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Anfitrione |
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Aulularia |
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Bacchides |
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Casina |
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Tito (?) Maccio (?) Plauto
(Sarsina, Umbria 259/251 – Roma 184 a.C. ca)
P. si dedicò solo ad un unico genere letterario, alla composizione di commedie,
operando - grosso modo - una sintesi tra commedia greca nuova ed elementi
indigeni, attinti dalla farsa italica.
Sappiamo poco di P. uomo e le notizie che possediamo [A. Gellio e S. Girolamo IV
sec. d.C.] sono poco attendibili: nato come attore di successo, avrebbe
investito malamente il capitale in commercio, ricoprendosi di debiti e
costringendosi a guadagnarsi da vivere in un mulino girando la macina.
In questo periodo cominciò a comporre commedie, fra cui il "Saturio" ("Il pancia
piena") e l’ "Addictus" (schiavo per debiti), che già dai titoli richiamano
gl'infelici rovesci personali; e una terza, dal titolo sconosciuto, che,
rappresentate con successo, furono l’inizio di una fortunata attività teatrale
durata oltre un quarantennio: alieno della politica, ma non insensibile agli
avvenimenti del tempo [la sua produzione si svolse, del resto, praticamente
durante la II guerra punica], visse interamente della sua arte, praticata con
instancabile fervore creativo: egli, insomma, scriveva per vivere, la sua
scrittura era non più che mera professione.
Inoltre, Cicerone, nel "De senectute", afferma che P. compose da "senex" alcune
commedie fra cui lo "Pseudulus": nel 191 a.C., doveva essere quindi già vecchio.
Sempre Cicerone, nel "Brutus", ci rivela l'anno della sua morte.
I codici, che contengono le commedie di P., ci hanno tramandato il suo nome
completo, Tito Maccio P.. Ma "Tito" e "Maccio" sembrano fittizi: "Maccio",
infatti, deriverebbe dall'omonima maschera atellana; lo stesso termine "Plautus"
può significare o "piedi piatti" oppure "orecchie lunghe e penzoloni". Molto
probabilmente, quindi, si tratta di nomi d’arte che P. aveva usato durante
l’attività di attore.
La palliata come genere misto
Nel III sec a.C. si componevano di più palliate che togate, in quanto
maggiormente gradite al pubblico: la palliata fungeva da cerniera tra i modelli
attici del IV sec. a.C. (la commedia attica nuova di Menandro) e gli influssi
popolari del teatro italico. I primi erano caratterizzati da canoni ben
definiti, i secondi lasciavano maggior spazio all’inventiva degli attori in
scena.
Plauto riuscì a mediare i due modelli (greci ed italici), usando temi greci,
lasciando però anche buona parte della resa alla capacità dell’attore.
Metro e musica
La commedia attica nuova non contemplava parti cantate, ma solo versi recitati
(semmai versi più lunghi accompagnati da flauto). Plauto introduce sia parti
recitate (chiamate diverbia), sia parti cantate (dette cantica), riadattando le
forme metriche secondo l’uso che abbisognava (questa pratica era già utilizzata
nel teatro italico italiota ed in quello greco-ellenistico, dove musicavano le
parti non liriche dei testi di Menandro ed Euripide).
Dal punto di vista metrico in Plauto si riscontra l’aspetto dei “numeri innumeri”,
cioè la quantità infinita di metri usati nei cantica (parti cantate). Tale
capacità non è riscontrabile in Terenzio e negli autori successivi di commedie.
Numero degli attori, uso della maschera, ruoli di base
La commedia attica nuova era svolta da tre attori, i quali rappresentavano
diversi personaggi, anche interpretati da diversi attori (ad esempio Maccus
poteva essere interpretato da più attori nella stessa rappresentazione). Plauto
invece, sulla base delle atellane, affida la parte di un personaggio ad un solo
attore, il quale poteva svolgere anche altri personaggi. Ciò causava la rottura
del canone dei tre personaggi e la presenza di attori specializzati ad
impersonare un personaggio (ogni attore così era specializzato a svolgere la
parte del senex o della matrona o del servo…).
In Plauto manca la maschera, tuttavia gli attori si truccano. Questa tesi si
fonda sull’analisi comparata delle entrate e delle uscite dei personaggi, i cui
tempi della palliata plautina erano almeno doppi rispetto alla commedia
menandrea (dove si usava la maschera). Anzi, i tempi di pausa per il trucco o il
cambio di vesti erano adeguati alla difficoltà dei cambiamenti stessi: poco se
un attore passava da un personaggio maschile ad un altro maschile, più lunghi se
da maschile a femminile (si ricordi che non recitavano le donne). Inoltre non
esistevano le pause fra gli atti, le quali sono state aggiunte in età
umanistica.
Rispetto alla commedia attica nuova la palliata romana aveva meno ruoli fissi,
che potevano essere arricchiti dalla creativa interpretazione dei personaggi.
I personaggi plautini:
§ Senex, generalmente custode dei mores, tirchio, ostile al figliastro e alla
moglie (la quale generalmente lo domina);
§ Adulescens, sempre innamorato e “al verde”;
§ Meretrix, la donna maliziosa di cui l’adulescens si innamora;
§ Leno (=ruffiano), il protettore da cui dipende la meretrix;
§ Servus, astuto oppure allocco del padrone;
§ Ancilla, al seguito della matrona o della meretrix;
§ Matrona, moglie del senex e sua nemica;
§ altre figure minori: sicofante (lo spione), il miles gloriosus (lo spaccone),
il parassito (lo spiantato venduto), il puer ( lo schiavetto).
Scena e retroscena
La scena romana era simile a quella della commedia attica nuova ateniese: la via
di destra che portava ad forum, quella di sinistra ad portum oppure ad rus. Al
centro vi era la casa del protagonista, mentre le uscite laterali della scena
(dette angiporta) portavano a viuzze secondarie. Talvolta era presente anche
l’altare, come avveniva istituzionalmente in Grecia (vedi in Plauto la
Mostellaria).
Poiché gli attori plautini recitavano la parte di uno o più personaggi, senza
però che altri li potessero sostituire in un atto, occorreva più tempo per i
cambiamenti di ruolo. Perciò Plauto dovette facilitare questo cambio sia
ritardando l’ingresso del personaggio (di cui l’attore stava assumendo le
sembianze nel retroscena), sia facendo entrare o uscire un attore dalla stessa
porta o da quella più vicina (in modo che l’attore non perda tempo nel muoversi
in retroscena).
Strutture semplici delle trame
La tragedia e la commedia poggiano su uno schema elementare: A vuole conquistare
C, ma è ostacolato da B (ovvero l’antagonista). C è solitamente il denaro o la
donna (in particolare quest’ultima, perché legata alla sopravvivenza della
stirpe nobile). Il lieto fine matrimoniale è caratteristica fissa della commedia
(dove il racconto è incentrato sugli eventi prima del matrimonio); mentre la
tragedia si occupa di ciò che avviene dopo il matrimonio. Nella commedia attica
nuova il contrasto tra A e B serviva ad evidenziare i caratteri dei personaggi,
mentre in Plauto l’inganno balzava in primo piano: i caratteri fissi dei
personaggi non sono analizzati, ma costituiscono il pretesto per acuire la VIS
COMICA, elemento centrale e scopo della commedia plautina.
La coerenza e la verosimiglianza della commedia attica non si ritrovano in
Plauto, perché non è importante il personaggio ma l’inganno (anche fantastico).
Metateatro
Rispetto alla commedia attica nuova, Plauto, al fine di sottolineare la
vicenda-beffa, aggiunge al modello greco nuovi personaggi o potenzia personaggi
minori, grazie alla contaminatio (cioè l’inserzione di materiali tratti da altri
copioni).
La struttura delle vicende plautine è chiastica (detta anche struttura
circolare): si presenta il personaggio A, appoggiato da B, che per primo subisce
la beffa (B1) ed infine tocca ad A1
A appoggiato da B che, beffato, è B1 poi A, beffato, è A1
Spesso quindi Plauto costituisce delle coppie antagoniste: ad esempio nella
Casina il senex innamorato, aiutato dal servo Olimpione, vanno contro Eutinico
(l’adulescens figlio del senex e rivale in amore), aiutato dallo scudiero
Calino.
Plauto quindi mette in scena anche 4 personaggi-attori ( e non più il limite
menandreo di 3 attori), senza però dar loro la parola in maniera consistente
nella stessa scena a tutti e quattro. Infatti Plauto preferisce alternare il
monologo al dialogo, poi il dialogo a due col dialogo a tre,…
Da quest’incontro-scontro gli attori si rappresentano e parlano dell’attività
drammaturgica, cioè della creatività dell’autore, si rappresentano. Tale
manifestazione è detta metateatro. Gli attori infatti evidenziano con le loro
battute la creatività dell’autore e la sua originalità rispetto agli autori
precedenti.
L’elemento originale plautino è la centralità della beffa: nella commedia attica
nuova la beffa era progettata ed attuata ai danni di qualcuno (A®B); in Plauto
gli stessi attori pensano di essere più furbi e di danneggiare gli altri attori,
tuttavia in questo beffeggiano se stessi. Si deve ricordare infatti che l’autore
predisponeva le parti, ma spettava agli attori creare movimenti e scena; in
questa creatività si gioca la libertà degli stessi attori.
La beffa plautina inoltre avveniva per “doppi”: gemelli simili confusi l’un
contro l’altro, coppie doppie di ruolo ( due senes, due adulescentes,…), doppi
creati da quiproquo (ad esempio nelle Bacchides).
Metafora e vocazione musicale
Mentre Menandro era avaro di metafore e di creatività verbale, Plauto sviluppa e
intreccia le metafore e le immagini: esse costituiscono un “filo rosso” (cioè un
filo conduttore) in tutta la commedia, incanalano le esuberanze e il disordine
della scena. Le metafore predilette da Plauto riguardano l’intrigo e lo scontro,
perciò troviamo truppe e generali, schieramenti, vincitori e sconfitti. Molto
frequente anche la metafora della “machina”, che sta per la macchina da guerra o
per l’intrigo (la macchinazione della vicenda). Ad esempio Odisseo e il cavallo
di legno è richiamato nelle Bacchides: l’autore dell’intrigo è architetto della
machina, ma la machina è anche lo stesso cavallo di legno.
Un’altra sfera di metafore riguarda l’ambito erotico, frequentemente legato alla
contesa per la donna amata: le sconfitte sono prigioni d’amore, la spada è il
fallo sguainato.
Altri nuclei metaforici: il cibo (chi inventa gustose cene è lo stesso
architetto della beffa); la bastonatura (il senex perde il bastone, il soldato
la spada); il bere (l’ubriachezza è sinonimo di sogno e illusione); il profumo
(il nome Casina significa donna dal profumo di cannella, con riferimento alle
brame erotiche del senex).
Anche i valori e disvalori della repubblica diventano metafora dell’uomo qual è,
non quale dovrebbe essere: infatti Plauto non inscena personaggi ideali ma
reali, con i loro difetti e le loro ipocrisie. A tal riguardo il mondo di Plauto
è rovesciato: i nobili e i grandi subiscono spesso gli intrighi dei piccoli
(spesso del servus), per mettere a nudo i difetti dei grandi.
Alcuni affermano che Plauto sapesse usare solo il sermo familiaris, dove
primeggiano termini popolareschi e gergali; tuttavia l’uso abbondante di
metafore, la cura dello stile e del lessico adeguato alla situazione, la
presenza di una voluta patinatura d’arcaismo, fanno pensare che Plauto avesse
una lucida coscienza dell’uso di tutti gli stili, anche di quello familiare
(secondo il Paratore Plauto sembra guardare dall’alto questo mondo espressivo).
Le commedie: titoli, autenticità e possibili "ordinazioni".
Alla sua morte, entrarono in circolazione tutta una serie di commedie a suo
nome, molte delle quali rivelatesi in seguito dei falsi. Nel I sec. a.C., ne
circolavano addirittura 130 titoli. Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio
Varrone, le studiò ("De comoedis Plautinis") e le suddivise in tre gruppi:
- 21 certamente plautine (dette appunto "Fabulae Varronianae");
- 19 di attribuzione incerta
- tutte le altre considerate spurie.
L’autorità di Varrone fu tale che si continuarono a ricopiare solo le 21
autentiche. Tuttavia, da varie testimonianze degli antichi, si è indotti a
pensare che esistessero altre commedie sicuramente plautine, e oggi perdute:
quali "Commorientes", "Colax", "Gemini lenones", "Condalium", "Anus", "Agroecus",
"Faerenatrix", "Acharistio", "Parasitus piger", "Artemo", "Frivolaria", "Sitellitergus",
"Astraba".
Attraverso le relative "didascalie" (ossia brevi notizie che i grammatici
solevano dare, valendosi delle indicazioni trovate nei copioni delle compagnie
drammatiche, intorno alla prima rappresentazione, alla sua esecuzione e al suo
esito), sappiamo la data di composizione solo dello "Stichus" (200 a.C.) e dello
"Pseudulus" (191 a.C.): la cronologia delle altre è definibile solo in base ad
elementi interni, ipotizzando un’evoluzione del suo teatro dalla "farsa" ad una
specie di "opera buffa" (va però detto che nessuna ipotesi evolutiva generale
s’è affermato nettamente e definitivamente).
Provando comunque ad azzardare un ordine cronologico, questo potrebbe essere: "Asinaria"
(212), "Mercator" (212-10), "Rudens" (211-205), "Amphitruo" (206), "Menaechmi"
(206), "Miles gloriosus" (206-5), "Cistellaria" (204), "Stichus" (200), "Persa"
(dopo il 196), "Epidicus" (195-4), "Aulularia" (194), "Mostellaria" (inc.), "Curculio"
(200-191?), "Pseudolus" (191), "Captivi" (191-90), "Bacchides" (189), "Truculentus"
(189), "Poenulus" (189-8), "Trinummus" (188), "Casina" (186-5); in più la "Vidularia"
pervenuta assai mutila. Ovviamente, per quanto detto, le date riportate a fianco
ai titoli sono passibili di molti dubbi, essendo risultato di mere supposizioni.
Si ricordi inoltre che, nei codici, le commedie sono disposte in ordine
pressoché alfabetico.
Trame. [vers.lat]
"Amphitruo" (Anfitrione), l’unica a soggetto mitologico: Giove, invaghitosi di
Alcmena, le si presenta sotto le spoglie del marito Anfitrione, impegnato
intanto in guerra, e trascorre con lei una lunga notte d’amore. Mercurio
accompagna Giove e sta di guardia, assumendo le sembianze di Sosia, servo di
Anfitrione. Mentre Giove giace con Alcmena, ritorna però Anfitrione, che si fa
annunciare da Sosia il quale, a sua volta, arrivato alla reggia, s'incontra con
Mercurio suo alter-ego. Da questa situazione nascono una serie di inevitabili
equivoci.
"Asinaria" (La commedia degli asini) Il giovane Argirippo è innamorato di
Filenio, figlia dell’avara Cleareta che pretende in giornata la somma di venti
mine, altrimenti darà la figlia al rivale Diabolo. Sarà lo stesso padre a venire
in soccorso di Argirippo, incaricando due servi di casa di procurarsi il denaro
a danno della sua ricca e avara moglie. Uno dei servi fingerà di essere
l’amministratore della padrona e riuscirà a riscuotere le venti mine che un
mercante deve a quella per l’acquisto di certi asini. La commedia [dall' "Onagos"
di Demofilo] è giunta assai mutila e con un certo numero di contraddizioni
interne.
"Mercator" (Il mercante). E’ la commedia della rivalità tra Demifone e Carino -
padre e figlio - per una bella schiava, Pasicompsa, che Carino ha condotto da
Rodi dove si era recato per commercio. Demifone - che ha avuto un sogno
premonitore della vicenda - fa comprare al porto la fanciulla dall’amico
Lisimaco, che la dovrà custodire in casa sua per un giorno, profittando
dell’assenza della moglie Dorippa. Ma questa ritorna, l’equivoco deve essere per
forza spiegato e il vecchio Demifone cede il posto al figlio. Deriva dall’ "Emporos"
di Filemone.
"Rudens" (La gomena). Un lenone, dopo aver promesso una bella fanciulla ad un
giovane innamorato di lei, da cui ha ricevuto un lauto anticipo, decide di
fuggire velocemente durante la notte per sfruttare altrove la ragazza. Ma la
tempesta fa naufragare la nave, che ributta sulla riva i partenti. La ragazza si
rifugia con la propria ancella nel tempio di Venere, a poca distanza dal quale
vive un uomo a cui un tempo è stata rapita la propria figlia. Segue naturalmente
il riconoscimento: la ragazza, sottratta all’avido lenone, può finalmente
riabbracciare il padre e sposare il suo innamorato.
Derivata da una commedia di Difilo, quest'opera si svolge in un’atmosfera e in
un ambiente diversi da quelli di tutte le altre: basti dire che la scena,
anziché la solita piazzetta su cui s’affacciano le case dei principali
personaggi, ci presenta una spiaggia battuta dal mare in tempesta, e un ambiente
di pescatori che vivono di stenti, com’è detto nel coro ch'è al principio del II
atto (importante perché è l’unico coro che si trovi nella Commedia latina).
Quanto all’atmosfera, il comico è quasi del tutto assente nel "Rudens", in cui
predomina al contrario un tono tra il patetico e il solenne, che sfiora in
qualche punto la tragedia.
"Menaechmi" (I Menecmi) E’ la gioiosa commedia degli equivoci dovuti
all’incredibile somiglianza di due gemelli, Menecmo I e Menecmo II, separati fin
dalla fanciullezza. La vicenda si svolge ad Epidammo, dove Menecmo II è capitato
nel corso di un viaggio alla ricerca del fratello. Gli equivoci a ripetizione,
in cui sono coinvolti prima l’amica di Menecmo I, Erozio, ed il suo cuoco, poi
il parassita di Menecmo I, Penicolo, ed infine la moglie dello stesso,
conferiscono all’azione un’irresistibile tensione comica. Quando già i due
Menecmi sono ritenuti pazzi e ci si rivolge ormai ai medici, essi si trovano
l’uno dinanzi all’altro davanti alla casa di Erozio e tutto si chiarisce. La
lunga serie di peripezie rende questa commedia tra le più animate del teatro
classico: un susseguirsi ininterrotto di saporose battute, di botte e risposte,
di capovolgimenti di situazioni, senza un solo attimo di stasi. Benché non si
conosca l’originale greco da cui essa sia derivata, si sa che una non piccola
schiera di commediografi greci (Menandro, Antifane, Posidippo, per non citare
che i più noti) s’ispirò a questo motivo dell’identità di due persone. Del
resto, il motivo non è nuovo neppure in P.: si pensi solo al Mercurio-Sosia e al
Giove-Anfitrione dello stesso Amphitruo.
"Miles gloriosus" (Il soldato fanfarone). Il giovane Pleusicle ama la bella
Filocomasio. Durante un’assenza del giovane, la ragazza viene rapita dal "miles"
Pirgopolinice, un soldato smargiasso e fanfarone, a cui il parassita Artotrogo
fa credere di essere irresistibile con le donne. Palestrione, servo di Pleusicle,
parte per avvertire il padrone di ciò che è accaduto, ma viene rapito dai pirati
e finisce per essere donato proprio al miles. Pleusicle, avvertito di nascosto
da Palestrione, si fa ospitare da Pericleptomeno, un amico del padre, in una
casa contigua a quella stessa del miles. Palestrione pratica una breccia nel
muro di confine tra le due case, consentendo agli amanti di incontrarsi. Ma
Sceledro, servo del miles, li scorge mentre si baciano, e costringe Palestrione
a escogitare una serie di inganni per salvare i due amanti, fingendo che esista
una gemella di Filocomasio. Palestrione, poi, organizza una feroce beffa ai
danni di Pirgopolinice: gli fa credere che la moglie di Periplectomeno sia
pazzamente innamorata di lui; il miles, così, licenzia in un sol colpo
Filocomasio e Palestrione, dando loro la libertà, ma - entrato nella casa di
Periplectomeno per un appuntamento galante - trova un marito furibondo e i servi
pronti a fustigarlo ignominiosamente come adultero.
Gran parte della trama proviene dalla commedia greca "Alazon" ("Il
vanaglorioso"), ma è probabile che P. abbia largamente applicato la
"contaminatio" [per cui, vd. oltre], assumendo da un altro dramma il motivo del
foro nel muro e della sorella gemella.
"Cistellaria" (La cestella). Il giovane Alcesimarco ama Selenio, una trovatella
allevata da una cortigiana; ma il padre gli impone di sposare un’altra ragazza,
figlia del vicino Demifone, a sua volta alla ricerca di un’altra figlia avuta
molti anni prima da una donna e abbandonata in una cassetta con dei
contrassegni. Dopo varie vicissitudini, si scopre che la ragazza abbandonata è
Selenio, che ora Alcesimarco può sposare con l’assenso del padre. Nonostante una
lunga lacuna (più di seicento versi) l’intreccio di questa commedia è abbastanza
chiaro. L’originale greco sembra di Menandro.
"Stichus" (Stico). Due sorelle da tre anni non hanno più notizie dei loro
mariti, partiti oltremare per ricostituire un patrimonio in rovina. Il padre
vorrebbe farle risposare, ma le donne insistono per serbare la loro fedeltà. Non
manca un parassita, Gelasimo, che da tre anni patisce la fame. Giunge finalmente
in porto la nave dei due uomini, carichi di merci e di ricchezze. Assieme a loro
c’è anche il servo Stico, che organizza grandi festeggiamenti. I due mariti si
rappacificano con il vecchio suocero, soddisfatto del successo dei loro affari.
Solo il parassita non riesce a farsi invitare da nessuno, e comicamente continua
a restare deluso nella sua ormai annosa brama di cibo. "Stichus" deriverebbe
dall’ "Adelphoe" di Menandro.
"Persa" (Il persiano). Il servo Tossilo riscatta dal lenone Dordalo una ragazza
che ama. Poi traveste da orientale la figlia di un parassita e finge di venderla
allo stesso Dordalo, che cade nel tranello. La somma ricavata serve a cancellare
il debito iniziale. Il parassita trascina in tribunale il lenone, reo di aver
comprato una ragazza libera. La commedia si conclude con una grande festa,
durante la quale Dordalo viene beffato e bastonato per la sua insipienza e
Tossilo può giustamente trionfare. E', per definizione, la "commedia degli
schiavi", dei quali P. ha saputo ritrarre linguaggio, licenziosità e malizie.
"Epidicus" (Epidico). Il giovane Stratippocle s'innamora in due tempi diversi di
due cortigiane, affidando al "servus" Epidico l’incombenza di trovare ogni volta
il denaro necessario a riscattarle. Epidico riesce ripetutamente ad ingannare il
vecchio Perifane, padre di Stratippocle, carpendogli il denaro di cui ha
bisogno. Ma quando i suoi raggiri stanno per essere scoperti, una delle due
ragazze viene riconosciuta figlia di Perifane e sorella di Stratippocle, che
ripiega dunque sull’altra cortigiana mentre Epidico viene affrancato per meriti
d’ingegno.
L’intreccio è più complicato del solito. Ma l’interesse della commedia sta
soprattutto nella figura d’Epidico: il più abile, astuto, diabolicamente scaltro
dei servi che il teatro abbia mai dato.
"Aulularia" (La commedia della pentolina). Un vecchio avaro, Euclione, ha
trovato in casa sua una pentola piena di monete d’oro. Per timore che gliela
possano rubare, egli la nasconde nel tempio della Buona Fede e successivamente
nel bosco di Silvano. Ma Strobilo, servo del giovane Liconide, avendo seguito le
sue mosse, se ne impadronisce. Il vecchio è fuori di sé dalla disperazione,
tanto più che Liconide confessa di aver messo incinta Fedria, sua figlia, che
egli aveva invece promessa in sposa al vecchio Megadoro, suo vicino. Qui la
commedia si interrompe, ma la conclusione è scontata: in cambio dell’oro,
Euclione concede la mano della figlia a Liconide, che a sua volta darà la
libertà al servo Strobilo.
L’originale greco è ignoto, ma è probabile che fosse una commedia di Menandro in
cui l’avaro aveva nome Smicrine.
"Mostellaria" (La commedia del fantasma). Mentre il padre Teopropide, un ricco
mercante di Atene, è assente da lungo tempo per affari, il giovane Filolachete
si dà alla pazza gioia assieme all’amico Callidamate, assistito dall’ingegnoso e
sfrontato servus Tranione, che ha anche dovuto procurarsi un prestito rilevante
per riscattare la bella Filemazio, una cortigiana amata dal padroncino. Torna
inaspettatamente il padre, mentre è in corso un gran banchetto. Tranione spranga
la porta, e per impedire a Teopropide di entrare inventa che la casa è abitata
da un fantasma. Giunge nel frattempo un usuraio per riscuotere un credito, e
Tranione è costretto ancora a mentire, affermando che il denaro è servito a
comprare un’altra abitazione. Teopropide chiede di vederla, e il servo escogita
nuovi geniali trucchi per mostrargliela, ingannando anche il vero proprietario.
Infine la verità viene a galla, e solo l’intervento di Callidamate che promette
di soddisfare personalmente a ogni debito, salva Tranione dall’irosa furia di
Teopropide.
Si pensa che la "Mostellaria" derivi dal "Phasma" di Filemone o di un autore
minore, Teogneto.
"Curculio" (Gorgoglione o Pidocchio). Il giovane Fedromo è innamorato della
cortigiana Planesio e cerca di riscattarla dal lenone Cappadoce con l’aiuto di
Pidocchio. Il parassita, che veste anche la parte del "servus currens", scopre
che un miles ha già comprato la ragazza, e ha depositato presso un banchiere la
somma pattuita: tale somma verrà pagata a chi presenterà una lettera sigillata
con l’anello del soldato. Pidocchio, travestito da soldato, si impadronisce ai
dadi dell’anello, confeziona una falsa lettera e riscatta la ragazza. Nel
frattempo, sul palcoscenico sale l’impresario della compagnia recitante,
timoroso di non rivedere più il vestito che ha prestato a Pidocchio.
Sopraggiunge furibondo il soldato, ma Planesio identifica nell’anello del miles
quello che era solito portare il padre, dal quale era stata un giorno rapita: il
soldato viene riconosciuto come suo fratello, e Fedromo può felicemente sposare
la donna.
La commedia prende il titolo dal parassita protagonista Gorgoglione, il cui nome
è tutto un programma d’insaziabile voracità: il "curculio" è, infatti, il verme
roditore del frumento. Il "Curculio" contiene, inoltre, la famosa "serenata dei
chiavistelli " (atto I, scena III), che il giovane Fedromo rivolge alla porta
dell’amata, perché dischiuda i suoi battenti.
"Pseudolus" (Pseudolo). Il giovane Calidoro ama la cortigiana Fenicio, che il
lenone Ballione ha già venduto ad un miles per venti mine: quindici anticipate,
più cinque che un messo del soldato sborserà entro la sera. Calidoro si affida
all’ingegno furfantesco e creativo del servus Pseudolo(= ingannatore), che si
mette all’opera, sgominando progressivamente ogni ostacolo e vincendo
addirittura un’impossibile scommessa con Simia, padre di Calidoro. Ballione
perde la ragazza, è costretto a restituire il denaro al messo del miles e a
sborsare per giunta altre venti mine a Simia per un'altra scommessa perduta.
La commedia, una delle predilette dall'autore stesso, è ben costruita e rivela
la grande arte di P., nonché l’abilità dell’autore (ignoto) dello stesso
originale greco.
"Captivi" (I prigionieri). Durante una guerra fra Elei ed Etoli, il ricco Egione
ha perso il figlio, fatto prigioniero dagli Elei. Per riscattarlo, acquista dei
prigionieri Elei, con lo scopo di operare uno scambio. Fra di essi, c’è il
nobile Filocratre con il servo Tindaro, che hanno tuttavia deciso di scambiare
le parti. Credendo di inviare in Elide il servo, Egione manda invece il padrone.
Scoperto l’inganno, getta in catene il povero Tindaro. Ma Filocrate ritorna con
il figlio di Egione ormai libero; in aggiunta, si scopre che anche Tindaro è
figlio di Egione, rapito in tenera età e venduto come schiavo in Elide. "Captivi"
è una commedia "anomala" rispetto alle altre, priva com'è di vicende amorose e
fondata sul tema dell’amicizia e della lealtà: non compare alcuna donna,
particolare che in P. si ritrova solo nel "Trinummus".
"Bacchides" (Le Bacchidi). Due sorelle gemelle, entrambe di nome Bacchide ed
entrambe cortigiane, vivono l’una a Samo, l’altra ad Atene. Il giovane Mnesiloco,
di passaggio a Samo, s’innamora della prima Bacchide, di cui si impadronisce
tuttavia un ricco miles, che la conduce con sé ad Atene. Mnesiloco dà incarico
di recuperarla all’amico Pistoclero, che dopo averla trovata si fa sedurre dalla
seconda Bacchide. Mnesiloco, che crede di essere stato tradito dall’amico, dà
intanto al servo Crisalo l’incarico di trovare il denaro necessario per
riscattare l’amata: il servo per ben due volte riesce a spillar denaro al padre
di Mnesiloco. Gli equivoci si diradano e le situazioni sembrano risolversi
felicemente: i giovani Mnesiloco e Pistoclero si ritrovano a banchettare
allegramente con le due Bacchidi. Giungono però furenti i due padri, decisi a
trascinarsi a casa i figli gozzoviglianti, ma anch’essi vengono "tosati" dalle
due spumeggianti ragazze e si abbandonano assieme ai figli ad un allegro
festino.
Deriva dalle "Evantides" di Filemone o da "Il doppio inganno" di Menandro.
"Truculentus" (Truculento). La commedia, largamente lacunosa, prende titolo dal
nome del rustico e brutale schiavo Truculento di Strabace, un giovane fattore
che è vittima, insieme all’ateniese Diniarco e al soldato Stratofane, della
sfrontata cupidigia della cortigiana Fronesio. L’intreccio si lascia intravedere
appena. Fronesio vuol gabellare a Stratofane, come fosse suo figlio, un bambino
abbandonato, ma si scopre che quello è invece figlio di Diniarco e di una libera
cittadina ateniese.
"Poenulus" (Il cartaginese). Rapiti in tenera età nella loro patria, Cartagine,
vivono a Calidone di Etolia un giovinetto, Agorastocle, e le sue due cugine,
Adelfasio e Anterastile: ma se il giovinetto, innamorato di Adelfasio, è ricco,
le due fanciulle conducono invece una vita misera, in potere dello sfruttatore
Lico. Una ben architettata trappola, ordita da Milfione, servo di Agorastocle, e
recitata dal villico Collibisco, offre il modo di citare lo sfruttatore in
tribunale. Giunge frattanto da Cartagine, in cerca delle figlie scomparse, il
padre Annone: egli si incontra con Agorastocle ed è condotto da questi in casa
di Lico, dove può riconoscere e riabbracciare le figliole.
Modello della commedia è stato il "Carchedonios" di Menandro. Una prima
redazione del Poenulus doveva aver titolo "Patruos" (Lo zio). E' interessante
l'uso della lingua punica da parte del giovane protagonista.
"Trinummus" (Le tre dracme). Mentre il vecchio Carmide è in viaggio d’affari, il
giovane figlio Lesbonico continua a dissipare il suo patrimonio, e finisce per
vendere perfino la casa ad un altro senex, Callicle, che per fortuna è un leale
amico di Carmide, e decide di salvaguardare per il ritorno dell’amico un tesoro
sepolto nella casa. Nel frattempo un altro giovane, Lisitele, ama la sorella di
Callicle, e chiede di poterla sposare pur senza dote: Lesbonico, che è in fondo
un giovane di nobili costumi, non può accettare, e decide di affidare in dote
alla sorella l’ultima cosa che gli è rimasta, un podere fuori città. Per evitare
che tutto il patrimonio vada perduto, Callicle inventa allora uno stratagemma:
assolda un messo a cui, appunto per tre dracme, dà l’incarico di giungere in
città fingendo di portare per conto di Carmide una somma, che in realtà Callicle
ha prelevato dal tesoro. Carmide è inaspettatamente tornato, ed è proprio lui a
ricevere il finto messo. Gli equivoci e gli ingiusti sospetti sono dissipati dal
commovente incontro fra i due vecchi. La commedia si conclude con due matrimoni:
di Lisitele con la figlia di Carmide e di Lesbonico con quella di Callicle.
L’originale di Filemone prendeva titolo dal "tesoro" nascosto in casa.
"Càsina". Di Casina, una trovatella, si sono invaghiti il vecchio Lisidamo e il
figlio di lui, Eutinico. Essi hanno indotto, l’uno il proprio fattore, l’altro
il proprio scudiero, a chiedere la mano della fanciulla, per poterne poi essi
stessi disporre. Lisidamo, vistasi intralciare la strada dal figlio, lo spedisce
all’estero, ma la moglie del vecchio, che conosce le intenzioni del marito,
prende le parti del figliolo assente. Poiché Lisidamo e sua moglie non riescono
ad accordarsi, decidono di ricorrere alla sorte. Questa favorisce il fattore. Si
preparano le nozze, ma in luogo di Casina viene presentato come sposa Calino, lo
scudiero, travestito da donna, che, approfittando dell’oscurità della stanza in
cui viene condotto, bastona il fattore e Lisidamo.
Casina è certo tra le commedie più "libere", più comiche e più riuscite commedie
di P. . Deriva da una commedia di Difilo, "Clerumenoe", cioè "I sorteggianti".
"Vidularia" (La commedia del baule). I circa 120 versi superstiti di questa
commedia lasciano intravedere un intreccio simile al "Rudens": il giovane
Nicodemo viene riconosciuto dal padre per mezzo degli oggetti conservati in un
baule, scomparso in mare durante un naufragio e poi ritrovato da un pescatore.
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