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T. A. R. per l'Abruzzo - Pescara, sent. 23 gennaio 2003, n. 197, sui poteri repressivi in caso di D. I. A. in materia edilizia

F A T T O
Nel capoluogo del Comune di Montesilvano, situato tra le vie Roma, Toti e Battisti, esisteva un edificio composito destinato ad opificio industriale per la produzione di liquirizie da tempo dimesso. Relativamente a tale immobile il Comune rilasciava in data
23.4.1999 una concessione edilizia per la ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione del complesso edilizio da destinare ad uffici privati ed in parte ad attività commerciali.
I signori Orsini Annamaria, De Simone Mario, De Simone Angela e De Simone Mariolina, in quanto proprietari di area confinante, impugnavano tale concessione che, con ordinanza 26.4.2001, veniva sospesa dal TAR.
A seguito dell'entrata in vigore del nuovo PRG, la s.r.l. General Buildings, proprietaria dell'immobile, conseguiva in data 8.6.2001 nuova concessione edilizia per lo stesso genere di intervento. Anche questa concessione veniva impugnata dai predetti
confinanti, ma il TAR respingeva l'istanza cautelare che, invece, veniva accolta in sede di appello.
Il Comune rilasciava in data 30.10.2001 una nuova concessione edilizia per un intervento sostanzialmente analogo al precedente ed anche questa veniva impugnata dagli stessi confinanti.
Peraltro, nelle more, venivano iniziati i lavori relativi all'intervento edilizio di che trattasi e quindi, completata la demolizione dell'esistente, venivano realizzati le fondazioni ed il piano interrato del costruendo nuovo edificio.
Senonchè, con sentenza 22 marzo 2002 n.341, dichiarato improcedibile il ricorso avverso la prima concessione, il TAR ha accolto gli altri ricorsi, annullando le successive concessioni edilizie sopra indicate.
Quindi, la stessa General Buildings s.r.l., in data 8.7.2002, ha presentato al Comune, ai sensi dell'art.1, comma 6 lett.b), della L. 21 dicembre 2001, n.443, una denuncia d'inizio attività, subordinata all'efficacia della delibera consiliare 5.7.2002 n.45, relativa
al progetto di ristrutturazione, con demolizione integrale, dell'immobile di che trattasi da destinare a centro residenziale e/o uffici privati, con sanatoria del piano interrato già realizzato.
I predetti confinanti hanno proposto ulteriore ricorso notificato il 13.9.2002 e depositato il 19.9.2002 (n.471 reg.ric. 2002), impugnando l'assenso tacito del Comune riguardo a quest'ultima denuncia inizio attività (c.d. d.i.a. oppure super d.i.a.) e comunque la denuncia stessa e la non interdizione dell'opera da parte del Comune, con contestuale impugnazione delle presupposte NTA del PRG, di cui in particolare all'art.11, punto 9 cpv. IV e II, all'art.34, cpv. III, all'art.9, comma 6 (introdotto con delibera n.4 del 2002), e con contestuale domanda di provvedimenti ripristinatori e di condanna all'arretramento e alla
demolizione parziale dell'edificio nel rispetto delle distanze legali.
Quest'ultimo ricorso deduce i seguenti motivi:
I- violazione dell'art.7 del D.M. 2 aprile 1968, n.1444 e dell'art.30, lett. e), della L. Reg. n.18 del 1983 e successive modificazioni, poiché il progetto relativo alla d.i.a. prevede la ricostruzione di un edificio di volumetria pari a mc. 12.494,6 e cioè di uguale cubatura dell'intero opificio demolito, sicchè, essendo l'intero lotto di terreno esteso mq. 1.470, rimane invariata la densità fondiaria di 8,50 mc./mq., mentre l'art.7 del D.M. n.1444 del 1968 prescrive, per le zone B di completamento (come quella interessata) nel caso di demolizione e ricostruzione di edifici, il limite massimo inderogabile di densità fondiaria di 5 mc./mq. per i comuni (come Montesilvano) di popolazione inferiore a cinquantamila abitanti.
Peraltro, con delibera consiliare 25.1.2002 n.4, il Comune ha introdotto un emendamento all'art.11, punto 9, delle NTA del PRG prevedendo, in aggiunta al cpv. IV, che nell'ambito della ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche interventi di mpliamento delle superfici utili, quando previsto nelle singole zone o quando la capacità insediativa è determinata dal volume insediabile nella zona d'appartenenza, con ciò senza prescrivere un limite massimo della cubatura in rapporto all'area a disposizione, mentre l'art.34 delle stesse NTA prevede, al cpv. III, per gli interventi di cui all'art.30 della L. Reg. cit., tra cui le
ristrutturazioni, un incremento volumetrico del 10% dell'esistente e ciò anche in contrasto con lo stesso art.30 della legge regionale che ammette tale incremento solo per la superficie utile, non per il volume.
II- Violazione degli artt.31, I comma lett. d), della legge n.457 del 1978 e 30, lett. e) della legge regionale n. 18 del 1983 e succ. modif., nonché del concetto normativo di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, poiché l'intervento edilizio di
che trattasi, come progettato, non può essere considerato quale ristrutturazione secondo l'art.30 della legge regionale, che consente un aumento del 10% della superficie utile ma prescrive la conservazione del volume preesistente, né secondo il concetto elaborato dalla giurisprudenza che, in caso di demolizione e ricostruzione, richiede che quest'ultima sia fedele, nel senso che riproduca nelle sue linee fondamentali l'edificio preesistente, conservandone le caratteristiche fondamentali, con identici volume e sagoma, senza sopraelevazione e senza cambiamento di destinazione d'uso.
Peraltro, l'art.11, punto 9 cpv. II, delle NTA, nel disciplinare la ristrutturazione edilizia, appare limitare il concetto di identica sagoma alla sola area di localizzazione dell'immobile sull'area di pertinenza e l'art.9, comma 6 (introdotto dalla delibera n.4 del
2002), delle stesse NTA, per gli interventi di ristrutturazione di cui all'art.30 cit., prevede che al fine di livellare le altezze massime sono ammesse le altezze previste per i singoli quadranti, mentre secondo la giurisprudenza la sagoma deve essere intesa come aspetto tridimensionale del corpo edilizio e quindi comprensivo dell'altezza.
Nel caso di specie, il vecchio edificio demolito era un opificio industriale consistente in più corpi di fabbrica uniti, ma con altezze disomogenee, di cui il più alto di altezza massima di m. 12,50 al colmo del tetto; il costruendo nuovo edificio, invece, ha un'altezza costante per tutta la sua estensione pari a m. 18,00 all'intradosso dell'ultimo solaio, con punti apicali di m. 22,50 di altezza.
Pertanto, il progetto di ricostruzione di cui trattasi non può essere considerato come ristrutturazione, ma deve essere ritenuto quale nuova opera e come tale soggetta alla normativa edilizia sopravvenuta che in zona B consente sull'area a disposizione di
realizzare una volumetria pari a mc. 1.470, anziché quella progettata di mc. 12.494,6.
III- Violazione degli artt.1, comma 6, della legge n.443 del 2001 e 31, I comma lett.d), della legge n.457 del 1978 e 30, lett. e), della legge regionale n.18 del 1983 e succ. modif., poiché il progetto in discorso non è realizzabile con la c.d. super d.i.a., in
quanto la norma di cui alla legge n.443 del 2001 impone la conservazione delle stesse volumetria e sagoma dell'edificio preesistente, mentre tanto non ricorre nel caso di specie e peraltro deve trattarsi di complementari demolizione e ricostruzione, mentre la fase della demolizione era stata già consumata allorché l'interessata ha ritenuto di giovarsi della denuncia inizio attività ai sensi della norma sopravvenuta.
IV- Violazione dell'art.41 sexies della legge n.1150 del 1942, dell'art.8/5 delle NTA e dell'art.11, punto 13, delle NTA in materia di standards urbanistici di cui agli artt.3-4-5-6 del D.M. 2 aprile 1968, poiché il riedificando edificio, destinato ad uffici privati e
locali commerciali, dovrebbe avere una dotazione di parcheggi pari a mq.1 per ogni mq.2 di superficie lorda e quindi la superficie da destinare a tale scopo deve essere, nella specie, pari a mq. 1.470,61, mentre in progetto il parcheggio è previsto nel piano
interrato, suddiviso in garages delimitati da pareti murarie, per una superficie complessiva di mq. 648,53 cui vanno aggiunti mq. 207,64 e mq. 160,91 ricavati in altro locale ed all'esterno, per complessivi mq. 1.017,08. Peraltro, il mutamento di destinazione
d'uso comporta anche il contemporaneo reperimento degli standards urbanistici per servizi pubblici e parcheggi privati di cui al D.M. citato.
V- Violazione dell'art. 873 cod.civ., dell'art.9 delle NTA del PRG, dell'art.28 bis del REC e dell'art.9 del D.M. 2 aprile 1968 in materia di distanze tra costruzioni e dal confine e dalla strada, poiché il progetto in discorso, anziché prevedere la ricostruzione del nuovo edificio interamente sul confine con l'edificio di proprietà dei ricorrenti, così come era costruito l'opificio preesistente, prevede l'ubicazione sul confine del solo vano scala, mentre la parete del nuovo edificio risulta arretrata di soli m.5, in quanto non dotata di finestre, ma solo di luci, e tuttavia la parete stessa, prospiciente l'edificio dei ricorrenti, risulta
dotata di balconi che permettono l'affaccio e che si congiungono con i balconi di altro fronte su cui si aprono le porte finestre di accesso, sicchè la distanza deve essere pari a m.10. Peraltro, tali balconi risultano progettati di larghezza pari a m.2,5, sicchè la
distanza dal confine è ridotta a m.2,5 e quindi risulta inferiore persino ai m.3 prescriti dall'art. 873 c.c. indipendentemente dalla presenza di pareti finestrate. Tanto comporta il sacrificio del diritto dei ricorrenti-confinanti di edificare sul proprio fondo in misura pari alla controinteressata, giacchè sarebbe loro inibita la possibilità di edificare con parete cieca a confine, come era consentito prima della demolizione del preesistente edificio frontistante pure con parete cieca.
Per resistere si è costituito in giudizio il Comune di Montesilvano la cui difesa, con memoria depositata il 23.9.2002, ha eccepito la tardività dell'impugnazione delle NTA del PRG e delle relative delibere indicate dal ricorso, in quanto conosciute dalla parte
ricorrente sin dal 13.2.2002 in seguito al deposito degli atti nel corso dei precedenti processi sopra richiamati, nonché l'inammissibilità del ricorso, sia avverso il presunto silenzio-assenso, in quanto istituto inapplicabile al procedimento estrinsecantesi con la c.d. d.i.a., sia avverso la stessa d.i.a., in quanto atto del privato e non amministrativo. La stessa difesa ha, peraltro, controdedotto nel merito del ricorso, chiedendone la reiezione.
Si è costituita in giudizio anche la controinteressata General Buildings s.r.l. la cui difesa, con memoria depositata il 20.9.2002, ha eccepito l'inammissibilità del ricorso sotto tre profili: a)- insussistenza del silenzio-assenso, poiché l'istituto della c.d. d.i.a.
liberalizza l'accesso alle attività cui è applicabile e quindi non sussiste per esse la subordinazione ad un provvedimento amministrativo, trattandosi di attività legittimate direttamente dalla legge; b)- inimpugnabilità della c.d. d.i.a., trattandosi di
un atto proveniente da un soggetto privato e quindi non annoverabile tra gli atti amministrativi impugnabili davanti al G.A.; c)- tardività dell'impugnativa delle NTA del PRG, poiché di esse i ricorrenti avevano chiara e piena consapevolezza sin dai precedenti
ricorsi, con cui tuttavia non sono state impugnate, e le relative delibere, comunque impugnabili dalla data di rispettiva pubblicazione, sono state depositate in vista dell'udienza del 7.3.2002 di discussione di detti ricorsi. La stessa difesa ha,
peraltro, controdedotto nel merito del ricorso, chiedendone la reiezione.
Con memoria depositata il 27.12. 2002 la difesa dei ricorrenti ha controdedotto in ordine alle avverse eccezioni ed ha ulteriormente argomentato a sostegno del ricorso.
In sede di discussione orale la difesa della controinteressata ha diffusamente illustrato le sollevate eccezioni d'inammissibilità ed ha ulteriormente controdedotto in ordine alle avverse censure.
Analoga discussione è stata condotta dalle difese delle altre parti in causa.

D I R I T T O
Il ricorso in esame chiede l'annullamento ovvero la declaratoria d'illegittimità dell'atto di assenso tacito (c.d. silenzio assenso o accoglimento) riguardo alla denuncia d'inizio attività ai sensi dell'art.1, comma 6 lett. b), della legge n.443 del 2001, relativa a
lavori di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, comunque della denuncia stessa e della non interdizione dell'opera da parte del Comune, nonché delle sopra indicate norme tecniche d'attuazione, nelle parti in cui consentono l'intervento edilizio così come progettato.
Giova innanzitutto sgombrare il campo dall'eccezione d'inammissibilità, per tardività, dell'impugnazione delle indicate norme tecniche d'attuazione del PRG, come sollevata dalle difese delle parti resistente e controinteressata.
L'eccezione non può essere condivisa, giacchè, come controdedotto dalla difesa di parte ricorrente, la circostanza dell'avvenuta piena conoscenza dei relativi atti in occasione dei precedenti ricorsi è irrilevante, in quanto detti ricorsi sono stati accolti dal TAR (sentenza n.341 del 22.3.2002) con annullamento delle concessioni allora impugnate, sicchè l'interesse alla relativa impugnazione è riemersa solo in occasione della presentazione della c.d. d.i.a. sopra indicata che su tali norme si basa. Né l'eccepita tardività dell'impugnazione può trovare fondamento sulla circostanza che le delibere approvative delle stesse NTA sono state da tempo pubblicate all'Albo pretorio, giacchè la relativa impugnazione non poteva essere proposta autonomamente in assenza di un atto, ed ora di una c.d. d.i.a., che di esse costituissero applicazione con effetto attualmente lesivo.
Giova, in secondo luogo, prendere in considerazione l'eccezione d'inammissibilità dell'impugnazione della "denuncia inizio attività" relativa al progetto di che trattasi, sollevata dalle difese sia della controinteressata che del resistente.
L'eccezione è fondata, giacchè la c.d. d.i.a. costituisce un atto proveniente da soggetto privato, in quanto tale non impugnabile davanti al G.A., neppure in sede di giurisdizione esclusiva di cui all'art.34 del D.Lgs. n.80 del 1998 come modificato dalla legge
n.205 del 2000.
Peraltro, la difesa di parte controinteressata, così come quella di parte resistente, eccepisce l'inammissibilità dell'impugnazione del silenzio-assenso, poiché questo non si è formato sulla d.i.a. di che trattasi.
L'eccezione può essere condivisa.
Nel caso di specie, la controinteressata ha presentato una d.i.a. ai sensi dell'art.1, comma 6 lett. b), della legge n.443 del 2001, norma che non ha fatto altro che estendere l'istituto della "denuncia inizio attività" alle ristrutturazioni edilizie, comprensive
della demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma, fermo restando per l'organo comunale competente il dovere di notificare agli interessati l'ordine motivato di non effettuare le previste trasformazioni se, entro il termine legislativamente prescritto, sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite per realizzare i lavori.
Orbene, come sostiene la difesa della controinteressata, nella fattispecie l'istituto della "denuncia inizio attività" liberalizza l'accesso alle attività cui è applicabile, sicchè per queste non sussiste la subordinazione ad un provvedimento amministrativo, in
quanto le attività stesse sono legittimate direttamente dalla legge (in tal senso: TAR Napoli, sez. I, 6 dicembre 2001 n.5272, peraltro annullata da Cons. St., Sez. VI, 4 settembre 2002 n.4453). In altri termini, caratteristica fondamentale della c.d. d.i.a. è
proprio il venir meno di un titolo provvedimentale di legittimazione, lasciando in capo all'Amministrazione solo un potere di controllo con carattere inibitorio che deve essere esercitato nel termine perentorio prescritto dalla legge; ed il decorso di tale
termine non ha come effetto la formazione di un provvedimento tacito di assenso.
Pertanto, non può sostenersi che nella fattispecie in esame si sia formato il silenzio-assenso od un assenso tacito, sicchè la relativa impugnazione è inammissibile.
D'altra parte, la difesa della controinteressata, in sede di discussione orale, eccepisce l'inammissibilità dell'impugnazione del mancato esercizio del potere di controllo sulla c.d. d.i.a., essendo l'esercizio di tale potere soggetto a termine perentorio e quindi non più esercitatile dopo spirato il termine legislativamente prescritto.
Posto che non risulta se il Comune abbia, o meno, esercitato tale controllo entro il termine prescritto, l'eccezione non può essere condivisa, giacchè, una volta spirato il termine legislativamente prescritto per il controllo sulla c.d. d.i.a., in capo all'Autorità
comunale permangono integri sia il potere di autotutela che quello più generale di intervento successivo, magari ad istanza di un terzo, che possono, comunque, dar luogo all'interdizione dell'opera (in questi ultimi sensi: Cons. St., sent. n.4453 del 2002 cit.;
TAR Napoli, sent. n.5272 del 2001 cit.).
I profili d'inammissibilità sopra condivisi, però, non comportano l'inammissibiltà del ricorso in esame che, in effetti, censura la "non interdizione dell'opera" da parte del Comune, sostenendo che il realizzando progetto non è conforme alle disposizioni legislative e regolamentari disciplinanti la specifica materia.
Ed infatti, ad avviso del Collegio, vertendo la controversia in materia urbanistica ed edilizia, devoluta alla giurisdizione esclusiva del G.A. dall'art.34 del D.Lgs. n.80 del 1998 come sostituito dall'art.7 della legge n.205 del 2000, l'oggetto del giudizio può essere costituito da "atti, provvedimenti e comportamenti" delle amministrazioni pubbliche. E nella espressione legislativa di tale ampiezza non possono non ricomprendersi tutte le accezioni della espressione "comportamenti", quindi anche il comportamento
di non interdire un'opera che risulti non conforme alle disposizioni prescritte per la relativa realizzazione.
Invero, la liberalizzazione dell'accesso alle attività edilizie cui si applica l'istituto della "denuncia inizio attività" non significa, ad avviso del Collegio, che l'Autorità comunale è esonerata dal riscontrare se siano presenti tutte, o meno, le condizioni stabilite
per procedere in base alla c.d. d.i.a., né che il riscontro possa essere effettuato a campione o soltanto su impulso della parte interessata; l'istituto in parola ha, evidentemente, lo scopo di snellire l'attività amministrativa e di alleggerire la posizione del
privato onde consentirgli di espletare determinate attività senza l'intermediazione di un provvedimento amministrativo, purchè ricorrano tutte le condizioni legislativamente stabilite, ma non può avere lo scopo, da una parte, di esonerare dall'attività di
controllo le amministrazioni pubbliche preposte alla cura dei relativi interessi pubblici, e, dall'altra, di consentire ai privati di espletare quelle attività in assenza delle condizioni prescritte per giovarsi dell'istituto in discorso.
Se, dunque, l'istituto della c.d. d.i.a. è volto a semplificare l'attività delle due parti dirette del rapporto, da una parte l'Amministrazione pubblica e dall'altra il soggetto privato che intenda intraprendere quelle attività cui l'istituto stesso è
applicabile, non sembra sostenibile, ad avviso del Collegio, che l'utilizzo di tale istituto possa, invece, appesantire la posizione del soggetto terzo il quale, essendo titolare di una situazione soggettiva di controinteresse rispetto al soggetto che si giovi della c.d. d.i.a., onde tutelarsi in sede giurisdizionale debba previamente diffidare l'Amministrazione a che proceda a verifica della stessa d.i.a. e quindi, all'esito, esperire le azioni a difesa dei propri interessi o diritti.
Più semplicemente, ad avviso del Collegio, appare esperibile da parte del terzo un'azione diretta a provocare in sede di giurisdizione esclusiva, secondo i motivi dedotti, un sindacato da parte del giudice in ordine alla corrispondenza, o meno, di
quanto dichiarato dall'interessato e di quanto previsto dal relativo progetto rispetto ai canoni normativi stabiliti per la realizzazione dell'attività edilizia in questione.
Ed in sostanza, a tanto appare volto il ricorso in esame, indipendentemente dalle formule utilizzate nell'epigrafe o nelle conclusioni.
Il ricorso può, quindi, essere esaminato nel merito.
Seguendo l'ordine logico, il Collegio ritiene di dover esaminare, in primo luogo, il secondo motivo di ricorso (sopra riassunto in "fatto") che, in stretta sintesi, sostiene che l'intervento edilizio di cui al progetto presentato con la c.d. d.i.a. di che trattasi in realtà non può essere qualificato come "ristrutturazione", bensì deve essere considerato come "nuova opera", con la conseguenza che non è applicabile l'istituto della denuncia d'inizio attività ai sensi dell'art.1, comma 6 lett. b), della legge n.443 del 2001.
Ad avviso del Collegio la censura è fondata.

Invero, sia l'art.1, comma 6 lett. b), della legge n.443 del 2001 che l'art.30, comma 1 lett. e), della legge regionale n.18 del 1983 e succ. modif., presuppongono il concetto di ristrutturazione edilizia quale risultante dai contorni fissati dall'art. 31, I comma
lett. d), della legge n.457 del 1978 e dalla relativa elaborazione giurisprudenziale.
Secondo la giurisprudenza, la nozione di ristrutturazione edilizia interpretata ai sensi dell'art.31, I comma lett. d), della legge n.457 del 1978 comprende anche gli interventi consistenti nella demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato, purchè la
successiva ricostruzione sia fedele, cioè l'edificio ricostruito risulti, quanto a sagoma e volumi, identico a quello preesistente;
inoltre, occorre che il manufatto sul quale si svolgono gli interventi rimanga il medesimo per forma, volume ed altezza, in quanto il risultato della ristrutturazione può bensì essere un "organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente", purchè però la diversità sia dovuta ad interventi comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi del manufatto, ovvero l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, e non già la realizzazione di nuovi volumi (Cons. St., Sez. V, 24 febbraio 1999 n.197).
Peraltro, secondo la giurisprudenza, le disposizioni di cui all'art.31 della legge n.457 del 1978, che definiscono i tipi di intervento edilizio, riguardano esclusivamente le opere di edilizia residenziale e non possono applicarsi analogicamente a tutti gli interventi edilizi (Cons. St., Sez. V, 22 marzo 1995 n.451).
Sicchè, la giurisprudenza ha ritenuto che si configura come "nuova costruzione" la ristrutturazione di un edificio, prima adibito a capannone industriale, con la trasformazione in immobile destinato ad uffici ed attività commerciali oppure a residenza; infatti,
il concetto di nuova costruzione riguarda non solo la realizzazione di un manufatto su un area libera, ma anche ogni intervento di ristrutturazione che rende il fabbricato oggettivamente diverso da quello preesistente, in considerazione dell'entità delle
modifiche; peraltro, la relativa concessione deve anche prevedere gli spazi destinati a parcheggio (Cons. St., Sez. V, 3 febbraio 1999 nn.98 e 101; Sez. V, 22 giugno 1998 n.921).
D'altra parte, la legge regionale urbanistica dell'Abruzzo, all'art.30, I comma lett. e), della legge reg. n.18 del 1983 come modificato dalla legge reg. n.70 del 1995, nel definire gli interventi di ristrutturazione edilizia, dopo aver ripetuto esattamente le
espressioni dettate dall'art.31, I comma lett. d), della legge statale n.457 del 1978, aggiunge che sono ammessi:
- aumenti della superficie utile interna al perimetro murario preesistente, in misura non superiore al 10% della superficie utile stessa;
- aumenti della superficie utile e/o del volume degli edifici ove ciò sia consentito dagli strumenti urbanistici comunali;
- la demolizione e ricostruzione di singoli edifici nei limiti di cui sopra.
Il TAR Abruzzo, Sez. di Pescara, con sentenza 20 dicembre 2002 n.1182, ha avuto modo di precisare che la norma sta a significare che:
- è possibile recuperare tutto il volume esistente ed aumentare la superficie utile interna in misura non superiore al 10% della superficie utile;

- non occorre il rispetto integrale della sagoma esistente ed è, quindi, possibile anche sopraelevare l'edificio preesistente, una volta che sia stato demolito, purchè ne risulti un nuovo organismo edilizio che rispetti, comunque, gli indici sopra indicati.
Orbene, tenendo presente l'elaborazione giurisprudenziale sopra ricordata, nel caso in esame, appare evidente che il progetto presentato con la c.d. d.i.a. del 7-8 luglio 2002, relativo al ricostruendo edificio, non può essere qualificato come intervento di
ristrutturazione edilizia, bensì come nuova costruzione.
Ed infatti, il preesistente edificio (già demolito) era costituito da più corpi di fabbrica di differenti dimensioni ed altezze, variamente collegati fra loro, costituenti un composito complesso edilizio adibito ad opificio industriale (lavorazione della liquirizia), mentre il ricostruendo edificio è costituito da un unico complesso edilizio destinato ad uffici privati e ad attività commerciali. Di quelli preesistenti, il corpo di fabbrica più elevato aveva altezza di m.14,00 circa, mentre gli altri corpi avevano altezze ben inferiori: m.11,80; m.10,45; m.6,40; m.4,30. Invece, il ricostruendo edificio ha un'altezza costante di m.18,00 (fuori terra) per tutta la sua estensione.
I vari corpi di fabbrica preesistenti, salvo che per due piccoli corpi adibiti l'uno ad abitazione e l'altro ad uffici, erano realizzati in modo tale da poter essere adibiti alla produzione, alla confezione, alle spedizioni, a sgombero, ad officina: nella maggior
parte, quindi, erano costruiti come capannoni industriali o simili. Invece, il ricostruendo edificio viene realizzato su quattro piani, ciascuno dei quali è suddiviso in locali adibiti ad uffici e dotati ciascuno di servizi, mentre il piano terra è suddiviso in locali commerciali anch'essi dotati di servizi. Peraltro, ai piani secondo e quarto sono previsti locali con doppia altezza interna. Dal raffronto della tavola 2 del progetto a suo tempo assentito con concessione edilizia 23.4.1999 n.7986, tavola (depositata in fascicolo di parte ricorrente) che rappresenta l'insieme dei corpi di fabbrica preesistenti, con le tavole 4/6 e 6/6 del progetto allegato alla c.d. d.i.a. presentata l'8.7.2002 (tavole depositate, rispettivamente, nei fascicoli di parte ricorrente e controinteressata) le quali rappresentano il ricostruendo edificio, appare di tutta evidenza che le modifiche apportate sono di entità e consistenza tali da trasformare il preesistente edificio in uno oggettivamente diverso, a nulla rilevando la circostanza che il nuovo conserva la stessa volumetria del preesistente.
Vero è che l'art.1, comma 6 lett. b), della legge n.443 del 2001 consente che in base a semplice denuncia di inizio attività possano realizzasi le ristrutturazioni edilizie anche mediante demolizione e ricostruzione con le stesse volumetria e sagoma, ma deve pur sempre trattarsi di ristrutturazioni edilizie secondo la nozione elaborata dalla giurisprudenza con riferimento alla legislazione statale cui, com'è noto, sono riservate le norme di carattere generale e programmatico. Ed infatti, per qualificare come ristrutturazione un intervento edilizio, non appare sufficiente la circostanza che la ricostruzione avvenga con le stesse volumetria e sagoma: queste costituiscono, invero, i limiti entro cui deve essere contenuto l'intervento di ricostruzione, ma non
costituiscono gli elementi qualificatori dell'intervento il quale non dovrà presentare modifiche di entità e consistenza tali da trasformare il preesistente edificio in uno oggettivamente diverso; in tale ultima ipotesi, invero, si tratterà di "nuova
costruzione" piuttosto che di ristrutturazione (cfr.: Cons. St., Sez. V, n.98 del 1999, n.921 del 1998 e n.451 del 1995, citate).
Né conduce a diverso avviso la previsione di cui all'art.30, lett. e), cit. della legge urbanistica regionale, come interpretata da questo stesso TAR (sent. n.1182 del 2002 cit.), giacchè gli aumenti ivi ammessi costituiscono, nella Regione Abruzzo, i limiti
entro cui deve essere contenuto l'intervento di ricostruzione, ma non costituiscono gli elementi qualificatori dell'intervento di ristrutturazione edilizia.
Per le argomentazioni che precedono il ricorso in esame deve essere accolto nella parte in cui censura il comportamento del Comune di Montesilvano per non aver interdetto l'intervento edilizio di che trattasi, intervento che non può essere realizzato in
base a semplice denuncia di inizio attività così come, invece, risulta attualmente intrapreso. Da tanto consegue l'assorbimento degli altri motivi di ricorso non esaminati (sopra riassunti in "fatto").
Giova, peraltro, in questa sede chiarire (poiché le parti in causa hanno molto dibattuto la questione) che il concetto di "sagoma", ai fini della ristrutturazione edilizia, risulta interpretato dalla giurisprudenza come aspetto tridimensionale di un edificio, quindi
comprensivo anche dell'altezza (cfr.: Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 1994 n.112; 24 febbraio 1999 n.197; TAR Pescara n.1182 del 2002 cit., laddove a pagg.7-8, interpretando la portata dell'art.30, lett. e, della legge reg. n.18 del 1983, nell'asserire che non
occorre il rispetto integrale della sagoma esistente, ritiene possibile anche sopraelevare l'edificio preesistente che sia stato demolito), sicchè la norma dello strumento urbanistico che (come nel caso del Comune di Montesilvano) intenda per sagoma
"quella all'interno dell'area di sedime dell'immobile non eccedente quella planimetrica" s'appalesa illogica nel non considerare le altre dimensioni fra cui l'altezza.
Giova, altresì, in questa sede solo ricordare (poiché non sono note, allo stato, le relative particolarità costruttive) che la distanza di m.10 tra pareti finestrate rappresenta quella minima inderogabile prestabilita dall'art.9 del D.M. 2 aprile 1968 n.1444, decreto
che, in quanto emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art.41 quinquies della L. 17 agosto 1942 n.1150, introdotto dalla L. 6 agosto 1967 n. 765, ripete dal rango della stessa legge delegante la forza di norma legislativa capace di integrare l'art.872 cod.civ..
Tanto comporta che, in presenza di contrasto tra norma legislativa e norma regolamentare, deve ritenersi disapplicabile la seconda, giacchè, secondo la giurisprudenza, pur in difetto di specifica doglianza di parte, è consentito al Giudice
Amministrativo sindacare gli atti di normazione secondaria, incidenti su diritti soggettivi di terzi, al fine di accertarne l'idoneità ad innovare l'ordinamento e, in concreto, a fornire la regola di giudizio per risolvere la questione controversa (Cons. St., Sez.V,
26 febbraio 1992 n.154; 24 luglio 1993 n.799; 7 aprile 1995 n.531; Sez.IV, 29 febbraio 1996 n.222).
Peraltro, in tema di distanze tra costruzioni restano salvi i diritti dei terzi i quali, ove lesi dalla costruzione realizzata senza il rispetto delle disposizioni sulle distanze, conservano il diritto ad ottenere la riduzione in pristino (Cass., Sez.II, 13 ottobre 2000
n.13639). Pertanto, non risultando noto lo stato attuale della costruzione di che trattasi, né le definitive particolarità costruttive per quanto riguarda il rispetto delle disposizioni sulle distanze, il Collegio ritiene di non dover emettere, allo stato, alcun provvedimento ripristinatore (chiesto nelle conclusioni del ricorso).
Quanto alle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, il Collegio ritiene sussistenti giusti motivi per disporne una parziale compensazione tra le parti in causa, mentre per la restante parte seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo-Sezione Staccata di Pescara dichiara in parte inammissibile, nei limiti di cui in motivazione, il ricorso in epigrafe indicato e per la restante parte lo accoglie e, per l'effetto, dichiara illegittimo il comportamento del Comune di Montesilvano per non aver interdetto l'intervento edilizio di che trattasi.
Liquida in complessivi € 6.000,00 (seimila/00) le spese di giudizio, dichiarandole per un terzo (€ 2.000,00) compensate tra le
parti in causa, e condanna, in solido, le parti soccombenti al pagamento dei restanti due terzi (€ 4.000,00), in favore dei
ricorrenti in ragione di un quarto ciascuno, ponendo la somma di € 2.000,00 a carico del Comune di Montesilvano e la somma di €
2.000,00 a carico della s.r.l. General Buildings.
Depositata in data 23 gennaio 2003.