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4 giugno 2002

 

Occorrerebbe che fosse qualche organo istituzionale a relazionare sull'efficacia dei disposti normativi a qualche anno dall'emanazione, maggiore si riterrebbe in questo caso il raggio di osservazione utilizzato e più precisa l'analisi. Poiché purtroppo questo non avviene dovrete accontentarvi delle deduzioni personali dello scrivente.

Preliminarmente si deve esprimere il proprio punto di vista sull'applicazione del meccanismo del silenzio-assenso in materia ambientale. E' negativo. Le conseguenze di una "non espressione" da parte della P.A. sull'istanza presentata dal privato sono numerose e non sempre prevedibili. Il diritto di iniziare, acquisito grazie alla decadenza dei termini, evidenzia i peggior difetti della amministrazioni, la principale delle quali sta nel non volersi assumere responsabilità, non avendo esercitato in via preventiva quel dovere di vigilanza che garantisce sia assicurata la tutela dell'ambiente nei confronti dell'opera, impianto, installazione, ecc da realizzare. Non si sostiene che, in tutti i casi, vi saranno danni. Sicuramente, se e quando queste conseguenze si verificheranno, non solo la perdita di ambiente non sarà più recuperabile, ma non si renderanno disponibili tutti gli strumenti di cui si dispone invece in fase preliminare. Stiamo parlando della facoltà di richiedere modifiche al progetto in modo da conformare l'opera, l'impianto al rispetto delle regole ambientali. L'esperienza di tutti i giorni insegna che, quando l'opera è finita si rendono impraticabili molte soluzioni strutturali che potevano meglio garantire la tutela delle risorse finite, ma anche nella condizione di poterle realizzare, a causa in primis dei costi elevati e per tutta una serie di altre infinite motivazioni, facilmente si incorrerà in reazioni contrarie da parte dell'imprenditore.

Ciò detto bisogna sottolineare come il decreto in parola faccia un uso "controllato" del s.a., introducendo per la prima volta nella materia ambientale la forma della "comunicazione" invece della domanda, una novità tra le tante denominazioni di istanza del privato dirette ad ottenere un atto autorizzativo o suo equivalente. La comunicazione si caratterizza come alternativa alla domanda in quanto contiene in sé già gli elementi del consenso, salvo il fatto che questi operano solo se sono soddisfatte tutte le condizioni. La volontà di non aderire completamente ai presupposti del meccanismo prima descritto sta nell'aver definito in modo inequivocabile quali siano queste condizioni, tanto da averle riportate sottoforma di norma tecnica nel decreto citato. O meglio l'intenzione del legislatore era quella, si tratta di capire se effettivamente ci sia riuscito.

Rimane il fatto, incontrovertibile, che si ritiene possa raggiunto un medesimo livello di tutela dell'ambiente senza sottoporre il richiedente ad un vero e proprio esame di conformità rispetto ai requisiti di legge, ma abbozzando una sorta di riconoscimento (la trascrizione nel registro imprese) basato quasi esclusivamente sulla veridicità delle dichiarazioni fornite, salvo appunto il contrario.

Una prima evidente leggerezza è quella di fondare questo convincimento sulla asserzioni rese dal solo richiedente. Tutti coloro che lavorano nella P.A. sanno per esperienza cosa significa nei fatti chiedere a "persona non esperta nella materia" di compilare una modulistica prestampata rispondendo a liste di controllo di requisiti. La legge doveva invece prevedere vi fosse una obbligatoria compresenza, quella di un tecnico appunto esperto, conoscitore della materia, in grado di apprezzare i contenuti del modello e di comportarsi di conseguenza rimanendo responsabile di ciò che si dichiarato.

Di fatto, con le premesse citate, il nostro decreto sostiene che sia possibile garantire un elevato livello di tutela dell'ambiente e controlli efficaci anche quando le attività di recupero sono sottoposte a procedure semplificate. Questa relativa tranquillità deriva dall'aver fissato:
a) le quantità massime impiegabili;
b) la provenienza, i tipi e le caratteristiche dei rifiuti, nonché le condizioni specifiche di utilizzo degli stessi;
c) le prescrizioni necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti e metodi che potrebbero recare pregiudizio dell'ambiente.

Inoltre, tanto per non rimanere nel vago, si ribadisce che le attività, i procedimenti e i metodi di recupero di ogni tipologia di rifiuto, disciplinati dal presente decreto, "devono rispettare le norme vigenti in materia di tutela della salute dell'uomo e dell'ambiente, nonché di sicurezza sul lavoro, e in particolare le disposizioni vigenti sulle acque di scarico e quelle sulle emissioni in atmosfera."

Su questo aspetto non era lecito avere dubbi, tuttavia la formulazione degli articoli che descrivono la procedura aprono margini di incertezza notevoli. Infatti nulla dice il decreto oltre a stabilire che, rispettate le norme tecniche e le prescrizioni specifiche adottate ai sensi dei commi 1, 2 e 3 dell'articolo 31," l'esercizio delle operazioni di recupero dei rifiuti possono essere intraprese decorsi novanta giorni dalla comunicazione di inizio di attività alla Provincia territorialmente competente."

Sembrerebbe a prima vista un passaggio molto lineare, senza altri ostacoli, cosa che non può corrispondere al vero. Basti pensare alla necessità appunto di munirsi di altre autorizzazioni o pareri, comunque denominati, prima dell'inizio lavori, come nella materia edilizia, nella prevenzione incendi, nella sicurezza sul lavoro, nella difesa del suolo e delle risorse idriche ecc..

La vera e propria semplificazione, se si riflette, è quindi spesso solo appannaggio delle imprese che dispongono già di un impianto realizzato nel rispetto delle norme urbanistiche e di tutte le altre disposizioni che regolano la costruzione di impianti industriali. Si tratta infatti del recupero di materia, cioè del riciclo di scarti di altrui produzione che possono rientrare tal quali o dopo trattamento in un altro ciclo produttivo, analogo o comunque congruente con la composizione del rifiuto da riciclare. In questo ambito l'impresa già operante è nelle condizioni di dover realizzare solo limitate modifiche che possono riguardare appunto la necessità di installare un pretrattamento per rendere il rifiuto compatibile con le condizioni del processo oppure quella di adeguare i presidi di mitigazione e riduzione dell'eventuale incremento degli inquinanti emessi provocato dall'arrivo di materiale "sporco".

A ben vedere è questa l'applicazione più coerente del concetto di "riciclo": il rifiuto viene utilizzato come sostitutivo della materia prima. Ed è così che per la gran parte viene inteso negli allegati al DM, come se tutte le forme di recupero avessero la medesima conduzione, il che non è sempre così vero.

Ma tornando al tema della semplificazione prendiamo ora il caso dell'insediamento che deve essere realizzato ex-novo proprio con il fine di recuperare i rifiuti. In occasioni come questa si mette a dura prova la capacità del sistema di autoregolarsi, mancando le regole del procedimento. E' così che l'ente competente, la Provincia, non può che assumere come modello "il principio dello snellimento procedurale mediante autocertificazione", modificando i propri stampati nel senso di una lista di asserzioni fai da te quali per es.:

"Dichiaro che:
- l'impianto di recupero rifiuti di cui alla presente comunicazione, è realizzato nel rispetto delle norme urbanistiche, del D.P.R. 203/88, della Legge 319/76 e successive modifiche ed integrazioni e nel rispetto di tutte le altre disposizioni che regolano la costruzione di impianti industriali;

e preciso che:
- i rifiuti sono avviati al recupero nelle quantità annue riportate nella scheda tecnica informativa sulle tipologie di rifiuto recuperate (RDR 4) e nel rispetto delle condizioni indicate nell'art. 7 del D.M. 5/2/1998.

NB: la dichiarazione mendace è punita con la sanzione prevista dall'art. 483 del Codice penale. La mancata comunicazione e/o l'inosservanza dei requisiti tecnici richiesti dalla normativa e dichiarati nella comunicazione prevedono l'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 51 del D.Lvo n. 22/97."

E la lista può continuare con altre dichiarazioni, precisazioni, impegni, il tutto nella convinzione che basti quel riferimento al codice penale per dissuadere i più dall'affermare il falso e dal mettere in atto comportamenti illeciti. L'obiezione è scontata: il controllo della P.A. non può esaurirsi nella sola raccolta di atti pseudonotarili, le asserzioni devono essere prima verificate. Nulla di più vero, ma non essendo richiesto in modo espresso una concertazione con altri soggetti istituzionali, i comportamenti dell'ente qui possono assumere i connotati più diversi, ognuno con una propria efficacia.

Il minimo si raggiunge non espletando alcun tipo di controllo preventivo, il massimo si ottiene richiedendo tutti quei pareri e quelle autorizzazioni comunque denominate che l'art.33 del D.Lvo 22 vuole dimenticare, comprese le ispezioni sullo stato dei luoghi. Nel mezzo stanno tante situazioni faticosamente coordinate che sono poi oggetto del vituperio imprenditoriale e che tanti politici hanno imparato ad indicare con disprezzo sotto il nome di "burocrazia".

Purtroppo, se la Provincia abdica da una iniziativa di forte di coinvolgimento degli altri soggetti istituzionali, le cose non potranno sempre andare bene. Facciamo qualche esempio.

Nel caso discusso di dover realizzare un insediamento ex-novo la prima frizione si presenta al momento di dichiarare che l'impianto "è realizzato nel rispetto delle norme." Come sia possibile affermare questo quando lo stabilimento non ha ancora ottenuto il permesso di costruire resta un mistero, tuttavia c'è chi lo fa e senza tante remore.

Non è scontato che questo atteggiamento sia una diretta conseguenza di quelle false illusioni contenute nell'articolo 33 del decreto. Una lettura superficiale del suo contenuto può a volte portare a ritenere che la propria iniziativa imprenditoriale, in quanto inquadrabile in uno dei paragrafi all'allegato 1 del DM 5/2/98, possa liberamente svolgersi senza dover patire altre "sofferenze" che non siano quella di redigere la fatidica comunicazione. Oppure il ragionamento può essere quello di "mettersi avanti" in modo di poter esibire la comunicazione diciamo "scaduta" come viatico per la conclusione di contratti, l'acquisizione di commesse. Ognuno può riflettere su quali siano i pericoli insiti in questi comportamenti, giusti o ingiusti che siano.

Rimane il fatto che, a lavori iniziati, senza che si sia svolto alcun preventivo accertamento, non ci si può sorprendere se per es. l'impresa effettua movimenti terra senza autorizzazione, produce rumore e disturba il vicinato, ostacola il normale deflusso delle acque, sconfina in terreno demaniale ecc. tutte condizioni che esulano dal controllo di competenza del Servizio Controllo Rifiuti provinciale, ma che potevano essere evitate se solo lo stesso avesse coinvolto l'ex Genio Civile, la Comunità Montana od il Comune stesso nel corso dell'istruttoria. Non è un caso che, con il moltiplicarsi di questi inconvenienti (per non dire delle cause e dei ricorsi) molte amministrazioni provinciali si siano convinte a modificare procedure, a migliorare il processo.

Ma, a conti fatti, proprio per la "visibilità" delle costruzioni, delle opere e degli impianti, delle installazioni in genere, è difficile che si possa degenerare dagli effetti di un inconveniente a quelli derivanti da un serio pregiudizio per l'ambiente e la comunità, almeno laddove esiste un controllo sociale, dove gli amministratori eletti hanno un atteggiamento rigoroso nei confronti dell'abusivismo edilizio. E' proprio la comunità che solleva dubbi od obiezioni, che pone interrogativi o presenta esposti, a destare l'attenzione delle istituzioni, a sollecitarle ad intervenire per conoscere la liceità di certi manufatti, la legittimità di certi sbancamenti, sopralzi, fondazioni. Si aprono così le carte, si rinvengono quei "silenzi" che avrebbero permesso i lavori, si contestano le prime carenze amministrative, si chiedono chiarimenti e pareri legali, si emanano ordinanze e, nella maggiorparte dei casi, in un modo o nell'altro, le cose si risolvono senza sconfitti né vincitori.

Purtroppo può accadere di peggio. E' questo il caso di insediamenti senza costruzioni, senza opere, quando cioè l'impresa può iniziare l'attività potendo disporre di un contenitore già finito e non ancora destinato. Ce ne sono molti a disposizione, sia per l'acquisto che per il solo affitto. Per tutto quanto riguarda l'aspetto edilizio si può considerare che siano a norma, dovendo escludere l'applicazione della maggiorparte delle disposizioni in materia ambientale le quali presuppongono che vi sia sempre l'esercizio di produzione beni e servizi. Il capannone vuoto non chiede altri requisiti.

Allora facciamo l'ipotesi che serva trovare la sede per una "messa in riserva" di rifiuti non pericolosi, fanghi di tutto un po', ma in particolare fanghi di trattamento acque reflue industriali [190804] di provenienza industria chimica, automotoristica, petrolifera, metalmeccanica, metallurgica e siderurgica, petrolchimica e con le seguenti caratteristiche: fanghi di natura prevalentemente inorganica con contenuto in acqua < 70%, frazione organica < 30%, Cr totale < 1000 ppm, Cr VI < 1 ppm, Pb < 1500 ppm e As, Cd, Hg < 1 ppm in totale, solventi aromatici e clorurati < 200 ppm. Pur nella considerazione che si tratti di rifiuti non pericolosi secondo la UE, stiamo parlando di caratteristiche comunque inquinanti che una gestione non accorta, scarsamente professionale, possono far diventare "pericolosi" in senso concreto.

Mettiamo che il fabbricato serva da semplice stoccaggio intermedio dei rifiuti prima che questi vengano inviati a cementifici, produzione di manufatti per l'edilizia, produzione di ghisa e acciaio. Può ragionevolmente ritenersi insediabile una iniziativa del genere in una zona abitata senza che vi sia una preventiva valutazione della conformità urbanistica da parte del Comune? Si deve accettare come insindacabile l'asserzione che l'impianto è realizzato nel rispetto di tutte le altre disposizioni che regolano la costruzione di impianti industriali, quando le uniche norme ad essere chiamate in causa sono quelle edilizie relative alla costruzione di un contenitore vuoto?.

Di questi esempi spesso leggiamo le conseguenze sui quotidiani: il deposito di gomme usate per un nuovo fantomatico e mai iniziato processo di recupero, la messa in riserva di materiali plastici andato improvvisamente a fuoco dopo le contestazioni dell'ente, il capannone stipato all'inverosimile di rifiuti urbani per la produzione di compost solo di nome, lo scarico abusivo dei reflui di trattamento di rifiuti costituiti da pellicole e carte per fotografia contenenti argento, l'utilizzo di scorie provenienti dalla fusione in forni elettrici come sottofondi stradali …non asfaltati, la dichiarazione di fallimento per errori di valutazione della richiesta di mercato ecc. Qui a pagarne le spese incommensurabili è l'ambiente, le altre, quelle misurabili in cifre di sei zeri (con moneta l'euro), è la comunità.

Una seconda grave leggerezza è stata quella di non aver previsto la prestazione della fideiussione per le attività che agiscono in regime di recupero. Tante probabilmente sono le messe in riserva che si sono trasformate in depositi incontrollati e la cui bonifica tarderà anni prima di completarsi, una volta reperiti fondi statali, con rischi inevitabili legati all'abbandono del sito, alla corrosione dei contenitori, all'invecchiamento delle sostanze. Invece il mercato va selezionato, occorre che vi sia una valutazione preventiva anche delle risorse e delle attrezzature, del "fare impresa", in modo da non dare spazio agli improvvisatori, a chi si inventa il mestiere di "riciclatore" senza neanche conoscere il target della clientela che andrà a servire. Tuttavia, in nome di quella "non pericolosità" dei rifiuti, non sostenibile in termini assoluti, tento conto del sempre possibile abbandono, si è ritenuto di alleviare il carico iniziale, aprendo le porte a tutti.

Infine una prescrizione che torna spesso nella declamatorie dei diversi paragrafi: "… i prodotti le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dal riciclaggio e dal recupero dei rifiuti individuati dal presente decreto non devono presentare caratteristiche di pericolo superiori a quelle dei prodotti e delle materie ottenuti dalla lavorazione di materie prime vergini."

Ma chi conosce le caratteristiche di pericolo dei prodotti e delle materie prime? A quali pericoli ci riferiamo? Quale campo di applicazione stiamo valutando? In realtà queste sono belle affermazioni di principio destinate a rimanere tali. Non a caso vengono tradotte nella norma tecnica con indicazione altrettanto generiche come "le materie prime ottenute devono avere caratteristiche merceologiche conformi alla normativa tecnica di settore o, comunque, nelle forme usualmente commercializzate" rimandando lo sperduto agente accertatore a rovistare tra cumuli di norme UNI, ISO ecc. le quali, oltre a non stabilire alcunchè relativamente a limiti in concentrazione o valori di cessione di sostanze pericolose, devono essere prima acquistate! Si è mai sentito che, per svolgere un controllo istituzionale, si debbano comprare le norme a 25 euro l'una?

Queste, in sintesi, sono le contraddizioni più eclatanti del DM 5/2/98. C'era una volta un testo di restyling che si proponeva di rivedere alcune di queste storture, per es. stabilendo la convocazione di una conferenza dei servizi per l'acquisizione di pareri ed autorizzazioni che le disposizioni vigenti ancora richiedono sotto forma espressa, ma la bozza è rimasta nel libro dei sogni come tante delle buone intenzioni anticipate nel Decreto Ronchi. Intanto ad errori sommiamo errori.

 

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IL DM 5 FEBBRAIO 1998 SUL RECUPERO DI RIFIUTI: QUALCHE CONSIDERAZIONE A QUATTRO ANNI DALL'ENTRATA IN VIGORE.