impianto. Il PM allora ricorreva sostenendo che tale tipo di sequestro "condizionato" non poteva essere applicato nel caso in questione in quanto " la complessità e le dimensioni dell'impianto, la personalità degli indagati e, non ultime, le modalità con le quali gli scarichi vengono effettuati non escludono la possibilità per gli indagati di porre in essere particolari accorgimenti. Invero la massiccia clorazione, la perdita giornaliera di ingenti quantitativi di fanghi tossici e gli altri particolari a suo tempo evidenziati e desumibili dagli atti, denotano la consapevolezza, da parte degli indagati, delle conseguenze derivanti dall'immissione in laguna delle sostanze scaricate. Costoro, inoltre, pur essendo da mesi a conoscenza della reale situazione riscontrata (avendo preso visione dei referti analitici relativi ai prelievi effettuati in forma garantita) nulla hanno fatto per impedire il gravissimo inquinamento in atto. Era ed è estremamente facile aumentare temporaneamente la diluizione dei reflui, utilizzare per un breve periodo materie prime in tutto o in parte diverse, deviare il corso degli scarichi attraverso "by-pass" o in altro modo e adottare altre misure atte a vanificare ogni controllo."

Il tribunale del riesame accoglieva la richiesta del PM, questo avanzava nuova istanza e il GIP emetteva nuovo decreto di sequestro, questa volta senza condizioni. Questo ulteriore passaggio, naturalmente, anche con le più buone intenzioni, spostava in avanti l'esecuzione del provvedimento e quindi il momento di fermare gli impianti. E' evidente come la ricaduta di queste decisioni doveva essere bene ponderata e come la discussione non fosse di mera dottrina. Nel caso in esame una fermata degli impianti equivaleva a mettere in pericolo dai 24 mila ai 200 mila posti di lavoro, secondo alcuni a bloccare un ottavo della chimica mondiale. Le cose poi si sono risolte nel senso che il sequestro è stato eseguito verso il 15 giugno dello stesso anno e per una settmana vi è stata una riduzione al minimo tecnico dell'attività. Il PM ha poi accolto la richiesta di dissequestro avanzata dai difensori dell'Enichem sulla base della prove di regolarizzazione dell'impianto presentate da una società terza e di una ispezione dello stesso PM.

Il caso dell'Acetati-Italpet non è molto diverso. Qui la Procura si è attivata a seguito di una denuncia circostanziata con tanto di analisi presentata il 12 marzo di quest'anno dal circolo di Legambiente di Verbania (NO).

L'inizio dell'attività dell'Acetati risale al 1989 al momento in cui la Mossi & Ghisolfi, importante gruppo con sede ad Alessandria, rileva gli impianti chimici dismessi da Montefibre, dopo che la Gepi (finanziaria di Stato) l'aveva rifinanziata. Come molti insediamenti industriali della prima ora il sito Acetati-Italpet si trova ormai inglobato nel contesto urbanizzato di Verbania, a contatto con abitazioni e supermercati. Il problema della sua localizzazione si pone in considerazione dell'inserimento dello stesso nella lista degli insediamenti a rischio di incidente rilevante ai sensi della direttiva CE Seveso bis.

Nello stabilimento sono attivi questi processi: produzione acetato di cellulosa, recupero acido acetico, produzione anidride acetica. Le materie prime che per quantità e qualità rientrano tra quelle classificate dalla normativa sono: acido acetico, anidride acetica, ammoniaca, etere isopropilico, metiletilchetone. Lo stabilimento è dotato di un impianto per il trattamento chimico-fisico degli stream delle acque di processo e meteoriche. Come ossidante per le sostanze organiche (in particolare le aldeidi) è utilizzato il perossido di idrogeno al 32% (note desunte dalla scheda di informazione sui rischi di incidente rilevante per i cittadini ed i lavoratori).

Secondo Legambiente lo scarico Acetati "era ed è costituito da circa 80 mc/ora di acque di processo provenienti dalle lavorazioni di Acetati e in piccola parte di Italpet, diluite in 1500 e più mc di acque estratte dal sottosuolo usate per raffreddare gli impianti. Previa una operazione di abbattimento di una parte del suo contenuto inquinante e un aggiustamento dell'acidità, contiene ancora e scarica a lago: polverino di acetato, ammoniaca, solfati, solventi, acido acetico, formaldeide, cloroformio." E' la formaldeide la sostanza sulla quale si appunta l'attenzione di tutti in quanto probabile cancerogeno secondo lo IARC. La sua ricerca nelle acque di scarico è stata prevista dal D.L.vo 152/99, qualora risponda alla definzione di cancerogeno.

C'è inoltre il problema della diluizione. Lo stabilimento consuma 14 milioni di metri cubi di acqua all'anno, la maggiorparte di raffreddamento. Acque di scarico e di raffreddamento sono miscelate, e questo non è ammesso dalla legge. Peraltro non è previsto il controllo allo scarico parziale.

Poichè dispone di pozzi privati e non sversa le acque reflue nel depuratore pubblico, la società non è tenuta a pagare il consumo ne´ il canone di depurazione. Paga invece alla Regione un canone concessorio, di 117 mila euro per l´ultimo biennio.

In una prima fase lo scarico avviene nel vicino torrente S.Bernardino, di fronte agli uffici del Comune di Verbania, poi l'amministrazione comunale concede l'uso del collettore terminale del proprio impianto di depurazione civile il quale recapita sul fondo del Lago Maggiore a 80 m di profondità. Tuttavia, a causa di frequenti ostruzioni del collettore, lo scarico Acetati viene bypassato di nuovo nel torrente, con una certa frequenza.

L'autorizzazione allo scarico risulta decaduta nel 2000 e da allora, nonostante la domanda presentata per tempo, non è stata rinnovata, stante le perplessità della attuale amministrazione provinciale. Le perplessità rese pubbliche riguardano il mancato rispetto delle prescrizioni di legge. A seguito di questa presa di posizione il Comune prendeva l'iniziativa di un tavolo di lavoro all'interno del quale pervenire alla soluzione del problema, in accordo con la provincia e con la proprietà, in modo di dotare l'impiato di un ulteriore trattamento chimico-fisico. Spesa prevista 1 milione di Euro, entrata in funzione per il 2004, sono le condizioni dell'accordo firmato il 14 ottobre.

La situazione tuttavia precipita in quanto l'attività d'indagine condotta dal sost.proc. dr.Argenteri porta ad una richiesta di sequestro dello scarico, accolta e eseguita in data 30 ottobre: "Abbiamo effettuato indagini a 360 gradi e accertato l´esistenza di sostanze inquinanti in quantità rilevanti e di qualità preoccupanti tali da motivare la decisione del gip del tribunale di accogliere la nostra richiesta di disporre il sequestro preventivo degli scarichi in uscita dalle aziende al fine di evitare ulteriori rischi derivanti dallo scarico di dette sostanze". Con il sequestro si blocca l'attività e vengono messi in libertà 500 tra dipendenti e indotto. Ad una prima richiesta di dissequestro avanzata dal gruppo industriale il GIP risponde negativamente. Anche una seconda istanza presentata dal legale dell´azienda, supportata dalla presentazione di una soluzione sperimentale per l'abbattimento della formaldeide, ottiene un secondo no. Questa volta "condizionato". Il gip, evidenziando che le ragioni che hanno imposto il sequestro non si sono modificate, ha deciso che "in ogni caso, avuto anche riguardo alla revoca dell´autorizzazione allo scarico, spetta all´Autorià amministrativa verificare l´adeguatezza del nuovo impianto, ed autorizzare la sperimentazione in sede di ripresa della produzione, mentre sarà onere dell´azienda chiedere a questa Autorità giudiziaria l´autorizzazione ad utilizzare lo scarico a questi fini, sempre, tuttavia, in regime di sequestro sino a quando non si raggiungeranno risultati apprezzabili e definitivi in termini di accettabilità dei reflui". E' una palude procedurale dalla quale, con molta difficoltà, il GIP prova a districarsi.

Il progetto è già stato approvato dalla provincia, sulla base di un parere favorevole dell'Arpa, ma la provincia attende il nullaosta del magistrato.

Finalmente il 29 novembre il Consiglio dei Ministri vara la dichiarazione di emergenza dello stato socio-ambientale delle Aziende Acetati-Italpet. Si vedrà se l'ordinanza emessa sarà in grado di riaprire l'attività della Acetati-Italpet senza condizioni immediate, ma diluite nel tempo secondo l'accordo di programma già firmato con le istituzioni locali.

C'è un precedente: nel caso analogo della cartiera di Burgo in Carnia è avvenuto infatti che il Procuratore Capo competente abbia presentato immediata istanza di dissequestro al GIP che l'ha accolta con le seguenti motivazioni: "In materia di rifiuti è l´interesse a superare situazioni sanitarie di urgenza a prevalere sull´interesse alla tutela delle ragioni ambientali, mentre nel caso "de quo" è l´interesse alla tutela del lavoro e della produzione a prevalere sul medesimo interesse alla tutela ambientale". Lo stesso giudice non può fare a meno di riconoscere che una tale interpretazione "a prima vista potrebbe apparire di per sé sorprendente", ma poi taglia corto richiamandosi alle "gravi ripercussioni che il blocco andrebbe a determinare per l´intera economia di un territorio che si fonda unicamente e prevalentemente su tale produzione". Il diritto alla salute soccombe, ora sappiamo, se è in gioco il lavoro.

Lo scarico della cartiera è naturalmente ripreso in modo legittimo, anche se i limiti fissati dal D.L.vo 152/99 non sono rispettati. L'intervento del Consiglio dei Ministri ha in sostanza equiparato l'operato della Magistratura ad un evento calamitoso al quale di può porre rimedio con una deroga alle disposizioni vigenti.

Quanto detto per mostrare le complessità e le difficoltà che si possono incontrare nel voler interrompere gli effetti di un reato tipico come uno scarico industriale non a norma e del "livello di attenzione" che l'utilizzo di questa facoltà solleva a livello locale e nazionale, soprattutto quando sono in gioco gli interessi di un grande gruppo e di molte famiglie. Di fronte al ricatto occupazionale solo l'intervento di un magistrato, grazie alla sua autonomia, può sortire quegli obiettivi di qualità ambientale che da decenni dovevano essere raggiunti. Certo come non riflettere sulla rigidità del meccanismo e le sue conseguenze, ma a chi dobbiamo il fatto che le cose siano progredite fino a questo punto?

 

 

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