interventi
10 luglio 2002

Non è raro imbattersi in titoli di giornale come questo, più raro è che a pronunciarlo sia un esponente di punta della passata legislatura come l'ex Presidente della Commissione Ambiente del Senato On. Fausto Giovanelli, al quale non si può applicare facilmente l'etichetta di massimalista. Invocazioni del genere siamo in effetti più abituati a sentirle dai rappresentanti delle varie associazioni che compongono l'arcipelago verde, da quelle che, in particolare, hanno da sempre puntato la propria iniziativa su tematiche quali lo sviluppo urbano, la difesa dei beni culturali, il dissesto idrogeologico.

Il fatto che ormai la consapevolezza di quanto c'è di irreversibile nella trasformazione delle nostre città e campagne sia arrivata a toccare personalità di governo (del precedente, per essere precisi) fino a trovare pubblica espressione in interventi a mezzo stampa può dare ancora di più il segno della crisi di un sistema che si avvia al collasso, piuttosto che le tante emergenze quotidiane alle quali si rischia invece di contrarre l'abitudine.

Ma quello che è sotto gli occhi di tutti, una inesorabile saturazione degli spazi, in realtà non è ancora percepito come problema, se non da chi, godendo di una visione d'insieme e disponendo degli strumenti per l'analisi, è oggi in grado di percepire l'evoluzione prossima futura e le conseguenze attese.

Non più tardi di 10 anni fa c'era chi, in Italia, preconizzava uno sviluppo a "città diffusa", termine ormai fatto proprio dagli addetti ai lavori per indicare ciò che gli americani chiamano lo "sprawl" urbano, quel fenomeno per cui le comunità non si espandono più perimetralmente rispetto alla cerchia urbana, ma sfondano nuove zone, aprono nuovi orizzonti, costituiscono tanti agglomerati sulla carta topografica da modificarne l'aspetto in quello tipico della macchia d'olio.

I nuovi aggregati non hanno limiti o confini chiaramente identificabili, sono spesso privi dei servizi essenziali, soffrono di carenze infrastrutturali, mancano di centri di integrazione sociale o culturale. C'è uno scollamento tra i tempi dell'insediamento e quelli della tutela pubblica: questa se arriva, arriva sempre in ritardo e spesso in una situazione ormai talmente degradata che passa sotto il nome di risanamento, riqualificazione, quando si tratta in verità della dotazione minima essenziale che doveva essere assicurata da subito. Per coloro che esaminano le evoluzioni urbane o demografiche, non si tratta più solo di un esempio di disgregazione o di diaspora delle funzioni storiche della città, ma coinvolge ben altri problemi, primo dei quali la sostenibilità dello sviluppo.

Oggi la sostenibilità è la parola d'ordine di piani e programmi. Non poteva mancare l'urbanistica tra le discipline ad avere scoperto il tema della capacità di carico ambientale. E tuttavia ciò che è facile a dirsi, non è poi così facile a farsi.

Come dice giustamente il sen. Giovanelli:

"A chi scrive e discute di ambiente sembra ancora oggi un grande passo avanti l'avere definito più o meno bene e affermato il concetto di sviluppo sostenibile. In effetti si tratta di una conquista notevole ma per ora platonica; cioè puramente concettuale. E' un'elaborazione culturale, è l'indicazione di un progetto politico, indicativo soprattutto per negazione; in quanto implicitamente si riconosce e denuncia come non sostenibile lo sviluppo che è ora in corso su tutto il pianeta. E quindi si afferma un bisogno di cambiamento, definendone anche un tratto determinante: la capacità di sostenersi nel tempo. Ma poco altro."

Se c'è una evidente discrasia tra il sostenere teorie di sostenibilità e metterle poi in pratica è proprio quella legata al consumo di territorio. Difficile difendere la qualità ambientale di una comunità che sta rapidamente occupando lo spazio vitale disponibile, perché è di questo che stiamo parlando, del fatto che in diverse aree del nostro paese ormai si va verso il superamento dei confini amministrativi, dove non si distingue più l'inizio dalla fine. La dimensione dell'agglomerato si estende su più entità di governo, comunali o provinciali, le quali non possono che guardare al fenomeno della diffusione con l'ottica delle competenze: questo spetta a noi, quest'altro riguarda loro, con l'effetto di perdere sempre più il controllo delle cose, frammenti di governo alla deriva.

L'esistenza della città diffusa è una variabile dipendente della mobilità, si auto-sostiene in senso letterale, perché è nell'uso individuale, privato, del mezzo mobile che trova modo di "reggere" all'alienazione di beni e sostegni alla persona. E tuttavia non serve a evitare la congestione, anzi la incrementa producendo nuovo pendolarismo. Il mezzo di trasporto pubblico è così messo in crisi da una varietà e variabilità della domanda in termini di programmazione degli itinerari, frequenza e qualità del servizio. Se ne riscopre l'esigenza in occasione di crisi ambientali, quando ci si rende conto che per interrompere il flusso automobilistico non può bastare il solo trasporto urbano. Allora diventa l'alibi per non prendere provvedimenti.

La suburbanizzazione è anche un problema di rapporti. La disseminazione rompe gli equilibri, spezza gli ecosistemi, si scontra con le tradizioni.

Utilizzando come dati esemplificativi la realtà della provincia di Bologna, in poco meno di cinquanta anni si è passati da 26 milioni di mq di territorio urbanizzato nel 1955, a poco meno di 250 milioni di mq nel 1998, con una crescita di quasi il 1000%. Se inoltre venissero realizzate tutte le vigenti previsioni dei piani urbanistici comunali, pari a un incremento di circa 58 milioni di mq di territorio urbanizzato, l'incremento totale sommerebbe al 1200%.

Non solo, ma dall'analisi della cartografia:

Si è costruito troppo e dovunque. E i termini del problema potrebbero essere altrettanto se non più gravosi qualora l'analisi fosse condotta sulle realtà delle cinture urbane di città come Milano, Napoli.

Cause e concause sono sempre le stesse: minori spese di insediamento, maggiore accessibilità, spazi più funzionali per l'attività produttiva, migliore qualità dell'abitare, maggiore disponibilità del bene casa, la preferenza per lo spazio autonomo non condominiale. I costi dello sprawl sono tutti celati, non appaiono, solo nel medio periodo si iniziano a concretizzare.

E' quando si fanno i bilanci di fine anno che le amministrazioni hanno modo di riflettere, quando computano le entrate a fronte di costi sempre crescenti nell'organizzazione e gestione dei servizi a rete (acqua e depurazione, gas, trasporti, rifiuti) e degli altri servizi pubblici (sociali, assistenziali, culturali), nell'impatto negativo sull'ambiente e sulle risorse naturali. Allora si fanno le prime proposte di gestione pubblico-privato, il che a dire che il sistema non si regge più con le sole finanze dell'ente.

Tutto diventa più chiaro, si tratta in verità di un problema di entrate. Lo sviluppo è insostenibile per un meccanismo perverso, il legame tra il finanziamento degli enti locali e l'attività edilizia. Sono le tasse sugli immobili, gli oneri di concessione, di urbanizzazione, la tariffa rifiuti (il cui algoritmo è ancora basato sulle superfici) che condizionano le scelte, che favoriscono la tendenza a ricercare comunque e ovunque la crescita insediativa. "Stoppiamo i piani urbanistici, limitiamo l'espansione". Sono invocazioni che non verranno mai raccolte senza una riforma generale sulla finanza dei comuni.

Guardiamo il bilancio delle entrate di un comune della provincia bolognese:

Entrate utilizzabili per spese correnti

Entrate tributarie (Ici, Irpef, ...)
9.684.341.54
Trasferimenti dallo Stato e altri Enti
4.804.051,95
Entrate extratributarie (rette, sanzioni,...)
5.200.670,78
Oneri di urbanizzazione
619.748,29
Totale
20.308.812,56

Le spese correnti (titolo primo delle uscite) vengono stanziate per fronteggiare i costi del personale, l'acquisto di materiali e beni, la prestazione di servizi, l'erogazione di contributi, il sostenimento di interessi passivi sui mutui, l'accantonamento per ammortamenti di beni patrimoniali ed altre uscite di minore rilievo.

Il finanziamento della spesa corrente è ottenuto grazie alle risorse individuate nei primi tre titoli dell'entrata (entrata corrente). Ma non tutto il complesso delle entrate correnti può essere utilizzato per il finanziamento della spesa corrente. Infatti, le entrate correnti devono anche garantire la copertura dei rimborsi delle quote capitale dei mutui di ammortamento.

L'accensione di mutui e prestiti è richiesta dalla previsioni degli investimenti, le opere pubbliche per intenderci.

Dal bilancio di un comune veneto andiamo ad estrarre il prospetto di confronto dell'evoluzione nell'ultimo decennio delle entrate proprie correnti (tributarie + extra tributarie) rispetto a quelle derivanti dai trasferimenti:

  1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002
Entrate
Proprie
51% 51% 66% 66% 68% 71% 72% 75% 78% 74% 73%
Entrate da
trasferimenti
49% 49% 34% 34% 32% 29% 28% 25% 22% 26% 27%

Dal prospetto è possibile ricavare conferma all'affermazione per la quale il territorio è diventato, negli anni, il perno fondamentale delle risorse economiche di cui può disporre un comune. Infatti, se dieci anni fa i cittadini e le imprese insediate contribuivano al sostenimento di poco più della metà di tutte le spese correnti, per il 2002 la quota di concorso della tassazione locale ha quasi raggiunto il valore dei tre quarti del totale.

Su ogni 100  uro che un comune impegna per la spesa corrente, 73  uro vengono raccolti nel territorio e solamente i residui 27 euro risultano oggetto di risorse derivate.

Ora appare evidente come le scelte dell'amministrazione di un comune medio siano condizionate dalla necessità di far cassa.

Naturalmente ci sono comuni più virtuosi e meno virtuosi, amministrazioni più ricche e altre agli sgoccioli.

I comuni capoluogo di provincia o di regione sono mediamente più fortunati, grazie alle dimensioni, alla disponibilità di aree. Hanno diverse alternative davanti, dovendo scegliere possono preferire un modello di sviluppo all'altro, selezionare gli insediamenti meno impattanti, stabilire gli standard più elevati e così via.

All'opposto stanno i comuni piccoli. Ci sono quelli che pur di rimpinguare il portafoglio prendono di tutto un po', urbanizzano dove capita, transigono sui requisiti. Magari sono comuni di montagna, hanno una biopotenzialità elevata, un paesaggio da difendere, le risorse ancora integre. E qui, dove si vorrebbe mantenere quanto di ancora incontaminato, che spesso esplodono le maggiori contraddizioni.

Se non si spezza questa dipendenza la sostenibilità è destinata a rimanere un mero esercizio intellettuale.

Chiudiamo citando le parole di un ex Ministro dei Lavori Pubblici, Paolo Costa, a proposito del modello veneto: "...il modello selvaggio del fai da te è stato spettacoloso sul piano individuale, ma ha creato un ritardo culturale su quello collettivo. Non ci si preoccupava delle infrastrutture, le aziende crescevano, si sviluppavano, in qualche modo non erano nemmeno interessate a far sapere che esistevano"

 

 

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