"Otto questioni" di giustizia

I lucidi giudizi su chiesa, società e stato nell'opera di Guglielmo d'Ockham

di M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri

Notte fonda di primavera ad Avignone. È il mese di maggio del 1326 e l'inglese Guglielmo d'Ockham — che da quattro anni vive alla corte papale di Avignone in stato di semilibertà sospettato e poi condannato per alcune proposizioni eretiche contenute nella sua opera teologica — decide di fuggire. Non è solo: altri francescani come Michele da Cesena ministro generale dell'Ordine, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d'Ascoli sono con lui. Sfuggendo alle guardie di ronda, il gruppetto si cala lungo le mura massicce della cittadella e via verso un destino nuovo.

Con questo atto la scelta non può che essere definitiva: Guglielmo d'Ockham viene scomunicato un mese dopo per aver ignorato l'ordine papale di non allontanarsi dalla città. Un intellettuale che voleva ancora scrivere e "combattere con la penna" aveva allora una sola strada: l'inglese Guglielmo si rifugia insieme ai compagni italiani sotto la protezione dell'imperatore Ludovico IV il Bavaro venuto in Italia per affermare la legittimità del suo titolo contestato dal pontefice Giovanni XXII. Due anni dopo nell'aprile del 1328 l'imperatore dichiara deposto il papa avignonese accusato di essere "eretico notorio e manifesto" e assegna il titolo di pontefice con il nome di Niccolò V al francescano Pietro da Corvara. Guglielmo inizia la sua opera di scrittore imperiale collaborando con Michele da Cesena alla sentenza di deposizione di papa Giovanni XXII. La risposta del papa non si fa attendere e frate Michele viene deposto dalla sua carica di Generale dell'Ordine francescano.

I colpi fra i due avversari, papa Giovanni e l'imperatore Ludovico, si incrociano come in un duello: alla fine l'imperatore lascia Roma e si rifugia a Pisa dove l'inglese Guglielmo d'Ockham incontra l'italiano Marsilio da Padova già alla corte imperiale da due anni. Nell'inverno del 1330 quando l'imperatore Ludovico parte per la Baviera, lo segue un gruppo di intellettuali fra i quali appunto Marsilio da Padova e il nostro frate Guglielmo.

Fino ad allora Ockham a Oxford si era occupato di logica e teologia, d'ora in avanti i suoi scritti tratteranno sovente con vivace passione sempre con grande lucidità temi di teologia politica. Ma, come egli dice, "la retta ragione, accompagnata naturalmente dagli esempi dei santi e dalla carità, ci impone di dimostrare ogni cosa" anche a proposito della chiesa e della società cristiana. Per il francescano Ockham tutto questo porta necessariamente a una conclusione: la chiesa deve essere "povera" ossia priva di ricchezze e di dominio temporale e il papato un "servizio di carità" reso dai successori di Pietro alla comunità dei fedeli cristiani. In questa prospettiva la chiesa viene liberata dai vincoli del mondo, del denaro e del potere riacquistando tutta la forza di una congregatio fidelium, una comunità di pari non dominati da un'autorità coercitiva ma affratellati dall'amore cristiano.

Ma nella concreta dimensione storica e materiale gli uomini, indeboliti, dopo la caduta del peccato originale, nel corpo e nello spirito e segnati dalla terribile sequenza bisogno/violenza, vivono intollerabili situazioni di competizione e ingiustizia: tutto ciò richiede l'autorità del potere secolare. Il primo fine del potere politico è quindi la prevenzione e la repressione della violenza e della ingiustizia del più forte: l'antidoto istituzionale alla violenza generale e spontanea è la violenza della legge. Ockham ricorda sovente nelle sue opere che il potere politico o temporale riguarda solo i corpi e i beni materiali e che il suo scopo per così dire "negativo" deve limitarsi a conservare attraverso la legge uno stato di non conflittualità fra gli individui. Inoltre — ripete più volte — la realtà nella quale il potere politico si muove è variabile nel tempo e secondo i luoghi. Una caratteristica questa che non permette l'instaurarsi di una idealità politica valida in senso assoluto — utopica si direbbe anacronisticamente — e non ammette un Governo che sempre e ovunque sia l'ottimo e il più conveniente. Questo dice Ockham con sano e pragmatico "senso inglese" e aggiunge che ogni Governo è in funzione del popolo ossia dei governati, uomini liberi, e non dei governanti che hanno il dovere di provvedere al bene comune. Nel campo della religione la libertà dell'individuo è radicale e costitutiva della fede poiché la legge evangelica è "una legge di libertà". "Se fra tutti i cristiani — scrive Ockham — un uomo solo rimanesse saldamente ancorato alla fede costui avrebbe il diritto di disapprovare le dottrine erronee anche del papa caduto in eresia… Un uomo anche solo ha il diritto di sperare nella vittoria poiché questa non è una battaglia fra individui ma è la battaglia del Signore che è la verità".

Nelle Otto questioni, tradotte limpidamente e commentate con precisione da Francesco Camastra, tutte queste tesi sono espresse con la chiarezza e l'efficacia consuete, anche se con una moderazione che non esclude il coraggio. Vi si respira la sapienza logica dell'oxfordiano Venerabilis Inceptor, ma colpisce soprattutto come altrove la passione per i grandi temi affrontati: l'autonomia del potere politico e la "povertà e libertà" della chiesa. Il lettore troverà in questo testo così "medievale", costruito e sottile, sorprendenti ampi squarci di concretezza e "modernità". Qualche anno prima Ockham così scriveva: "Penso di aver contribuito in questi anni alla trasformazione dei costumi dei miei contemporanei in misura maggiore di quanto avrei potuto fare se rinunziando a questa lotta avessi discusso per quarant'anni di fila…". E aggiungeva che nel suo compito era indispensabile il ricorso alla "esperienza della realtà quotidiana".

 

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