leggi e sentenze
20 gennaio 2007

All’argomento in oggetto ci si è già dedicato più di una discussione, si rileggano a questo proposito gli articoli "Gli scarichi da impresa agricola assimilati ad acque domestiche: un inutile pasticcio" - "I liquami zootecnici non sono rifiuti". Di acqua (!) sotto i ponti ne è passata parecchia, le norme continuano a subire ritocchi più o meno gravidi di conseguenze, così anche per la parte che regolamenta il riutilizzo agricolo degli effluenti di allevamento, da ultimo rivista con l’emanazione del testo unico ambientale alias D.lg 3 aprile 2006 n° 152 "Norme in materia ambientale".

In data 9 ottobre 2006 con n. 33896, è uscita una sentenza innovativa, nel senso che le motivazioni della stessa non si muovono nel solco tradizionale della Corte di Cassazione in materia di effluenti di allevamento. Questa richiede, per la sua piena comprensione, di riprendere brevemente il filo del discorso a partire dai cambiamenti dell’ultima ora.

Dal prospetto di seguito riportato si possono osservare le modifiche apportate all’articolato dettato sulla materia dell’assimilibilità dal "vecchio" D.Lg 152/99 che, a sua volta, non rivedeva più di tanto, sotto la vigenza della L. 319/1976, l'art. l quater uc L. 690/1976 riguardo alla qualifica dell'impresa agricola come insediamento civile.

D.Lg 152 11 maggio 1999 n°152

Art. 28-Criteri generali della disciplina degli scarichi.

7. Salvo quanto previsto dall'articolo 38, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue:

a) provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del fondo o alla silvicoltura;

b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di allevamento e di coltivazione del fondo per ogni 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti di allevamento prodotti per un anno da computare secondo le modalità di calcolo stabilite alla tabella 6 dell'allegato 5. Per gli allevamenti esistenti il nuovo criterio di assimilabilità si applica a partire dal 13 giugno 2002;

c) provenienti da imprese dedite alle attività di cui ai punti a) e b) che esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con carattere di normalità e complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente per almeno due terzi esclusivamente dall'attività di coltivazione dei fondi di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità;

d) provenienti da impianti di acquacoltura e di piscicoltura che diano luogo a scarico e si caratterizzino per una densità di allevamento pari o inferiore a 1 Kg per metro quadrato di specchio d'acqua o in cui venga utilizzata una portata d'acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto secondo;

e) aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale.

D.Lg 3 aprile 2006 n° 152

Art. 101-Criteri generali della disciplina degli scarichi.


7. Salvo quanto previsto dall'articolo 112, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue:

a) provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del terreno e/o alla silvicoltura;

b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame che, per quanto riguarda gli effluenti di allevamento, praticano l'utilizzazione agronomica in conformità alla disciplina regionale stabilita sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali di cui all'articolo 112, comma 2, e che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo per ognuna delle quantità indicate nella Tabella 6 dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto; …………
c) provenienti da imprese dedite alle attività di cui alle lettere a) e b) che esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con carattere di normalità e complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente in misura prevalente dall'attività di coltivazione dei terreni di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità;

d) provenienti da impianti di acquacoltura e di piscicoltura che diano luogo a scarico e che si caratterizzino per una densità di allevamento pari o inferiore a 1 Kg per metro quadrato di specchio d'acqua o in cui venga utilizzata una portata d'acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto secondo;

e) aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale;

f) provenienti da attività termali, fatte salve le discipline regionali di settore.

Le modifiche del nuovo articolato rappresentano un salto concettuale notevole rispetto alle precedenti disquisizioni in materia di assimilibilità. Finalmente si dice che nell’assimilazione di scarico di un effluente zootecnico gioca un ruolo fondamentale la pratica agronomica svolta in conformità alle disposizioni dettate dallo Stato. Queste sono state emanate con il Decreto del Ministero dell’Agricoltura 7 aprile 2006 e quindi (forse) riprese con disciplina speciale dalle singole Regioni. Ciò in sostanza significa che non si giudica più solo sulla base di canoni ermeneutici, ma occorre in particolare verificare se la pratica agronomica che ha condotto allo "scarico" è stata effettuata seguendo le regole.

Una pratica corretta di riutilizzo agronomica di questi reflui comporta automaticamente che gli stessi non finiscano nel primo corpo idrico, che ne costituisca il recapito intenzionale o meno. Ne consegue che se ciò avviene, cioè se i reflui inquinano un corso d’acqua, oltre alle sanzioni per il mancato rispetto delle disposizioni in materie di utilizzo agronomico, si perde sic stantibus l’assimilabilità ad acque domestiche per il reato di scarico non autorizzato. L’unico motivo ostativo ad una lettura così pragmatica della norma è la mancata adozione della disciplina regionale, che si registra oggi quasi ovunque, con le note debite eccezioni. Si può tuttavia adeguatamente sostenere che le indicazioni del decreto non possono che trovare completa trasposizione nelle regole che verranno dettate a livello territoriale, e quindi, anche in assenza, trovino immediata applicazione.

Il fatto che ha dato origine alla sentenza è simile a tanti altri. Un’azienda agricola di Viterbo di circa 900 bovini i cui liquami (deiezioni e acque di lavaggio della stalla), invece di essere riutilizzati a fini agronomici sul terreno della stessa, venivano a riversarsi in tutto o in parte in un corso d’acqua senza la necessaria autorizzazione allo scarico.

In primo grado i titolari dell’allevamento vengono condannati perché ritenuti responsabili del reato previsto dall'art. 59 c.1 DLvo 152/1999, con condanna ciascuno alla pena di euro mille di ammenda.


Il Giudice, concludeva che "pur prescindendo dal rapporto tra peso vivo del bestiame ed estensione del fondo, lo scarico dei liquami zootecnici necessitava di autorizzazione; ciò in quanto non si era realizzata in concreto la fertirrigazione mediante totale utilizzo dei rifiuti come concimi ovvero attraverso l'integrale sversamento degli stessi nel fondo."


Gli imputati ricorrono in Cassazione deducendo violazione di legge, in particolare, rilevando:


- che per le imprese agricole, in quanto considerate insediamenti civili a sensi dell'art. l quater L. 690/1976, non si deve applicare la disciplina prevista dal DLvo 152/1999 valevole per gli insediamenti industriali;


- che il Giudice ha omesso di valutare i criteri dettati dall'art. 28 c.7 del ricordato decreto per individuare la categoria delle acque assimilabili a quelle domestiche.

Cosa si dice nella sentenza?

Le censure non sono meritevoli di accoglimento.


Sotto la vigenza della L. 319/1976, l'art. l quater uc L. 690/1976 qualificava l'impresa agricola come insediamento civile, successivamente la delibera 8 maggio 1980 del Comitato interministeriale previsto dall'art. 3 della L. 319/1976 indicava alcuni parametri di riferimento (che la giurisprudenza riteneva non vincolanti) per stabilire la natura di insediamento civile, o meno, della impresa agricola e zootecnica (estensione del terreno disponibile, peso complessivo del bestiame, attività svolta et c.); in sintesi, si esulava dallo insediamento civile quando l'allevamento del bestiame perdeva il suo coordinamento funzionale con la coltivazione o lo sfruttamento del fondo e doveva considerarsi diretto allo esercizio di una autonoma impresa commerciale al cui servizio l'allevamento del bestiame era subordinato

Il D. L.vo 152/1999, vigente alla epoca del fatto per cui è processo, non faceva più riferimento alla natura dello insediamento (civile o produttivo), ma alla tipologia dei reflui per cui l'art. 28 equiparava gli effluenti da allevamento di bestiame alle acque domestiche (fatto salvo il disposto dell'art. 38 sulla utilizzazione agronomica) a determinate condizioni ; tali requisiti, riferiti al rapporto tra peso vivo degli animali ed estensione del fondo, erano significativi della circostanza che la attività di allevamento si svolgeva in connessione con la coltivazione della terra e questa era in grado di smaltire, nell'ambito di un ciclo chiuso, il carico inquinante delle deiezioni.

La disciplina in esame è ora parzialmente modificata dall'art. 101 c. 7 D. L.vo 152/2006 che non introduce norme pro reo.

In conclusione: solo quando un allevamento, per il numero dei suoi capi e l'estensione del fondo disponibile, consente l'utilizzazione esclusiva dei residui dell'attività agricola, può, in considerazione del limitato impatto ambientale, invocarsi il regime giuridico relativo alle acque domestiche (ex plurimis sentenza 13345/1998).

Fin qui siamo nel solco della giurisprudenza. Se manca il rapporto con il terreno, cioè non c’è terreno a sufficienza per l’integrale utilizzazione agronomica dei reflui zootecnici, si rientra nella definizione di "acque industriali" il cui scarico non autorizzato rappresenta un reato penale. Se invece questo rapporto esiste, secondo la giurisprudenza, con l’assimilazione dello scarico ad "acque domestiche" il fatto perde di rilevanza penale, ed è semmai punito con una sanzione (sempre che vanga trasmesso per tempo all’organo amministrativo).

Che si ragioni ancora in questi termini lo testimonia un’altra recente sentenza della Corte, la n° 1420 del 16 gennaio 2006. La vicenda è illuminante. Riguarda una stalla di sette bovini (!) sita in un terreno di circa mq. 3000 ed adiacente ad una abitazione di circa mq. 70, il cui titolare è stato rinviato a giudizio per aver effettuato lo scarico dei reflui senza autorizzazione.

Il Giudice del Tribunale di Palermo, con sentenza dell'8 giugno 2004, assolve l'imputato:

"perché il fatto non sussiste, osservando che si trattava di acque assimilate a quelle domestiche per le quali non era richiesta autorizzazione, che gli agenti non avevano controllato la tipologia delle acque e che gli scarichi erano da assimilarsi a quelli occasionali."

A seguito di impugnazione del Procuratore della Repubblica, la Corte d'Appello di Palermo, con sentenza del 18 aprile 2005, dichiara l'imputato colpevole del reato ascrittogli e lo condanna alla pena di euro 1.200 di ammenda. L'imputato propone ricorso per Cassazione deducendo violazione dell'articolo 59 Dlgs 11 maggio 1999, n. 152, perché esattamente il Giudice di primo grado aveva rilevato che si trattava di scarichi assimilati a quelli delle acque domestiche. Non poteva invero applicarsi, come erroneamente ha fatto la Corte d'Appello, la giurisprudenza in tema di aziende di allevamento zootecnico, perché il tenere sette bovini in un appezzamento di terreno attiguo alla casa di dimora in un'isola (Ustica) prevalentemente agreste da parte di persona ultrasettantenne pensionata non può certamente definirsi una azienda di allevamento zootecnico che richiama le acque reflue industriali.

La Cassazione non accoglie il ricorso, per questa motivazione:

Quanto alle imprese agricole, il settimo comma dell'articolo 28 del Dlgs 11 maggio 1999, n. 152, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 38 (in materia di utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento zootecnico) e dalle diverse normative regionali, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni assimila alle "acque reflue domestiche" quelle provenienti da "imprese dedite all'allevamento di bestiame che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di allevamento e coltivazione del fondo, per ogni 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti di allevamento al netto delle perdite di stoccaggio e distribuzione" (lett. b).
Nel caso di specie, il Giudice del merito, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha escluso (in considerazione del fatto che si trattava dell'allevamento di sette bovini in una stalla adiacente ad un appezzamento di terreno di appena 3.000 mq) che sussista la predetta condizione alla quale è subordinata la possibilità di assimilare gli scarichi da allevamento di bestiame alle acque reflue domestiche, e di conseguenza ha esattamente escluso che i liquami provenienti dalla stalla dell'imputato potessero assimilarsi alle acque reflue domestiche.

Il giudice del merito, presumiamo, diversamente da quello di primo grado, ha effettuato il calcolo dell’azoto prodotto dai 7 bovini e verificato il rapporto con il terreno disponibile. Vediamo.

Sulla base della tabella allegata al D.Lg 152/99 (e confermata nel testo unico) il limite di 340 kg annui di azoto si raggiunge allevando un totale di 4 tonnellate di peso vivo di bovini all’ingrasso. In pratica considerando che, mediamente un bovino ha un peso vivo di 500 kg, cioè di mezza tonnellata, ogni bovino produce 340:8 = 42,5 kg di azoto l’anno. Per ogni bovino quindi la disponibilità di terreno dovrà essere pari a 10.000 mq (1 ha) : 8 = 1250 mq.

Tabella 6 - Peso vivo medio corrispondente ad una produzione di 340 Kg di azoto per anno, al netto delle perdite di rimozione e stoccaggio, da considerare ai fini dell'assimilazione alle acque reflue domestiche (articolo 1, comma 7, lettera b))

Categoria animale allevata

Peso vivo medio per anno (t)

Scrofe con suinetti fino a 30 kg

3,4

Suini in accrescimento/ingrasso

3,0

Vacche da latte in produzione

2,5

Rimonta vacche da latte

2,8

Bovini all'ingrasso

4,0

Galline ovaiole

1,5

Polli da carne

1,4

Tacchini

2,0

Cunicoli

2,4

Ovicaprini

3,4

Equini

4,9

 

Per i 7 bovini di Ustica il pensionato ultrasettantenne doveva disporre di:

7 x 1250 = 8750 mq di terreno

cioè di un po’ meno di un ettaro. Poiché la disponibilità era inferiore il terreno è stato considerato insufficiente, il rapporto tra peso vivo e terreno non è rispettato, lo scarico non è assimilabile ad acque domestiche. Ergo è fatto penalmente rilevante per violazione dell’art. 59 Dlgs 11 maggio 1999, n. 152. Ma, al contrario, se il pensionato avesse avuto una disponibilità maggiore di terreno sarebbe stato assolto nonostante lo scarico effettuato ( e sanzionato in via amministrativa).

In un altro caso, altrettanto singolare, la Cassazione era chiamata a decidere a proposito di un decreto di sequestro preventivo di una conduttura che partiva dalle vasche di stoccaggio di liquami di maiali di un’azienda agricola e raggiungeva i terreni agricoli (e non le acque superficiali) creando impaludamento e ristagno. La Cassazione boccia il ricorso riconoscendo valide le conclusioni del Tribunale di Pesaro.

Il Tribunale si è anche posto il problema di cui all'art.28, comma 6, lettera b, D.L. 152/1999 secondo cui, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni sono assimilate alle acque reflue domestiche quelle provenienti da "imprese dedite all'allevamento di bestiame che dispongano di almeno un ettaro di terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di allevamento e di coltivazione del fondo, per ogni 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti di allevamento prodotti in un anno da computare secondo le modalità di calcolo stabilite dall'allegato 5" ed ha logicamente concluso che, data anche la natura di accertamento in fatto di tali requisiti, dato che l'azienda ospita un allevamento di 1750 maiali per 65 ettari di terreno, tale circostanza non consente di escludere per il rilevante numero di capi, per le strutture produttive e organizzative e tecnologiche ad essi afferenti (ricovero in stalle in muratura con sistemi di alimentazione semiautomatici), che possa essere venuto meno il rapporto di funzionalità tra attività di allevamento e coltivazione del fondo e che, dunque, come indicato in rubrica, possa trattarsi di acque reflue industriali". Sentenza n° 19964 del 27/05/2005 Corte di Cassazione Penale – Sez. III.

Applicando i criteri visti sopra, considerando un peso vivo pari a 100 kg, il limite di 340 kg annui raggiunto allevando 3000:100 = 30 suini, la disponibilità in terreno doveva essere di 1750:30 = 58 ettari. La disponibilità dell'azienda agricola era superiore e quindi la circostanza descritta, se si fosse effettuata la necessaria verifica, consentiva di assolvere il titolare dal reato penale e applicare la sanzione amministrativa.

Come si può capire c’è una rilevante discrepanza in termini di carico inquinante tra una stalla di 7 bovini ed un allevamento di 1750 suini, tuttavia questo criterio mette entrambi sullo stesso piano. Indipendentemente da quanto si inquina un corso d’acqua, il reato penale si consuma nel caso in cui la disponibilità di terreno non sia sufficiente, e quindi la Cassazione considera che, solo eccezionalmente, l'impresa industriale possa essere assimilata ad un'impresa agricola, come si legge di seguito.

L’attività di allevamento del bestiame, ontologicamente rientrante in quelle produttive, viene solo eccezionalmente assimilata a quella agricola derogando alla disciplina generale solo in presenza di elementi tali da far ritenere che la stessa si svolga in connessione con la coltivazione della terra, sempre che vi sia, in concreto, la capacita` del terreno di sopportare e smaltire naturalmente, in termini ecologici e nell’ambito di un c.d. "ciclo chiuso", il peso dell’allevamento stesso mentre, in difetto, l’attivita` zootecnica va considerata, anche agli effetti degli scarichi, di tipo produttivo, con conseguente applicabilita` della normativa regolante quelli provenienti da insediamenti industriali. Cass. 7 marzo 2001, n. 418, Pistonesi.

Che questa eccezione sia invece la regola, come corrente di pensiero, lo dimostrano le conclusioni della sentenza di primo grado di Palermo, cosi’ come sarebbe avvenuto anche al Tribunale di Pesaro se solo avessero effettuato correttamente i calcoli. E’ vero che le pronunce della Cassazione sono di tutt’altro avviso, ma è anche vero che la maggioranza dei procedimenti non arrivano a questo traguardo, si fermano ben prima, proprio perché il fatto non costituisce reato e solo un ricorso del pubblico ministero può rimettere in discussione le sentenze di primo grado (ma, nelle condizioni in cui versa oggi la giustizia, quali sono i PM che si possono permettere di presentare sempre ricorso?)

Allora, tutto ciò premesso, la sentenza che oggi presentiamo ci pare innovativa nel senso che, finalmente si prescinde dalla rappresentazione del fatto sotto il punto di vista meramente numerico, dalla valutazione della connessione funzionale o dalla struttura organizzativa ecc. perché nel caso concreto, che corrisponde al 99,9 % dei casi che approdano alle Procure, il liquame non viene utilizzato sul terreno ma viene scaricato in un corso d’acqua. Non è utilizzazione agronomica, né fertirrigazione nè altro che possa essere legittimamente ricondotto ad un rapporto con il terreno. Infatti cosi’conclude la Cassazione:

La problematica sollevata dai ricorrenti, tuttavia, è ininfluente nel caso concreto nel quale i liquami degli animali non erano usati concretamente ed integralmente nel terreno come concime per il successivo ciclo produttivo, ma immessi mediante canalizzazione in un corso l'acqua pubblico; tale attività necessita di previa autorizzazione sia con riferimento alla pregressa normativa sia alla attuale. Sentenza 9 ottobre 2006 n° 33896 Corte di Cassazione Penale – Sez. III.

 

 

 

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