interventi
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10
luglio 2002
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Non c'è dubbio che la materia normativa riguardante i rifiuti sia tra le più "stressate" tra le diverse discipline settoriali che, via via, nel corso dell'ultimo ventennio hanno visto la luce nel nostro paese. Le modifiche alle disposizioni emanate dal Decreto Legislativo n.22/97 ad oggi, continuano ad imperversare strattonando da una parte e dell'altra concetti, definizioni, obiettivi, metodologie, ecc.ecc. senza trovare approdo in qualcosa di definitivo.
Nella successione di emendamenti, integrazioni, direttive sulla cui applicabilità ci si deve per forza soffermare uno degli aspetti che fa patire maggiori sofferenze al lettore, chi è tenuto poi a tradurne la portata nella realtà delle cose, è quello di "pericolosità" dei rifiuti e, inevitabilmente, del "concetto di limite" al quale la definizione stessa è legata.
Le contraddizioni che si possono rilevare in questo affastellamento di norme attorno alla definizione di pericolosità sono tante e non sempre spiegabili, tuttavia è possibile già subito anticipare il motivo per cui si presentano: manca una regia, un supervisore ai quali affidare la rilettura dei testi prima che questi si trasformino in nuove leggi. Il sistema di normazione, in questo caso non solo relativo ai rifiuti, viene in pratica a costituirsi come una sovrapposizione di strati senza la necessaria continuità tra il precedente e il successivo.
Scrivendo degli stessi termini, discutendo delle stesse nozioni si dovrebbe concludere che il cammino della legge è sempre il medesimo, pur nell'inevitabile costruzione di nuovi svincoli ed incroci. Invece non è così, spesso le novità percorrono strade diverse, parallele forse con le principali, senza però che mai si incontrino.
C'è un'espressione che si usa con frequenza per indicare questa sorta di incomunicabilità: "le norme non si parlano", cioè a dire, pur trattando del medesimo campo di applicazione, i parametri di giudizio sono diversi senza che nessuno ne capisca (o ne spieghi) la ragione.
Del concetto di "pericolosità dei rifiuti" se ne è iniziato a discutere con la direttiva 78/319/CEE. Con il recepimento della direttiva attraverso il decreto presidenziale n.915 del 1982 e successive delibere interministeriali la definizione di rifiuto tossico e nocivo, estratta dalla direttiva, si è concretizzata in riferimento alla composizione o alla contaminazione del rifiuto stesso, attuandosi attraverso un collegamento all'esistente legislazione in materia di etichettatura, classificazione e imballaggio delle sostanze pericolose in esso contenute.
Prendendo le mosse da liste di sostanze a quel tempo già indagate per quello che riguardava i rischi di tossicità acuta o cronica sulla salute dei manipolatori, e quindi regolamentate per quanto richiedeva la direttiva 67/548/CEE, la delibera interministeriale del 27 luglio 1984 (di seguito delibera) stabiliva di suddividere la classificazione dei rifiuti pericolosi in tre classi: molto tossici, tossici, nocivi, secondo la concentrazione di una o più sostanze etichettate come tali che si potevano ritrovare al loro interno in concentrazioni superiori ad una soglia limite.
Categoria | Concentrazione limite nel rifiuto CL (mg/kg) |
Molto tossici | 500 |
Tossici | 5000 |
Nocivi | 50000 |
Nel decreto v'era poi un altro criterio, quello della provenienza, per cui un rifiuto prodotto a seguito di un particolare ciclo lavorativo era tossico-nocivo d'amblais senza la necessità di ulteriori dimostrazioni, salvo che il produttore non provasse il contrario tramite un adeguata indagine analitica.
Tuttavia si trattava in verità di un elenco piuttosto ridotto per cui, per molto tempo, la strada più seguita per distinguere i rifiuti pericolosi da quelli non pericolosi o meglio, tra rifiuti tossico-nocivi e rifiuti speciali, è stata quella della determinazione della CL.
Per chiarire meglio la portata di questo criterio è utili ricordare che la concentrazione viene determinata a partire da una disgregazione spinta del rifiuto ottenuta in vari modi, permettendo di liberare la totalità degli elementi che si intendono ricercare dallo stato eventualmente legato nel quale gli stessi potevano ritrovarsi all'interno del rifiuto analizzato. L'elemento viene cioè reso "forzatamente" disponibile.
Già allora gli interrogativi sui perché fosse stata stabilita una soglia invece che una altra erano numerosi. I criteri individuati non erano altro che il risultato da una indagine di livello internazionale sulle scelte operate da altri stati prima del nostro. Notevoli erano le diversità nella valutazione di questa pericolosità per i punti di riferimento che potevano essere anche del tutto estranei, come per es. il considerare gli eventuali danni prodotti dai rifiuti sulla salute umana o quelli prodotti sull'ambiente.
Peraltro ancor oggi la classificazione delle sostanze pericolose si basa prioritariamente su criteri che hanno come obiettivo quello della tutela sanitaria, mentre il numero e la qualità dei test ecotossicologici segnano ancora il passo (non a caso la classificazione come "pericoloso per l'ambiente" riguarda un basso numero di sostanze).
In ogni caso si optò per il test della concentrazione, seguendo l'esempio olandese, anche se, nondimeno, venne comunque adottata la metodologia EPA la quale preferiva indagare sulla cessione piuttosto che sulla concentrazione. Ricercare questo parametro significa dover immergere il rifiuto in una soluzione standard andando poi a determinare quanto delle sostanze in esso contenute viene ceduto alla soluzione stessa (leaching test).
Quello che si chiamerà quindi con il nome di test di cessione verrà però previsto nella delibera del 1984 per la classificazione dei rifiuti ma ai soli fini della loro conferimento in discarica. In pratica, volendo prevedere sistemi di confinamento definitivo adeguati alla pericolosità dei rifiuti e quindi secondo un'ipotesi di gradualità, la suddivisione delle discariche in categorie sulla base di requisiti via via più stringenti venne stabilita a partire da soglie differenziate di concentrazione delle sostanze contenute nei rifiuti ma anche dall'entità della cessione di particolari elementi, i metalli pesanti elencati nell'allegato 1 alla delibera.
E in questo caso, per scegliere la soglia al fine di poter distinguere rifiuti a minor rischio da rifiuti a maggiore pericolosità, si presero a riferimento i limiti in concentrazione per gli scarichi in acque superficiali indicati dall'allora Legge 319/76, c.d. Merli dal nome del relatore (così come peraltro era previsto dal Drink Water Primary Standard).
Il rifiuto era così conferibile in una categoria di discarica piuttosto che un'altra quando con la sua lisciviazione era in grado di generare uno "scarico" i cui parametri inquinanti rientrano nei limiti che sono dati come accettabili per il corpo idrico recettore. Era un passaggio importante questo perché affermava che il criterio della CL in un determinato rifiuto non poteva essere l'unico, ma andava comparato con quello che era la risultante di una simulazione, condotta sul rifiuto stesso, di quello che poteva essere l'effetto di dilavamento in discarica prodotto dalle acque meteoriche e dai percolati stessi della discarica.
Cioè non tutto il contenuto inquinante può essere considerato un elemento di giudizio per la pericolosità ambientale, ma sola lo parte che, in ipotesi, può essere ceduta. Se vogliamo tradurre questo concetto potremmo indicarlo come "biodisponibilità" dell'elemento che si trova nel rifiuto. I test preordinati a questo scopo sono rimasti sostanzialmente due, quello nel quale la soluzione è acida per acido acetico che ha la funzione di valutare il comportamento di un rifiuto all'azione lisciviante dell'acqua di pioggia e di percolati da discariche miste, con tipologie di rifiuti a matrice organica o inorganica.
L'altro preparato a partire da acqua satura di CO2 utilizzabile per simulare il comportamento di rifiuti da smaltirsi in discariche destinate a ricevere unicamente rifiuti a matrice inorganica, cioè, in sostanza, per le discariche di categoria 2A. Una successiva precisazione individuava specificatamente le tipologie di rifiuto da sottoporre al test in CO2: rifiuti provenienti da altoforno, acciaierie, fonderie di metalli ferrosi, lavorazioni marmi e graniti e loro conglomerati.
Questa precisazione è importante anche per un altro motivo, rimandando ad una descrizione, per quanto sommaria, di tipologie che riconducono alla famiglia dei cosiddetti rifiuti inerti. Pur non essendo a tutt'oggi definito cosa si intende per rifiuto inerte il test dell'acqua satura di CO2 è stato utilizzato spesso con una valenza generale, non solo ai fini del conferimento in discariche 2A, ma anche per poter pervenire ad una qualificazione degli scarti da utilizzarsi in sostituzione degli inerti tradizionali, per fini di recupero "in campo aperto", per così dire.
Rimaneva un altro rinvio all'individuazione di una generica pericolosità di quei rifiuti speciali, cioè provenienti da lavorazioni industriali e artigianali, che potevano tuttavia essere assimilati a rifiuti urbani, grazie alla loro composizione merceologica, ai fini sempre della loro destinazione finale in discarica. In questo caso tuttavia la delibera non va oltre ad affermazioni generiche senza fornire alcun criterio per esprimere un giudizio. Ancor oggi della lista di cui al punto 1.1.1 lettera a) della delibera si può dire che sono assimilabili agli urbani salvo "non diano luogo ad emissioni, effluenti o comunque ad effetti che comportino maggior pericolo per la salute dell'uomo e/o dell'ambiente rispetto a quelli derivanti dallo smaltimento di rifiuti urbani".
Ma qual è la pericolosità dei rifiuti urbani? Ergo per cui mancando qualsiasi indizio rispetto al generico "maggior pericolo", si finisce per rendere vera ogni supposizione come per il suo contrario, con buona pace della certezza del diritto.
A chiusura del capitolo riguardante la descrizione dei criteri per la classificazione dei rifiuti la delibera stabiliva peraltro un principio indispensabile per dare garanzia di riproducibilità alle risultanze analitiche desunte dall'applicazione dei metodi: "le concentrazioni effettive debbono essere determinate sul rifiuto tal quale come si forma ed è vietata qualsiasi forma di diluizione, anche se ottenuta per miscelazione con altri rifiuti".
Questo principio è rimasto tale fino a poco tempo fa, quando, inopinatamente, per un intervento legislativo, se ne è sostanzialmente ignorata l'esistenza.
Con il recepimento della nuova direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi vengono demolite le fondamenta sulle quali si era finora retto il nostro sistema di regolazione della materia.
Si passa dalla individuazione della pericolosità basata su metodi oggettivi, ad una elencazione di rifiuti che la UE ritiene pericolosi in quanto provenienti da determinati cicli di produzione o consumo, senza però lasciare ad alcuno la facoltà di dimostrare il contrario. Ciò comporta diverse conseguenze sul piano dei controlli. Il passaggio alla nuova normativa segna infatti una generale declassificazione di tipologie di rifiuti che fino ad allora risultavano essere tossici e nocivi per i criteri utilizzati dal nostro paese.
Laddove invece la classificazione di rifiuto pericoloso veniva mantenuta, grazie alla libertà offerta da un sistema che basa le sue regole solo sulle definizioni, numerosi risultavano essere i codici alternativi e spt non pericolosi ai quali ricorrere con la trasposizione dal vecchio CIR al nuovo elenco CER.
Le garanzie vengono meno, in particolare si vanno a liberare tutte quelle fideiussioni che erano state prestate per tutelare la collettività in caso di danni prodotti dalle imprese che gestivano rifiuti tossici e nocivi.
Cambia quindi il criterio di pericolosità senza però sia reso esplicito il "concetto di limite" al quale la definizione è necessariamente legata. Lo si può intuire tuttavia con la lettura dell'allegato D alla legge (o allegato III alla direttiva) al quale la stessa fa rimando, allegato che non è altro che la ripetizione delle categorie di pericolo utilizzate nell'ambito della classificazione, etichettatura ed imballaggio delle sostanze pericolose.
Manca un passaggio: come stabilire la pericolosità del rifiuto che quella sostanza contiene solo in tracce. Per una sorta di supponenza istituzionale la UE non spiega altrimenti, volendo avocare a sé tutta la materia delle classificazioni, giustificandosi con il principio dell'uniformità dei codici in ambito comunitario. Ogni volontà di modifica dell'elenco con nuove aggiunte o sostituzioni deve essere passato al vaglio della Commissione alla quale è rimessa la decisione di aggiornare il CER periodicamente.
Quali siano i motivi che abbiano spinto la Commissione a rivedere le proprie rigidità nell'enunciazione dei codici non è dato sapere. Quello che sappiamo oggi è che dal 1 gennaio dell'anno in corso è stata introdotta la facoltà di pervenire ad una diversa classificazione dei rifiuti laddove siano presenti le cosiddette "voci specchio", codici speculari per definizione, tra i quali è possibile scegliere il non pericoloso se si è nelle condizioni di dimostrarne la veridicità.
Se a questo punto mettiamo a confronto i vecchi criteri italiani con i nuovi criteri europei saremo in grado di affermare che negli altri stati membri il concetto di "pericolo che viene dai rifiuti" è molto meno cautelativo rispetto a quanto eravamo abituati a pensare.
Per toccare con mano le differenze mettiamo ora a confronto le CL italiane con le CL europee:
Categoria | Italia CL (mg/kg) | UE CL (mg/kg) |
Molto tossici | 500 | 1.000 |
Tossici | 5.000 | 30.000 |
Nocivi | 50.000 | 250.000 |
I limiti europei sono più alti dalle due alle sei volte. Come si può ben vedere il concetto di pericolo è quanto mai opinabile.
Peraltro, senza bisogno del ripensamento UE, alcune evidenti contraddizioni sul significato di pericolo erano purtroppo già sorte nel nostro ordinamento interno. Questo è accaduto all'indomani dell'entrata in vigore del decreto ministeriale n.471 del dicembre 1999 inerente la bonifica di siti inquinati. Il DM in parola ha segnato un importante ricucitura sul fronte della disciplina dei rifiuti, in quanto, per la prima volta dopo tanti anni, si è finalmente arrivati a stabilire metodi e procedure per le bonifiche delle aree contaminate.
Al di là dei numerosi meriti il DM ha generato anche qualche equivoco. Il più evidente deriva dall'aver individuato i valori di concentrazione limite accettabili nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti e i criteri di accettabilità per le acque superficiali.
Qual è il problema? Il problema sta nell'aver definito una soglia al di sopra della quale suolo, sottosuolo e acque sotterranee risultano essere "fuorilegge". I valori relativi al suolo per le aree verdi e residenziali sono stati scelti molto bassi. Questo non è di per sé un errore, se tali valori vengono perseguiti alla stregua di un traguardo a partire da una situazione molto compromessa. In effetti, almeno a livello teorico, bonificare significa riportare il terreno alle condizioni ex-ante.
Un'ovvia considerazione è che, se tecnicamente possibile, vale la pena di raggiungere l'obiettivo massimo, In caso contrario ci si ferma prima, adottando la cosiddetta bonifica mediante misure di sicurezza. E' invece facilmente causa di inutili disguidi quando si pretende di valutare la salubrità di un terreno "usato", come può essere quello di un'area agricola. Allora nel confronto dei numeri si discute di scostamenti talmente risibili che non hanno alcun significato ambientale, ma che, letti sotto la lente del diritto, sono indiscutibilmente superiori ai valori accettabili.
Così inteso il DM 471/99 parrebbe dover disegnare una realtà del tutto arcadica, il ritorno ad un ambiente ancora incontaminato. E tuttavia non c'è ragionamento che tenga quando questi numeri si ritrovano nelle terre di riporto utilizzate per la composizione di orti e giardini. Qui è lo scandalo che più spesso si sostituisce alla riflessione critica.
Ancor peggio se consideriamo i valori limite delle acque sotterranee. Si tratta per lo più dei valori che servono a determinare la potabilità di un'acqua destinata al consumo umano. Pretendere che la qualità ambientale delle nostre falde freatiche sia tale da permetterne il più ampio sfruttamento ai fini idropotabili è pura velleità, è disconoscimento della nostra situazione di paese altamente antropizzato e industrializzato.
Tuttavia la definizione di "sito inquinato" non lascia dubbi.
Sito Inquinato: sito che presenta livelli di contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo o delle acque superficiali o delle acque sotterranee tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l'ambiente naturale o costruito. Ai fini del presente decreto è inquinato il sito nel quale anche uno solo dei valori di concentrazione delle sostanze inquinanti nel suolo o nel sottosuolo o nelle acque sotterranee o nelle acque superficiali risulta superiore ai valori di concentrazione limite accettabili stabiliti dal presente regolamento.
Forse, proprio rendendosi conto delle possibili estremizzazioni, c'è nell'articolato una via di scampo, la definizione di inquinamento diffuso: "contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo o delle acque superficiali o delle acque sotterranee imputabili alla collettività indifferenziata e determinate da fonti diffuse".
Resta la difficoltà di far comprendere ai più come una situazione di inquinamento diffuso non costituisca un pericolo per la salute o per l'ambiente naturale o costruito.
Altri equivoci possono nascere dalla modifica del punto di osservazione. C'è una differenza sostanziale rispetto al modo di procedere pre-decreto, che è bene sottolineare più volte. Il campo di applicazione del nuovo DM riguarda le MATRICI AMBIENTALI, cioè a dire suolo, sottosuolo, acque sotterranee e superficiali, NON i rifiuti.
Perché si generano equivoci? Perché si tende a confondere la matrice ambientale con la matrice rifiuto.
Inevitabilmente questo accade quando, per es. nel caso di una discarica abusiva, non è possibile distinguere il suolo dal rifiuto, perché si tratta di un inviluppo tale da non permettere di effettuare campioni rappresentativi dell'uno o dell'altro. E tuttavia se fossimo nella condizione di ben separare gli uni dagli altri, come per es quando la contaminazione deriva dal lento trafilamento di rifiuti allo stato liquido da fusti avariati, i campioni di suolo contaminato li porremmo a confronto con i valori accettabili della tabella allegata al DM 471/99 e i campioni di rifiuto all'interno dei fusti con le concentrazioni-limite stabilite dalla Decisione CEE/2000/532 per determinarne la classificazione.
Le incongruenze non si manifestano così platealmente, sarebbe semplice. Le troviamo in occasioni più marginali, le meno attese, come quando si tratta di conoscere la natura di un riporto dall'aspetto incerto. In questo caso con che abbiamo a che fare? Il materiale di riporto lo assimiliamo alla matrice suolo o alla matrice rifiuto? Dove finisce il riporto e dove inizia il terreno vergine? Stiamo parlando ancora di una situazione-limite, ma per niente infrequente. Alle analisi troveremmo con molto probabilità qualche superamento, basterebbe un solo parametro, quel tanto che serve per la diagnosi di sito inquinato.
E ancora si tratterebbe di numeri di scarsa consistenza, ambientalmente non significativi, ma bastanti per mobilitare le procedure dell'art.17 del Dlvo 22/97. Inapplicabile la definizione di inquinamento diffuso.
Se tuttavia il materiale di riporto ha una provenienza certificata, come per es da impianti di recupero dei rifiuti inerti, allora sappiamo che la sua "pericolosità" intrinseca non si determina a partire dal valore in concentrazione, ma dai livelli di cessione. Si applica in particolare l'allegato III del DM 5 febbraio 1998. Il riutilizzo per recuperi ambientali, rilevati e sottofondi stradali è ammesso quando il prodotto finito risponde con una bassa cessione alla prova dei 16 giorni.
Ecco un esempio di norme che non si parlano, di un'ennesima variante in materia di "pericolo" che non combacia con le precedenti. Lo stesso materiale, a seconda del campo di applicazione, può essere valutato lecito o illecito. Sta nell'esaminatore il compito di fare gli opportuni distinguo, il che sempre non avviene.
Per concludere questa dissertazione quando si discute di pericolo per la salute e per l'ambiente non sono accettabili la superficialità e la sufficienza, chi scrive deve sapere di cosa sta parlando, deve avere una visuale maggiore, che possa mettere a confronto il nuovo con il precedente, per non incorrere in palesi contraddizioni. Per il solo fatto di trattare lo stesso argomento, anche se sotto diverse angolazioni, non può il legislatore esimersi dal ricontrollare la "questione dei numeri", dal ricorrere al giudizio dei tecnici. Anche quando tutto sembra filare per il verso giusto, l'equivoco è dietro l'angolo. Molti allarmi inutili sono spesso costruiti su questioni inesistenti grazie all'alibi di dettati incerti o malinterpretabili.