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Wilhelm von Humboldt (1767- 1835)


Wilhelm von Humboldt ( da non confondere con l'altrettanto importante fratello, Alexander von Humboldt, scienziato, naturalista e geografo) rappresentò nella storia della filosofia tedesca una figura di confine e di trapasso tra il criticismo e l'idealismo, tra una apertura al costituzionalismo delle monarchie ed un vero e proprio liberalismo.
E ciò potrebbe apparire persino paradossale se si considerano i suoi incarichi governativi alle dipendenze del re di Prussia, e se si pensa che fu plenipotenziario della Prussia sia al Congresso di Praga, che precedette la caduta di Napoleone a Lipsia, che a quello di Vienna.
Certo, può rappresentare una sorta di mistero il fatto che un "progressista" si ritrovi a rappresentare il mondo della reazione e della restaurazione; non sarebbe comunque facile liquidare Humboldt con un giudizio di incoerenza totale tra idee e comportamenti. Essere contro Napoleone e le sue dinastie parentali imposte in mezza Europa non era, in fondo, la stessa cosa che essere reazionari. Ciò potrebbe spingerci a domandare se vi fu persino una sinistra antinapoleonica e se essa si riconobbe nelle alleanze che combattevano Napoleone. Risposta che non è facile dare. Ovunque vi erano ancora giacobini, specie in Francia. Ovunque vi erano anche giacobini pentiti, cioè consapevoli dei tragici errori compiuti, ma certo non pentiti del fondamento politico filosofico delle loro convinzioni, ovvero I diritti dell'uomo.
Forse bisogna guardare alla tragica esperienza spagnola, all'innaturale alleanza tra reazionari assolutisti e radicali liberali in funzione antifrancese per avere una pista più sicura delle altre. La guerriglia antinapoleonica in Spagna ebbe indubbiamente anche connotati di sinistra, a conferma del fatto che da qualche parte l'impostore era stato smascherato.
Anche, in Inghilterra, ad esempio, si potrebbe riscontrare qualcosa del genere. Dietro alle bandiere di sua maestà marciavano anche radicali e liberali convinti, tories e whigs compatti. Ma in generale, l'idea che Napoleone rappresentasse in qualche modo una sorta di vento della libertà era molto più popolare di quanto si tende a credere oggi. Molto probabilmente fu la paura di Napoleone, a scuotere i vecchi regimi ed a far nascere una apparenza di politica riformatrice per contrastare la ventata rivoluzionaria, prima ancora che la sostanza imperiale, per non dire imperialistica, della politica napoleonica si rivelasse qual era.
L'Europa era uscita squilibrata, smembrata e persino umiliata dalle vittoriose campagne napoleoniche. Ma i troni non erano stati abbattuti, ma solo rioccupati da inetti parenti e dai marescialli avidi di potere e gloria del Bonaparte. L'esempio di Gioacchino Murat, re di Napoli per la durata di un battito di ciglia, è forse il più conosciuto, ma i destini di Bernadotte, di Ney, di Massena e di altri ancora non sono meno istruttivi. Ciò senza nulla togliere al valore dei tentativi di rinnovamento delle strutture statali, civili e penali introdotti da Napoleone. L'istituto delle prefetture, ad esempio, non si può propriamente considerare nè di destra, nè di sinistra.
Rispondeva ad un certo modo di concepire lo stato che diminuiva i diritti e le responsabilità delle autonomie locali, riduceva i poteri dei sindaci o borgomastri, che dir si voglia, e che comunque aumentava i poteri di controllo dell'autorità centrale.
Strumento neutrale per eccellenza, l'organo della prefettura poteva e può essere utilizzato sia per reprimere la libertà in uno stato tirannico, sia per reprimere gli oppressori locali in uno stato libero.
E' singolare che in Prussia, contemporaneamente, accadesse il contrario, come vedremo. Ma sarebbe illusorio credere che questo contrario fosse determinato da una ventata di illuminismo tardivo eppure saggio.
Le riforme prussiane ripondevano in larga misura all'esigenza di costruire un legame più forte tra sudditi e sovrano, a rinsaldare l'unità interna e la forza degli eserciti nella situazione d'emergenza determinata dal fenomeno Napoleone.
Tutto questo non vuol dire che von Humboldt fu parte di questa risposta calcolata. Egli credeva davvero nel liberalismo, più da filosofo che da politico, ma come politico egli saltò sulla barca delle riforme prussiane con una forte carica idealistica.

Per un giudizio più maturo su von Humboldt come politico si dovrebbero pertanto valutare i suoi comportamenti concreti, considerare che fu prigioniero di una situazione più grande delle sue possibilità pratiche, e capire quali erano gli obiettivi di sviluppo politico alla sua reale portata. Egli si battè per la riunificazione politica della Germania in chiave federalista, ed in questo si ritrovò persino in una sorta di artificiosa sintonia con Metternich, almeno fino alle battute centrali del Congresso di Vienna.
Quando, deluso dal corso ultrarealistico degli avvenimenti, si trovò al tappeto, sappiamo che egli cercò di sottrarsi al compito di servire lo stato prussiano, e che, in definitiva, egli risultò in questo del tutto coerente con la sua idea di stato minimo, e di stato inattivo sul piano economico ed ideologico.
La Prussia degli inizi dell'ottocento aveva cominciato a cambiare profondamente sul piano interno, grazie alla riforma di von Stein del 1807. Non era più solo un paese di feudatari, gli junker, che ancora dominavano la parte orientale del paese, la Pomerania in particolare; essa era diventata uno stato di diritto a metà: mentre il centro era sotto il totale controllo di una burocrazia aristocratico-militare, le comunità amministrative disegnate da von Stein erano strutturate in modo da incentivare la democrazia e, persino, la partecipazione popolare. Ed era questo che aveva acceso le speranze liberali di von Humboldt e lo aveva indotto ad accettare l'incarico di progettare e realizzare l'università di Berlino. Essa rappresentava il coronamento della libertà d'impresa: da un lato l'impresa economica, finalmente liberata dai vincoli feudali, poteva dispiegarsi pienamente; dall'altro, con l'Università, veniva a delinearsi la libertà d'impresa scientifica e culturale, ovvero la possibilità stessa di un decollo tedesco sotto la guida di Berlino, ovvero della Prussia.

In tale quadro,von Humboldt teorizzò la sua filosofia centrata sulla piena realizzazione dell'individuo come espressione di un generale ed astratto spirito umano in un modo che insieme lo avvicinò e distanziò in misura notevole da Hegel: mentre questi, infatti, vedeva lo spirito realizzato nello stato etico, in un modello che lo accostava più a Napoleone che ai timidi liberali tedeschi, von Humboldt fu, per tutta la vita, coerentemente convinto della necessità di restringere i compiti e le competenze dello stato, e quindi di considerare l'organizzazione statale unicamente come garante della giustizia e della sicurezza interna e come baluardo contro gli attacchi esterni. Vide la costruzione della Germania unita essenzialmente come un processo federalista; escluse ogni ingerenza dello stato nella vita privata dei cittadini e, quindi, affermò che non era compito dello stato promuovere il benessere economico, la vita morale e le confessioni religiose.
Sotto questo aspetto, anzi, avvertì sempre della fondamentale differenza tra stato e nazione, anche in ragione del fatto che i confini dello stato prussiano non coincidevano con quelli della nazione germanica, e sostenne che non toccava allo stato costruire la nazione, ma che essa doveva svilupparsi autonomamente e spontaneamente, germinando dai cuori e dalle coscienze, non imposta per decreto, ma conseguenza del libero accordo e comune sentire ( e parlare, comunicare, visto poi il grande interesse di Humboldt per le lingue ed i linguaggi), oltre che dagli interscambi commerciali e dalle necessità pratiche.
Nulla di peggio, per von Humboldt, che si manifestasse una filosofia di stato, dunque, in termini moderni, una ideologia di stato e, di conseguenza, uno stato totalitario.
In von Humboldt vi era la limpida convinzione che tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro classe sociale, non fossero più da considerare come sudditi, ma come cittadini a pieno titolo, anche se il termine cittadino non aveva per lui lo stesso significato astrattamente razionale assunto nella rivoluzione francese dalla parola citoyen.
Queste idee, ovviamente, non nascevano dal nulla, o dal solo genio solitario di Humboldt ma, furono il frutto di una rielaborazione di fermenti già esistenti nella filosofia e nella società civile dei vari staterelli tedeschi.
Uno studio molto interessante su questo argomento è Alle origini dell'ideologia tedesca di Nicolao Merker (Laterza, Bari, 1977)
Il lavoro evidenzia accanto a situazioni già note, al punto da diventare luoghi comuni come quello dell'arretratezza tedesca rispetto alla vivace brillantezza intellettuale francese ed allo sviluppo tecnico-industriale e commerciale dell'Inghilterra, scenari per nulla scontati e, sotto un certo profilo sorprendenti.
Nel campo delle dottrine politiche, accanto ad un pensiero liberale molto moderato come quello di Kant, ed anche di Schiller, Wieland, Herder, esistevano democratici e "giacobini" molto più decisi nella critica sociale e politica, anche se non altrettanto risoluti nell'azione politica.
Così descrive Merker lo scenario alla fine del '700: « Molto schematicamente e come iniziale ipotesi di censimento si possono distinguere tre gruppi e schieramenti: 1) la corrente liberale genericamente antidispotica i cui rappresentanti, pur avendo in precedenza parteggiato, o al limite continuando ancora a parteggiare per una soluzione di monarchia illuminata, danno una adesione almeno teorica o morale all'89 mentre poi, di fronte alla repubblica del '92 e soprattutto all'esecuzione di Luigi XVI nel '93, si dissociano con orrore dalla consequenziale prassi giacobina rivoluzionaria; 2) la tendenza dei democratici di tendenza genericamente repubblicana, non privi di riserve verso gli sviluppi giacobini della rivoluzione, ma contrari in ogni caso alle guerre controrivoluzionarie delle coalizioni; 3) la corrente rivoluzionaria vera e propria, cui appartengono i membri di clubs giacobini o di associazioni segrete affini, i democratici in contatto con i clubisti, nonchè i fautori, in generale, di sommovimenti radicali. »

Se questo era, grosso modo, il panorama politico della sinistra tedesca immediatamente dopo la rivoluzione francese, quando Wilhelm von Humboldt aveva poco più di ventanni, dobbiamo dire che le sue posizioni in quel momento, pur essendo vicine a quelle del gruppo dei liberali antidispotici, tendevano a differenziarsi dalle opinioni correnti più generiche. Dotato sia di realismo che di quelle grandi vedute d'assieme che spesso sfuggono ai pragmatici spiccioli ed ai politicanti in genere, von Humboldt aveva, insomma, idee proprie ed anche una grande capacità di rielaborazione delle idee presenti nella società.

Era nato a Potsdam il 22 giugno 1767 e quasi due anni dopo, il 14 settembre 1769, nella città di Berlino, venne al mondo suo fratello Alexander, di cui parlano le cronache della storia della scienza.
Sembra che oltre che alla sua formazione strettamente culturale si debba anche guardare ad una sorta di educazione sentimentale per comprendere appieno il carattere di von Humboldt. Dopo gli studi che potremmo dire liceali a Berlino, passò a studiare legge prima a Francoforte e poi a Gottinga. Si formò presto una cerchia di amicizie importanti, e conobbe il filologo Ch. G Heyne, sua figlia Therese, prima sposa di un certo Forster, e scrittrice di una certa fama all'epoca, poi più nota con il cognome del secondo marito, Huber. Frequentò una sorta di club culturale, il Tugenbund, animato, tra l'altro, da alcune signore di origine e religione ebraica e animato da spirito umanitario ed innovativo.
Ma l'amicizia più importante fu certamente quella maturata con il filosofo F.H. Jacobi che, sembra, contribuì ad allontanarlo dall'illuminismo dogmatico di moda a quei tempi.
In questo periodo scrisse un primo saggio, Über Religion, del quale non posso dir nulla perchè non l'ho letto e perchè non ho nemmeno letto un qualsiasi riassunto, e vennero a maturare le prime idee sul governo e lo stato che in seguito caratterizzeranno von Humboldt in senso liberale.
Più che nei confronti dello stato prussiano, Humboldt fu in questa fase particolarmente critico nei confronti dell'ideale di governo espresso dal Kaiser austriaco Giuseppe, e dalle posizioni politiche espresse in Germania da K. von Dalberg, amico di famiglia, tra l'altro, dei Dacheröden, clan cui apparteneva la giovane fidanzata Caroline von Dacheröden.

Al primo scritto seguirono Sulla legge di sviluppo delle forze umane (1791); Idea di un indagine sui limiti dell'azione dello stato (1792), ma pubblicato postumo nel 1851; Teoria della formazione dell'uomo (1793); Piano di un'antropologia comparata (1795); Sullo spirito dell'umanità (1797); Considerazioni sulla storia universale (1814); Sul compito degli storici (1821). Nel 1798 Humboldt aveva pubblicato un testo contenente le sue idee sull'arte e la letteratura: Sull'Arminio e Dorotea di Goethe.

Dalle poche note introduttive, e persino dai titoli dei suoi lavori, il lettore è già in grado di comprendere che Humboldt diede centrale importanza all'antropologia, intesa come scienza in grado di muovere dalle particolarità (forma mentis, sesso, temperamenti, abitudini, costumi, credenze, desideri, timori) puntando a scoprire, tuttavia, la forma umana incondizionata, (incondizionata dalle circostanze limitative della condizione materiale e spirituale) alla quale ogni individuo evoluto aspira o dovrebbe aspirare.
Indubbiamente Humboldt sapeva bene che questa aspirazione era impossibile a realizzarsi. Ma vedendo l'uomo come un lottatore incessante per l'affermazione di sè come uomo universale, come uomo realizzato pienamente, anche in quanto arricchito dalle proprie particolarità e dai propri caratteri distintivi, che in ciascuno sono diversi, egli gettò le basi per una visione assai meno centrata sul dover essere (avendo come riferimento un modello di perfezione etica, di obbedienza incondizionata al senso del dovere) ed assai più rivolta al poter essere. Ed in questo che egli si distinse da Kant, pur rimanedo sostanzialmente fedele alla sua visione gnoseologica. Ma questa riconsiderazione sul dovere, evidentemente, fu il frutto stesso della vita vissuta da von Humboldt.
Rispetto alla tranquilla estraneità dal mondo di Kant, von Humboldt si trovò paritempo a cantare la filosofia ed a portare la croce della politica attiva, cioè in una sfera nella quale la parola dovere morale sembra sempre deflagrare. Dovere verso chi? Verso i sovrani e gli stati, o verso le proprie convinzioni, il proprio sentire, e quindi verso l'insieme dell'umanità? Come mediare tra il dovere sempre la verità e l'obbligo politico di fingere, di mentire, di porsi degli obiettivi intermedi e di manovrare uomini, donne, reggimenti di dragoni per realizzarli? Come mediare e scegliere tra la purezza interiore e la necessità di farsi sporchi alleati? Come non violare il principio etico kantiano di non considerare mai gli uomini solo come mezzi, e considerarli sempre come fini in sé stessi, e allo stesso tempo studiare spedizioni militari, comandare eserciti, ordinare repressioni e fucilazioni di massa?
Accusato di ambiguità, indecisione, incoerenza, von Humboldt esce ingigantito da queste limitate critiche pragmatiche.
Si trovò ad uno dei punti cruciali della storia, investito da problemi che andavano davvero al di là del bene e del male contingenti ed immediati, ed ebbe il solo torto di dare pur sempre ascolto alla coscienza ed ad un saggio buon senso.
Come egli stesso scrisse in una lettera privata, si sentì sempre diviso tra l'ambizione personale, fondata peraltro sulla consapevolezza dei propri mezzi e la realistica valutazione dei limiti degli altri, ed una decisa volontà di sottrarsi al gioco disumano e perfido della politica intesa come un gioco di scacchi, nel quale gli eserciti, fatti di uomini in carne ed ossa, cadono come pedoni, alfieri, torri, e regine.
Eppure, anche giocando a scacchi, egli lavorò per la pace, probabilmente mai del tutto a suo agio con la mossa del cavallo, questa autentica anomalia nella logica del movimento che solo gli strateghi più raffinati possono utilizzare con geniale confidenza.

In ultimo bisogna considerare il ritiro di von Humboldt come un palese e, forse, inconsapevole, invito all'obiezione di coscienza, sia pure mirata e ristretta alle più alte cariche e responsabilità. Nella storia si possono trovare molti esempi di questo tipo, a partire da Coriolano. Un individuo che si ritiri da una funzione di responsabilità statale e governativa per ragioni politiche, non solo manifesta dissenso nei confronti delle scelte politiche e morali del suo governo, ma sospende e limita al minimo la propria collaborazione.
Una volta affermato questo diritto, che è ben diverso dal diritto di critica affermato da Kant nel breve scritto Was ist Aufklarung?si comprenderà che esso non può venire ristretto ai grandi, ma deve per forza essere esteso a tutti, e che proprio nella sua estensione a tutti si determinano nuovi problemi, non ultimo quello ben visibile per il quale l'obiezione di coscienza è solo una scusa per mascherare la propria vigliaccheria o indolenza.
Il problema se lo stato possa o non possa disporre della vita dei propri cittadini fu affrontato successivamente da Hegel in modo decisamente unilaterale e con affermazioni che nessuno oggi, a parte qualche nostalgico della disciplina assoluta, si sentirebbe di riprendere. Ma in realtà esso rimane un problema centrale per la moralità, perchè se è vero che da Kant in poi dovrebbe vigere il principio che è obbligatorio non fare il male, ma non è affatto obbligatorio fare quello che altri considerano il bene, l'obiezione di coscienza diviene una bomba ad orologeria pronta ad esplodere sia quando si tratta di combattere per cause giuste, sia quando si tratti di combattere per quelle sbagliate.
Ma se ciò che riguarda le opzioni morali non può essere in nessun caso di competenza dello stato, o di una chiesa, o di qualsivoglia autorità terrena, è evidente che il liberalismo radicale non dovrebbe in alcun caso rendere obbligatorio il servizio militare in tempo di guerra, perchè, in ogni caso, lo stato non dovrebbe risultare proprietario della vita dei propri cittadini.

Bisogna essere inguaribilmente ottimisti, ovvio, per credere che tutti gli individui aspirino a migliorarsi al punto di diventare uomini ideali, incarnazioni della perfezione umana, e che solo le circostanze ambientali e storiche lo impediscano, senza che intervenga una qualche predisposizione individuale. Ma è certo che questa idea, fondata peraltro su di un concetto di libera scelta dei propri maestri ed ispiratori, che ognuno dovrebbe essere in grado di effettuare, cozzò proprio contro l'inesorabile logica della vita stessa di von Humboldt, spesso costretto dalle necessità storiche, dalla ragion di stato e dai suoi doveri istituzionali a compiere scelte obbligate.
Humboldt aveva scoperto una sorta di vocazione per l'antropologia a seguito di un lungo viaggio in Spagna, dal quale aveva ricavato forti impressioni elementari dei caratteri etnici decisamente diversi degli spagnoli e dei meditarrenei in generale.
E fu in queste circostanze che egli cominciò a prestare la più grande attenzione al linguaggio come forma di espressione di intelletto, ragione, fantasia e sentimenti.
Come Residente prussiano a Roma, nel 1802, sviluppò quindi numerose osservazioni sugli italiani che, per la verità, non entrarono nei suoi scritti ufficiali, ma solo nei suoi diari personali.
Alla fine del 1808 fu chiamato a dirigere la sezione del culto e dell'istruzione a Ministero dell'interno di Berlino ed in questa veste realizzò il progetto di fondare l'Università, invitando a contribuire, tra l'altro, F.A. Wolf, il teologo-filosofo Schleiermacher, il giurista Savigny e lo psichiatra J.C. Reil.
Nello stesso periodo compose un memoriale di importanza basilare Sul programma di riforma dello status degli Ebrei. Qui Humboldt affermò con grande energia che la questione ebraica era per il governo prussiano una questione di diritto e non di educazione. Non si trattava di educare gli ebrei ad essere prussiani (se non ariani), ma di riconoscere il loro diritto ad essere ebrei, ad avere il loro culto e le proprie tradizioni. In questo scritto venne inoltre ribadito che "lo stato non è un'istituzione educativa, ma un'istituzione di diritto".
Ma trovandosi in netto disaccordo con il ministro K. Altenstein e con la sua politica, nel 1810, von Humboldt fece domanda di congedo.
Il nuovo cancelliere prussiano von Hardenberg gli affidò la legazione di Vienna.
Si sa che conobbe a Konigsberg una tale Johanna Motherby e si innamorò di lei quando era già sposato con Caroline von Dacheröden.
L'impegno politico di von Humboldt negli anni cruciali alla chiusura del ciclo napoleonico si può sintetizzare nell'idea che solo una nazione forte verso l'esterno "racchiude lo spirito dal quale piovono benedizioni anche all'interno".
Ma questo spirito non poteva essere costruito artificialmente; doveva sorgere dall'animo dei tedeschi. Optando contro l'ipotesi della costituzione unitaria e l'unificazione forzata degli staterelli, scegliendo il federalismo, egli tracciò un abbozzo di Confederazione garantita da una stretta alleanza difensiva delle potenze europee poste sotto la guida comune comune di Austria e Prussia, in virtù della loro collocazione geografica, della loro consistenza economica e militare.
Humboldt puntava sopratutto sul graduale sviluppo di una legislazione civile omogenea e sulla libertà dell'insegnamento universitario. Credeva che la diffusione della cultura avrebbe portato larghi benefici ed un vero sviluppo.
Il progetto di von Humboldt venne ripreso da von Hardenberg e tradotto in 41 punti, ma anche modificato su questioni essenziali.
Ben presto l'accordo si mutò in dissenso e si può dire che fu solo perchè sia von Hardenberg che von Humboldt miravano ad una stabilità dell'Europa centrale in funzione della pace, che si realizzò una sorta di collaborazione tra dissenzienti, un inciucio vero e proprio.
Durante il Congresso di Vienna von Humboldt si trovò in grave contrasto anche con Metternich ed in seguito presentò una memoria al re contro i decreti reazionari di Karlsbad, resi esecutivi in Prussia.
Ma solo il 31 dicembre del 1819 von Humboldt ottenne il congedo definitivo dal servizio di stato, ritirandosi definitivamente a vita privata e dedicandosi esclusivamente agli studi.

Il rapporto tra storia, politica e linguaggio
Bisogna esplorare il rapporto intimo che von Humboldt vide realizzato tra storia e politica per comprendere appieno l'apparentemente contraddittorio impegno politico di Humboldt. Egli, innanzi tutto, credeva nelle rivoluzioni dall'alto, anzichè dal basso. Le riforme erano dunque il modo migliore per realizzare i cambiamenti, non certo in una prospettiva gattoperdesca del tutto cambia affinchè nulla cambi, ma per evitare e prevenire, da un lato, gli inutili spargimenti di sangue conseguenti a moti popolari guidati da demagoghi, e dall'altro per incidere effettivamente con trasformazioni efficaci. Un governo illuminato spegne i fanatismi rivoluzionari e relega all'opposizione i reazionari. Fosse vero...troppo bello per essere vero. Ma l'idea stessa di un governo illuminato deve lottare, mediante gli uomini, per affermarsi.
Nicola Abbagnano parla dell'idea di storia citando: "lo sforzo dell'idea per conquistare la sua esistenza nella realtà".
« Il fine della storia può essere soltanto la realizzazione dell'idea rappresentata dall'umanità, in tutti i suoi aspetti, ed in tutti i modi nei quali la forma finita può essere collegata con l'idea; e il corso degli avvenimenti può interrompersi solo là dove nè l'una nè l'altra sono più in grado di penetrarsi reciprocamente.» (Scriften, IV, pp. 55)
Dove c'è umanità, c'è linguaggio. Il linguaggio è il dato caratteristico fondamentale dell'uomo. Non vi sono limiti alla capacità umana di raccontare gli eventi, di spiegarli, di sondare sè stessi e di spiegarsi. Lo sviluppo del linguaggio conduce a quella comprensione reciproca che potrebbe rendere meno violenta la storia dei rapporti tra i clan, le comunità, le nazioni. Noi impariamo a ragionare attraverso il linguaggio. Storia e politica sono la più diretta conseguenza dello sviluppo del linguaggio.
"E poichè non vi è nessuna forza dell'anima che non sia attiva, non c'è nell'interno dell'uomo nulla di così profondo e di così nascosto che non si trasformi nel linguaggio e non si riconosca in esso. Per questa loro comune radice umana, tutti i linguaggi hanno nella loro organizzazione intellettuale qualcosa di simile. La diversità interviene, per ciò che riguarda questa organizzazione , sia per il grado di cui la forza creatrice del linguaggio si è esplicata, grado che è diverso da popolo a popolo e in tempi diversi, sia perchè altre forze agiscono nella creazione del linguaggio, oltre l'intelletto, e cioè la fantasia ed il sentimento." (Abbagnano - cit.)
Probabilmente colpito dall'esuberanza latina conosciuta in Spagna e durante la residenza romana, von Humboldt giunse a dire che fantasia e sentimento determinano sia il carattere individuale che i caratteri nazionali ed etnici. La lingua parlata e scritta è dunque determinata dal temperamento del singolo e del popolo; questo spiega le differenze tra lingua e lingua, tra dialetto e dialetto.
Ancora Abbagnano scrive: « Il linguaggio è lo stesso senso interno in quanto via via giunge alla conoscenza ed all'espressione; esso è perciò legato alle intime fibre dello spirito nazionale; e nella diversificazione di questo spirito trova l'ultima radice delle sue divisioni. Esso è inoltre un organismo che vive soltanto nella totalità e nella connessione delle sue parti: la prima parola di una lingua la preannuncia e presuppone tutta. Humboldt ha portato, in virtù di questa sua idea,a trasformare lo studio del linguaggio da una pura opera di raccolta ad una comprensione del fenomeno del linguaggio nella sua totalità. »(Abbagnano - cit.)

Il liberalismo di von Humboldt
Guido De Ruggiero in Storia del liberalismo europeoinquadrò molto correttamente la nascita di un liberalismo tedesco nella profonda influenza che, col passare del tempo, il pensiero di Kant era venuto ad esercitare sulle forze intellettuali, riconoscendo, peraltro che esso nasceva sullo slancio dell'illuminismo francese e della stessa rivoluzione.
« Il concetto kantiano della libertà, come capacità del volere a determinarsi da sè - scrive De Ruggiero - secondo la propria legge razionale, cioè come conversione della ragion pure nella ragion pratica, trova la sue esegesi prammatica nell'opera della rivoluzione che ha convertito una filosofia in un atto dell'emancipazione umana. Con essa si schiude il regno della personalità, vittoriosa sulla natura, del gretto egoismo, della tradizione passiva. Schiller ed Humboldt costruiscono il ricco scenario per questo dramma, di cui Kant ha tracciato con mano sobria e severa la figura del protagonista.» (da Storia del liberalismo europeo - Laterza - Bari, 1984)
Kant ha ideato un modello di stato sulla distinzione fondamentale della sua filosofia pratica tra legalità e moralità.
Mentre la legalità infatti considera la pura conformità alla legge di una qualsiasi azione, senza alcuna analisi dei motivi dell'azione stessa, la moralità rappresenta una conformità motivata dal senso del dovere, che deriva in qualche modo più dallo spirito che dalla lettera della legge.
Allo stato, e solo ad esso, appartiene la sfera della legalità, ma la sfera della moralità gli deve essere sottratta, perchè essa è di legittima proprietà dell'individuo, e perchè nessuna autorità - conclude De Ruggiero - che non sia quella della coscienza, può giudicare l'interna moralità degli atti umani.
Se quindi lo stato non può essere morale, non può nemmeno essere etico, o promuovere un'etica diversa da quella di richiedere il rispetto di una legalità minima, chiara ed essenziale: non rubare, non sporcare, non imbrogliare, non ammazzare ecc. Tutto il resto è di competenza del singolo.
Di qui in poi Humboldt, e non Hegel, perchè una volta affermate insieme legalità e moralità, lo stato più è invisibile e meglio è.
Scrive De Ruggiero: «Il capolavoro dell'individualismo politico dell'età romantica è il libretto di Guglielmo Humboldt: Saggio sui limiti dell'azione dello Stato, scritto nel 1792 e pubblicato postumo nel 1851.
Qui l'efficacia della libertà nella formazione della personalità umana è mostrata nel suo aspetto più vivido attraente. La libertà non è se non la possibilità di un'attività varia perchè illimitata; essa forma pertanto la condizione di ogni espansione delle forze individuali. L'uomo, anche il più indipendente e spregiudicato, collocato in un ambiente uniforme, progredisce più lentamente. L'intervento dello stato nel regolare gli atti della sua vita privata mortifica lo sviluppo delle sue facoltà ed attitudini; e nei rapporti reciproci degli individui tra loro, affievolisce quell'interesse che essi dovrebbero nutrire spontaneamente gli uni per gli altri, generando una mutua diffidenza. Invece l'aiuto scambievole riesce tanto più energico in quanto ciascun cittadino sente più vivamente che tutto dipende da lui; e l'esperienza c'insegna che nelle classi oppresse, abbandonate dal governo, il sentimento della solidarietà raddoppia di energia.» (da Storia del liberalismo europeo - Laterza - Bari, 1984)
Le idee di von Humboldt risultano così potenzialmente provocatorie. Una simile affermazione potrebbe essere riattualizzata nel presente con un'affermazione del tipo: lo stato assistenziale provoca la caduta della generosità e della solidarietà spontanea ed aumenta gli egoismi, se tutti i beneficiari non si rendono conto dei processi che hanno consentito l'affermazione di uno stato sociale. Trovarsi la "pappa fatta" non incrementa mai il livello delle coscienze.
Nello stato assistenziale l'individuo è sotto tutela, e non deve, in fondo, preoccuparsi che delle disfunzioni, della mala sanità, delle ingiustizie pensionistiche, delle code per i ticket, delle esenzioni e così via. Tutto è dovuto, in altre parole, come se fosse stato sempre così, mentre in realtà non è mai stato così.
« Qualunque cosa - prosegue De Ruggiero - è fatta sempre meglio quando si lavora per sè che non per amore di un risultato da produrre. Ciò accade perchè l'azione è più cara del possesso, purchè sia libera e spontanea. L'uomo più vigoroso ed attivo preferirebbe l'ozio al lavoro forzato. E la libertà non solo aumenta la forza, ma trae anche seco per il fatto stesso di quell'accrescimento, una disposizione d'animo più liberale. La coazione snerva le energie ed eccita tutti i desideri egoistici, promuove i più abietti artifizi della debolezza. La coazione val forse a impedire qualche errore, ma toglie bellezza anche alle più utili azioni. La libertà dà origine forse a qualche errore, ma attribuisce al vizio stesso un'apparenza meno ignobile.
Nulla ci insegna così bene a renderci degni della libertà, quanto la libertà stessa.» (da Storia del liberalismo europeo - Laterza - Bari, 1984)
La libertà è dunque la condizione indispensabile affinchè emerga negli individui lo spirito di iniziativa.
A chi, a quel tempo, ed erano soprattutto i reazionari, si esprimeva negativamente nei confronti della libertà, osservando che il popolo era immaturo, privo d'istruzione, incapace di muovere un passo senza una solida guida, Humboldt ribatteva che era il difetto di libertà ad incentivare l'immaturità e la persistenza di una insufficienza morale ed intellettuale negli individui delle classi subalterne. Dunque solo scuse per continuare il regime oppressivo.
Purtroppo, questa ricchezza di idee rimarrà nei cassetti fino al 1851, e verrà ereditata principalmente da John Stuart Mill , che su questo scheletro costruirà il saggio On Liberty.
E' tuttavia da notare, e ciò emerge con particolare dal saggio del De Ruggiero, che non solo col trascorrere del tempo, von Humboldt, diventato uomo di governo, stemperò per forza di cose questo atteggiamento estremistico, ma anche che la selezione degli stessi professori, i pilastri della nuova università di cui egli fu il principale responsabile, non fu certo la più felice in una prospettiva autenticamente liberale. In un senso, tutto ciò si può giustificare col detto: prese quanto passava il convento, ed il convento passava nientaltro che il giurista Savigny ed il teologo Schleiermacher. In altro senso, ovviamente, von Humboldt andrebbe addiritura lodato perchè scelse la linea della libertà d'insegnamento e dunque, scelse docenti che non rappresentavano che in piccolissima parte il suo pensiero.
Savigny, insieme con Hugo, rappresentava la scuola storica del diritto. E ciò che emerge dall'opera del Savigny fu soprattuto il tentativo di riportare nell'attività giuridica l'idea stessa di nazione e di tradizione, come se in fondo non ci fosse contraddizione palese tra l'idea del farsi giustizia da sè (ovviamente nel solo caso di uno junker impegnato a frustare il servo ribelle), o del ricorso all'ordalia, e l'idea che è la corte di giustizia a dover decidere, e l'idea, ancora più sacrosanta, che anche i deboli possono aver ragione, anche qualora l'ordalia desse loro torto.
« Al razionalismo che faceva del diritto un principio innato - scrive De Ruggiero - egualmente valido per tutti gli uomini e disciplinato da pure leggi di ragione, la scuola storica contrappone l'idea di un diritto come produzione spontanea e organica dello spirito nazionale, non diversamente dalla lingua, dai costumi, e da tutte le altre istituzioni popolari. Savigny esagera e quindi corrompe, il motivo di verità che è innegabilmente in questa intuizione, fino al punto di negare che lo spirito del suo tempo sia maturo per la codificazione del diritto e di contestare (con argomenti, del resto, assai deboli) il valore del codice civile napoleonico.
E' questo il tema della sua famosa polemica col Thibault. La sua ostilità contro i codici non concerne soltanto l'aspetto formale e archietettonico di essi, ma il loro medesimo contenuto: l'astratta determinazione delle norme giuridiche interrompe, secondo lui, la continuità dello sviluppo e fa di un organismo vivente un ente di ragione avulso dalla vita.» (da Storia del liberalismo europeo - Laterza - Bari, 1984)
La sostanza di questa posizione stava nel fatto che essa, anzichè accogliere criticamente la novità del codice civile napoleonico, portava indietro, cioè alle bizzarie gotiche del codice, in parte non scritto, delle tradizioni germaniche medioevali.
Non tanto diversamente, andarono le cose con Schleiermacher, la massima figura di teologo tedesco dai tempi di Lutero.
Qui la questione è sicuramente del tutto diversa, ma è indubbio che l'università prussiana di Berlino, almeno fino all'arrivo di Hegel, risentì profondamente degli orientamenti di Schleiermacher., il quale rivendicò con prediche, lezioni e scritti torrenziali la più assoluta autonomia della religione, si badi, non solo dalla filosofia, ma anche dalla morale.
Ora, ai nostri occhi abituati a vedere ed a pensare che la morale stessa non abbia avuto altra origine che quella religiosa, e che solo successivamente si sia formata speculativamente una morale laica e razionale, l'affermazione produce immediatamente un moto di rigetto. Anche perchè Schleiermacher interpretò la religione come un atteggiamento mistico, come un'intuizione di Dio e un sentimento, l'amore per Dio e la creazione, che tuttavia si ferma a qualcosa di chiuso, che non produceva quindi insegnamenti morali e conoscenza, ma solo il sentimento dell'infinito, che è come parlare del sarchiapone. La filosofia e la morale, per Schleiermacher non vedono che l'uomo, ovvero il nostro miserabile finito, mentre il sentimento religioso abbraccia il sarchiapone, e cioè l'infinito, ma in un senso non geometrico, cioè in un senso di indeterminato, dunque un senso che si approssima alla nozione di nulla. Ora, pur riconoscendo che vi sono enormi difficoltà a parlare di Dio (posto che esista) come qualcosa di determinato, visto che, come il sarchiapone, nessuno l'ha mai visto (prologo al Vangelo di Giovanni), è certo che il suo essere infinito dovrebbe comunque risultare costituito dalla somma di tutte le determinazioni, il cui numero è innumerevole, e non già da una sola infinita indeterminazione caotica.
L'Abbagno osserva: «Schleiermacher combatte pure il principio che "senza Dio non c'è religione": di Dio e della sua esistenza si può parlare nell'ambito di una particolare intuizione religiosa; ma ogni particolare intuizione religiosa implica la religione. "Dio nella religione non è tutto, ma una parte, e l'universo è in essa più che Dio.» (Abbagnano - Storia della filosofia, vol. V - cit.)
Si capisce da queste poche battute che Schleiermacher non fu solo un romantico religioso, ma un romantico irrazionalista che investì la problematica religiosa di una nuova strana ed oscura energia mistica, lasciando tuttavia irrisolte una montagna di questioni logiche.
Tutto ciò che possiamo dire, infine, è che le scelte politico-culturali di von Humboldt indirizzarono nel bene e nel male la cultura prussiana e tedesca verso orizzonti non del tutto razionali. Kant era rimasto a Konigsberg e non passò mai, del tutto, a Berlino.


Letture:
F. Tessitore - I fondamenti della filosofia politica di Humboldt - Napoli 1965
P. Giacomoni - Formazione e trasformazione, "Forza" e "Bildung" in W. von Humboldt e nella sua epoca, Milano, 1988
F. Serra - Wilhelm von Humboldt e la rivoluzione tedesca - Il Mulino - Bologna, 1976
G. De Ruggiero - Storia del liberalismo europeo - Laterza - 1984

Sulle concezioni del diritto e dello stato in Hegel rimango dell'opinione che il miglior lavoro continui ad essere:
Norberto Bobbio - Studi hegeliani - Diritto, società civile, stato - Einaudi -Torino, 1981

Sulla situazione storica dell'epoca con particolare rigurdo alla Prussia al tempo di Napoleone e di Humboldt tutti i libri possono andar bene, ma la questione è trattata con sobria chiarezza da:
Adriano Prosperi e Paolo Viola in: Storia moderna e contemporanea - vol. II e III - Einaudi, Torino, 2000 -

Contrariamente a quanto faccio di solito, cioè l'avanzare il consiglio di leggere tutto il possibile sull'argomento, mi permetto questa volta di sconsigliare la lettura del testo di Franco Serra. Non solo perchè sostiene una tesi insostenibile, ovvero che Humboldt fu una sorta di precursore di Hegel, noto superliberale, ma perchè risulta francamente di lettura difficilissima e di scarsa utilità.


guido marenco - 5 gennaio 2002 -