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Wilhelm von Humboldt (1767- 1835)
Wilhelm von Humboldt ( da non confondere
con l'altrettanto importante fratello, Alexander
von Humboldt, scienziato, naturalista e geografo)
rappresentò nella storia della filosofia
tedesca una figura di confine e di trapasso
tra il criticismo e l'idealismo, tra una
apertura al costituzionalismo delle monarchie
ed un vero e proprio liberalismo.
E ciò potrebbe apparire persino paradossale
se si considerano i suoi incarichi governativi
alle dipendenze del re di Prussia, e se si
pensa che fu plenipotenziario della Prussia
sia al Congresso di Praga, che precedette
la caduta di Napoleone a Lipsia, che a quello
di Vienna.
Certo, può rappresentare una sorta di mistero
il fatto che un "progressista"
si ritrovi a rappresentare il mondo della
reazione e della restaurazione; non sarebbe
comunque facile liquidare Humboldt con un
giudizio di incoerenza totale tra idee e
comportamenti. Essere contro Napoleone e
le sue dinastie parentali imposte in mezza
Europa non era, in fondo, la stessa cosa
che essere reazionari. Ciò potrebbe spingerci
a domandare se vi fu persino una sinistra antinapoleonica e se essa si riconobbe nelle
alleanze che combattevano Napoleone. Risposta
che non è facile dare. Ovunque vi erano ancora
giacobini, specie in Francia. Ovunque vi
erano anche giacobini pentiti, cioè consapevoli
dei tragici errori compiuti, ma certo non
pentiti del fondamento politico filosofico
delle loro convinzioni, ovvero I diritti dell'uomo.
Forse bisogna guardare alla tragica esperienza
spagnola, all'innaturale alleanza tra reazionari
assolutisti e radicali liberali in funzione
antifrancese per avere una pista più sicura
delle altre. La guerriglia antinapoleonica
in Spagna ebbe indubbiamente anche connotati
di sinistra, a conferma del fatto che da
qualche parte l'impostore era stato smascherato.
Anche, in Inghilterra, ad esempio, si potrebbe
riscontrare qualcosa del genere. Dietro alle
bandiere di sua maestà marciavano anche radicali
e liberali convinti, tories e whigs compatti.
Ma in generale, l'idea che Napoleone rappresentasse
in qualche modo una sorta di vento della
libertà era molto più popolare di quanto
si tende a credere oggi. Molto probabilmente
fu la paura di Napoleone, a scuotere i vecchi
regimi ed a far nascere una apparenza di
politica riformatrice per contrastare la
ventata rivoluzionaria, prima ancora che
la sostanza imperiale, per non dire imperialistica,
della politica napoleonica si rivelasse qual
era.
L'Europa era uscita squilibrata, smembrata
e persino umiliata dalle vittoriose campagne
napoleoniche. Ma i troni non erano stati
abbattuti, ma solo rioccupati da inetti parenti
e dai marescialli avidi di potere e gloria
del Bonaparte. L'esempio di Gioacchino Murat,
re di Napoli per la durata di un battito
di ciglia, è forse il più conosciuto, ma
i destini di Bernadotte, di Ney, di Massena
e di altri ancora non sono meno istruttivi.
Ciò senza nulla togliere al valore dei tentativi
di rinnovamento delle strutture statali,
civili e penali introdotti da Napoleone.
L'istituto delle prefetture, ad esempio,
non si può propriamente considerare nè di
destra, nè di sinistra.
Rispondeva ad un certo modo di concepire
lo stato che diminuiva i diritti e le responsabilità
delle autonomie locali, riduceva i poteri
dei sindaci o borgomastri, che dir si voglia,
e che comunque aumentava i poteri di controllo
dell'autorità centrale.
Strumento neutrale per eccellenza, l'organo
della prefettura poteva e può essere utilizzato
sia per reprimere la libertà in uno stato
tirannico, sia per reprimere gli oppressori
locali in uno stato libero.
E' singolare che in Prussia, contemporaneamente,
accadesse il contrario, come vedremo. Ma
sarebbe illusorio credere che questo contrario fosse determinato da una ventata di illuminismo
tardivo eppure saggio.
Le riforme prussiane ripondevano in larga
misura all'esigenza di costruire un legame
più forte tra sudditi e sovrano, a rinsaldare
l'unità interna e la forza degli eserciti
nella situazione d'emergenza determinata
dal fenomeno Napoleone.
Tutto questo non vuol dire che von Humboldt
fu parte di questa risposta calcolata. Egli
credeva davvero nel liberalismo, più da filosofo
che da politico, ma come politico egli saltò
sulla barca delle riforme prussiane con una
forte carica idealistica.
Per un giudizio più maturo su von Humboldt
come politico si dovrebbero pertanto valutare
i suoi comportamenti concreti, considerare
che fu prigioniero di una situazione più
grande delle sue possibilità pratiche, e
capire quali erano gli obiettivi di sviluppo
politico alla sua reale portata. Egli si
battè per la riunificazione politica della
Germania in chiave federalista, ed in questo
si ritrovò persino in una sorta di artificiosa
sintonia con Metternich, almeno fino alle
battute centrali del Congresso di Vienna.
Quando, deluso dal corso ultrarealistico
degli avvenimenti, si trovò al tappeto, sappiamo
che egli cercò di sottrarsi al compito di
servire lo stato prussiano, e che, in definitiva,
egli risultò in questo del tutto coerente
con la sua idea di stato minimo, e di stato inattivo sul piano economico
ed ideologico.
La Prussia degli inizi dell'ottocento aveva
cominciato a cambiare profondamente sul piano
interno, grazie alla riforma di von Stein
del 1807. Non era più solo un paese di feudatari, gli junker, che ancora
dominavano la parte orientale del paese,
la Pomerania in particolare; essa era diventata
uno stato di diritto a metà: mentre il centro
era sotto il totale controllo di una burocrazia
aristocratico-militare, le comunità amministrative
disegnate da von Stein erano strutturate
in modo da incentivare la democrazia e, persino,
la partecipazione popolare. Ed era questo
che aveva acceso le speranze liberali di
von Humboldt e lo aveva indotto ad accettare
l'incarico di progettare e realizzare l'università
di Berlino. Essa rappresentava il coronamento
della libertà d'impresa: da un lato l'impresa
economica, finalmente liberata dai vincoli
feudali, poteva dispiegarsi pienamente; dall'altro,
con l'Università, veniva a delinearsi la
libertà d'impresa scientifica e culturale,
ovvero la possibilità stessa di un decollo
tedesco sotto la guida di Berlino, ovvero
della Prussia.
In tale quadro,von Humboldt teorizzò la sua
filosofia centrata sulla piena realizzazione
dell'individuo come espressione di un generale
ed astratto spirito umano in un modo che
insieme lo avvicinò e distanziò in misura
notevole da Hegel: mentre questi, infatti,
vedeva lo spirito realizzato nello stato etico, in un modello che lo accostava più a Napoleone
che ai timidi liberali tedeschi, von Humboldt
fu, per tutta la vita, coerentemente convinto
della necessità di restringere i compiti
e le competenze dello stato, e quindi di
considerare l'organizzazione statale unicamente
come garante della giustizia e della sicurezza
interna e come baluardo contro gli attacchi
esterni. Vide la costruzione della Germania
unita essenzialmente come un processo federalista;
escluse ogni ingerenza dello stato nella
vita privata dei cittadini e, quindi, affermò
che non era compito dello stato promuovere
il benessere economico, la vita morale e
le confessioni religiose.
Sotto questo aspetto, anzi, avvertì sempre
della fondamentale differenza tra stato e nazione, anche in ragione del
fatto che i confini dello stato prussiano
non coincidevano con quelli della nazione
germanica, e sostenne che non toccava allo
stato costruire la nazione, ma che essa doveva
svilupparsi autonomamente e spontaneamente,
germinando dai cuori e dalle coscienze, non
imposta per decreto, ma conseguenza del libero
accordo e comune sentire ( e parlare, comunicare,
visto poi il grande interesse di Humboldt
per le lingue ed i linguaggi), oltre che
dagli interscambi commerciali e dalle necessità
pratiche.
Nulla di peggio, per von Humboldt, che si
manifestasse una filosofia di stato, dunque,
in termini moderni, una ideologia di stato
e, di conseguenza, uno stato totalitario.
In von Humboldt vi era la limpida convinzione
che tutti gli uomini, indipendentemente dalla
loro classe sociale, non fossero più da considerare
come sudditi, ma come cittadini a pieno titolo, anche se il termine cittadino
non aveva per lui lo stesso significato astrattamente
razionale assunto nella rivoluzione francese
dalla parola citoyen.
Queste idee, ovviamente, non nascevano dal
nulla, o dal solo genio solitario di Humboldt
ma, furono il frutto di una rielaborazione
di fermenti già esistenti nella filosofia
e nella società civile dei vari staterelli
tedeschi.
Uno studio molto interessante su questo argomento
è Alle origini dell'ideologia tedesca di Nicolao Merker (Laterza, Bari, 1977)
Il lavoro evidenzia accanto a situazioni
già note, al punto da diventare luoghi comuni
come quello dell'arretratezza tedesca rispetto alla vivace brillantezza intellettuale
francese ed allo sviluppo tecnico-industriale
e commerciale dell'Inghilterra, scenari per
nulla scontati e, sotto un certo profilo
sorprendenti.
Nel campo delle dottrine politiche, accanto
ad un pensiero liberale molto moderato come
quello di Kant, ed anche di Schiller, Wieland,
Herder, esistevano democratici e "giacobini"
molto più decisi nella critica sociale e
politica, anche se non altrettanto risoluti
nell'azione politica.
Così descrive Merker lo scenario alla fine
del '700: « Molto schematicamente e
come iniziale ipotesi di censimento si possono
distinguere tre gruppi e schieramenti: 1)
la corrente liberale genericamente antidispotica
i cui rappresentanti, pur avendo in precedenza
parteggiato, o al limite continuando ancora
a parteggiare per una soluzione di monarchia
illuminata, danno una adesione almeno teorica
o morale all'89 mentre poi, di fronte alla
repubblica del '92 e soprattutto all'esecuzione
di Luigi XVI nel '93, si dissociano con orrore
dalla consequenziale prassi giacobina rivoluzionaria;
2) la tendenza dei democratici di tendenza
genericamente repubblicana, non privi di
riserve verso gli sviluppi giacobini della
rivoluzione, ma contrari in ogni caso alle
guerre controrivoluzionarie delle coalizioni;
3) la corrente rivoluzionaria vera e propria,
cui appartengono i membri di clubs giacobini
o di associazioni segrete affini, i democratici
in contatto con i clubisti, nonchè i fautori,
in generale, di sommovimenti radicali. »
Se questo era, grosso modo, il panorama politico
della sinistra tedesca immediatamente dopo la rivoluzione
francese, quando Wilhelm von Humboldt aveva
poco più di ventanni, dobbiamo dire che le
sue posizioni in quel momento, pur essendo
vicine a quelle del gruppo dei liberali antidispotici,
tendevano a differenziarsi dalle opinioni
correnti più generiche. Dotato sia di realismo
che di quelle grandi vedute d'assieme che
spesso sfuggono ai pragmatici spiccioli ed
ai politicanti in genere, von Humboldt aveva,
insomma, idee proprie ed anche una grande
capacità di rielaborazione delle idee presenti
nella società.
Era nato a Potsdam il 22 giugno 1767 e quasi
due anni dopo, il 14 settembre 1769, nella
città di Berlino, venne al mondo suo fratello
Alexander, di cui parlano le cronache della
storia della scienza.
Sembra che oltre che alla sua formazione
strettamente culturale si debba anche guardare
ad una sorta di educazione sentimentale per
comprendere appieno il carattere di von Humboldt.
Dopo gli studi che potremmo dire liceali
a Berlino, passò a studiare legge prima a
Francoforte e poi a Gottinga. Si formò presto
una cerchia di amicizie importanti, e conobbe
il filologo Ch. G Heyne, sua figlia Therese,
prima sposa di un certo Forster, e scrittrice
di una certa fama all'epoca, poi più nota
con il cognome del secondo marito, Huber.
Frequentò una sorta di club culturale, il
Tugenbund, animato, tra l'altro, da alcune
signore di origine e religione ebraica e
animato da spirito umanitario ed innovativo.
Ma l'amicizia più importante fu certamente
quella maturata con il filosofo F.H. Jacobi
che, sembra, contribuì ad allontanarlo dall'illuminismo
dogmatico di moda a quei tempi.
In questo periodo scrisse un primo saggio,
Über Religion, del quale non posso dir nulla perchè non
l'ho letto e perchè non ho nemmeno letto
un qualsiasi riassunto, e vennero a maturare
le prime idee sul governo e lo stato che
in seguito caratterizzeranno von Humboldt
in senso liberale.
Più che nei confronti dello stato prussiano,
Humboldt fu in questa fase particolarmente
critico nei confronti dell'ideale di governo
espresso dal Kaiser austriaco Giuseppe, e
dalle posizioni politiche espresse in Germania
da K. von Dalberg, amico di famiglia, tra
l'altro, dei Dacheröden, clan cui apparteneva
la giovane fidanzata Caroline von Dacheröden.
Al primo scritto seguirono Sulla legge di sviluppo delle forze umane (1791); Idea di un indagine sui limiti dell'azione
dello stato (1792), ma pubblicato postumo nel 1851;
Teoria della formazione dell'uomo (1793); Piano di un'antropologia comparata (1795); Sullo spirito dell'umanità (1797); Considerazioni sulla storia universale (1814); Sul compito degli storici (1821). Nel 1798 Humboldt aveva pubblicato
un testo contenente le sue idee sull'arte
e la letteratura: Sull'Arminio e Dorotea di Goethe.
Dalle poche note introduttive, e persino
dai titoli dei suoi lavori, il lettore è
già in grado di comprendere che Humboldt
diede centrale importanza all'antropologia, intesa come scienza in grado di muovere
dalle particolarità (forma mentis, sesso,
temperamenti, abitudini, costumi, credenze,
desideri, timori) puntando a scoprire, tuttavia,
la forma umana incondizionata, (incondizionata
dalle circostanze limitative della condizione
materiale e spirituale) alla quale ogni individuo
evoluto aspira o dovrebbe aspirare.
Indubbiamente Humboldt sapeva bene che questa
aspirazione era impossibile a realizzarsi.
Ma vedendo l'uomo come un lottatore incessante
per l'affermazione di sè come uomo universale,
come uomo realizzato pienamente, anche in
quanto arricchito dalle proprie particolarità
e dai propri caratteri distintivi, che in
ciascuno sono diversi, egli gettò le basi
per una visione assai meno centrata sul dover
essere (avendo come riferimento un modello
di perfezione etica, di obbedienza incondizionata
al senso del dovere) ed assai più rivolta
al poter essere. Ed in questo che egli si
distinse da Kant, pur rimanedo sostanzialmente
fedele alla sua visione gnoseologica. Ma
questa riconsiderazione sul dovere, evidentemente,
fu il frutto stesso della vita vissuta da
von Humboldt.
Rispetto alla tranquilla estraneità dal mondo
di Kant, von Humboldt si trovò paritempo
a cantare la filosofia ed a portare la croce
della politica attiva, cioè in una sfera
nella quale la parola dovere morale sembra sempre deflagrare. Dovere verso chi?
Verso i sovrani e gli stati, o verso le proprie
convinzioni, il proprio sentire, e quindi
verso l'insieme dell'umanità? Come mediare
tra il dovere sempre la verità e l'obbligo
politico di fingere, di mentire, di porsi
degli obiettivi intermedi e di manovrare
uomini, donne, reggimenti di dragoni per
realizzarli? Come mediare e scegliere tra
la purezza interiore e la necessità di farsi
sporchi alleati? Come non violare il principio etico
kantiano di non considerare mai gli uomini
solo come mezzi, e considerarli sempre come fini in sé stessi,
e allo stesso tempo studiare spedizioni militari,
comandare eserciti, ordinare repressioni
e fucilazioni di massa?
Accusato di ambiguità, indecisione, incoerenza,
von Humboldt esce ingigantito da queste limitate
critiche pragmatiche.
Si trovò ad uno dei punti cruciali della
storia, investito da problemi che andavano
davvero al di là del bene e del male contingenti
ed immediati, ed ebbe il solo torto di dare
pur sempre ascolto alla coscienza ed ad un
saggio buon senso.
Come egli stesso scrisse in una lettera privata,
si sentì sempre diviso tra l'ambizione personale,
fondata peraltro sulla consapevolezza dei
propri mezzi e la realistica valutazione
dei limiti degli altri, ed una decisa volontà
di sottrarsi al gioco disumano e perfido
della politica intesa come un gioco di scacchi,
nel quale gli eserciti, fatti di uomini in
carne ed ossa, cadono come pedoni, alfieri,
torri, e regine.
Eppure, anche giocando a scacchi, egli lavorò
per la pace, probabilmente mai del tutto
a suo agio con la mossa del cavallo, questa
autentica anomalia nella logica del movimento
che solo gli strateghi più raffinati possono
utilizzare con geniale confidenza.
In ultimo bisogna considerare il ritiro di
von Humboldt come un palese e, forse, inconsapevole,
invito all'obiezione di coscienza, sia pure mirata e ristretta alle più alte
cariche e responsabilità. Nella storia si
possono trovare molti esempi di questo tipo,
a partire da Coriolano. Un individuo che
si ritiri da una funzione di responsabilità
statale e governativa per ragioni politiche,
non solo manifesta dissenso nei confronti
delle scelte politiche e morali del suo governo,
ma sospende e limita al minimo la propria
collaborazione.
Una volta affermato questo diritto, che è
ben diverso dal diritto di critica affermato
da Kant nel breve scritto Was ist Aufklarung?si comprenderà che esso non può venire ristretto
ai grandi, ma deve per forza essere esteso
a tutti, e che proprio nella sua estensione
a tutti si determinano nuovi problemi, non
ultimo quello ben visibile per il quale l'obiezione
di coscienza è solo una scusa per mascherare
la propria vigliaccheria o indolenza.
Il problema se lo stato possa o non possa
disporre della vita dei propri cittadini
fu affrontato successivamente da Hegel in
modo decisamente unilaterale e con affermazioni
che nessuno oggi, a parte qualche nostalgico
della disciplina assoluta, si sentirebbe
di riprendere. Ma in realtà esso rimane un
problema centrale per la moralità, perchè
se è vero che da Kant in poi dovrebbe vigere
il principio che è obbligatorio non fare
il male, ma non è affatto obbligatorio fare
quello che altri considerano il bene, l'obiezione
di coscienza diviene una bomba ad orologeria
pronta ad esplodere sia quando si tratta
di combattere per cause giuste, sia quando
si tratti di combattere per quelle sbagliate.
Ma se ciò che riguarda le opzioni morali
non può essere in nessun caso di competenza
dello stato, o di una chiesa, o di qualsivoglia
autorità terrena, è evidente che il liberalismo
radicale non dovrebbe in alcun caso rendere
obbligatorio il servizio militare in tempo
di guerra, perchè, in ogni caso, lo stato
non dovrebbe risultare proprietario della
vita dei propri cittadini.
Bisogna essere inguaribilmente ottimisti,
ovvio, per credere che tutti gli individui
aspirino a migliorarsi al punto di diventare
uomini ideali, incarnazioni della perfezione
umana, e che solo le circostanze ambientali
e storiche lo impediscano, senza che intervenga
una qualche predisposizione individuale.
Ma è certo che questa idea, fondata peraltro
su di un concetto di libera scelta dei propri
maestri ed ispiratori, che ognuno dovrebbe
essere in grado di effettuare, cozzò proprio
contro l'inesorabile logica della vita stessa
di von Humboldt, spesso costretto dalle necessità
storiche, dalla ragion di stato e dai suoi
doveri istituzionali a compiere scelte obbligate.
Humboldt aveva scoperto una sorta di vocazione
per l'antropologia a seguito di un lungo
viaggio in Spagna, dal quale aveva ricavato
forti impressioni elementari dei caratteri
etnici decisamente diversi degli spagnoli
e dei meditarrenei in generale.
E fu in queste circostanze che egli cominciò
a prestare la più grande attenzione al linguaggio
come forma di espressione di intelletto,
ragione, fantasia e sentimenti.
Come Residente prussiano a Roma, nel 1802,
sviluppò quindi numerose osservazioni sugli
italiani che, per la verità, non entrarono
nei suoi scritti ufficiali, ma solo nei suoi
diari personali.
Alla fine del 1808 fu chiamato a dirigere
la sezione del culto e dell'istruzione a
Ministero dell'interno di Berlino ed in questa
veste realizzò il progetto di fondare l'Università,
invitando a contribuire, tra l'altro, F.A.
Wolf, il teologo-filosofo Schleiermacher,
il giurista Savigny e lo psichiatra J.C.
Reil.
Nello stesso periodo compose un memoriale
di importanza basilare Sul programma di riforma dello status degli
Ebrei. Qui Humboldt affermò con grande energia
che la questione ebraica era per il governo
prussiano una questione di diritto e non di educazione. Non si trattava di educare gli ebrei ad
essere prussiani (se non ariani), ma di riconoscere il loro
diritto ad essere ebrei, ad avere il loro
culto e le proprie tradizioni. In questo
scritto venne inoltre ribadito che "lo
stato non è un'istituzione educativa, ma
un'istituzione di diritto".
Ma trovandosi in netto disaccordo con il
ministro K. Altenstein e con la sua politica,
nel 1810, von Humboldt fece domanda di congedo.
Il nuovo cancelliere prussiano von Hardenberg
gli affidò la legazione di Vienna.
Si sa che conobbe a Konigsberg una tale Johanna
Motherby e si innamorò di lei quando era
già sposato con Caroline von Dacheröden.
L'impegno politico di von Humboldt negli
anni cruciali alla chiusura del ciclo napoleonico
si può sintetizzare nell'idea che solo una
nazione forte verso l'esterno "racchiude
lo spirito dal quale piovono benedizioni
anche all'interno".
Ma questo spirito non poteva essere costruito
artificialmente; doveva sorgere dall'animo
dei tedeschi. Optando contro l'ipotesi della
costituzione unitaria e l'unificazione forzata
degli staterelli, scegliendo il federalismo,
egli tracciò un abbozzo di Confederazione
garantita da una stretta alleanza difensiva
delle potenze europee poste sotto la guida
comune comune di Austria e Prussia, in virtù
della loro collocazione geografica, della
loro consistenza economica e militare.
Humboldt puntava sopratutto sul graduale
sviluppo di una legislazione civile omogenea
e sulla libertà dell'insegnamento universitario.
Credeva che la diffusione della cultura avrebbe
portato larghi benefici ed un vero sviluppo.
Il progetto di von Humboldt venne ripreso
da von Hardenberg e tradotto in 41 punti,
ma anche modificato su questioni essenziali.
Ben presto l'accordo si mutò in dissenso
e si può dire che fu solo perchè sia von
Hardenberg che von Humboldt miravano ad una
stabilità dell'Europa centrale in funzione
della pace, che si realizzò una sorta di
collaborazione tra dissenzienti, un inciucio vero e proprio.
Durante il Congresso di Vienna von Humboldt
si trovò in grave contrasto anche con Metternich
ed in seguito presentò una memoria al re
contro i decreti reazionari di Karlsbad,
resi esecutivi in Prussia.
Ma solo il 31 dicembre del 1819 von Humboldt
ottenne il congedo definitivo dal servizio
di stato, ritirandosi definitivamente a vita
privata e dedicandosi esclusivamente agli
studi.
Il rapporto tra storia, politica e linguaggio
Bisogna esplorare il rapporto intimo che
von Humboldt vide realizzato tra storia e
politica per comprendere appieno l'apparentemente
contraddittorio impegno politico di Humboldt.
Egli, innanzi tutto, credeva nelle rivoluzioni
dall'alto, anzichè dal basso. Le riforme
erano dunque il modo migliore per realizzare
i cambiamenti, non certo in una prospettiva
gattoperdesca del tutto cambia affinchè nulla cambi, ma per evitare e prevenire, da un lato,
gli inutili spargimenti di sangue conseguenti
a moti popolari guidati da demagoghi, e dall'altro
per incidere effettivamente con trasformazioni
efficaci. Un governo illuminato spegne i
fanatismi rivoluzionari e relega all'opposizione
i reazionari. Fosse vero...troppo bello per
essere vero. Ma l'idea stessa di un governo
illuminato deve lottare, mediante gli uomini,
per affermarsi.
Nicola Abbagnano parla dell'idea di storia
citando: "lo sforzo dell'idea per conquistare
la sua esistenza nella realtà".
« Il fine della storia può essere soltanto
la realizzazione dell'idea rappresentata
dall'umanità, in tutti i suoi aspetti, ed
in tutti i modi nei quali la forma finita
può essere collegata con l'idea; e il corso
degli avvenimenti può interrompersi solo
là dove nè l'una nè l'altra sono più in grado
di penetrarsi reciprocamente.» (Scriften, IV, pp. 55)
Dove c'è umanità, c'è linguaggio. Il linguaggio
è il dato caratteristico fondamentale dell'uomo.
Non vi sono limiti alla capacità umana di
raccontare gli eventi, di spiegarli, di sondare
sè stessi e di spiegarsi. Lo sviluppo del
linguaggio conduce a quella comprensione
reciproca che potrebbe rendere meno violenta
la storia dei rapporti tra i clan, le comunità,
le nazioni. Noi impariamo a ragionare attraverso
il linguaggio. Storia e politica sono la
più diretta conseguenza dello sviluppo del
linguaggio.
"E poichè non vi è nessuna forza dell'anima
che non sia attiva, non c'è nell'interno
dell'uomo nulla di così profondo e di così
nascosto che non si trasformi nel linguaggio
e non si riconosca in esso. Per questa loro
comune radice umana, tutti i linguaggi hanno
nella loro organizzazione intellettuale qualcosa
di simile. La diversità interviene, per ciò
che riguarda questa organizzazione , sia
per il grado di cui la forza creatrice del
linguaggio si è esplicata, grado che è diverso
da popolo a popolo e in tempi diversi, sia
perchè altre forze agiscono nella creazione
del linguaggio, oltre l'intelletto, e cioè
la fantasia ed il sentimento." (Abbagnano
- cit.)
Probabilmente colpito dall'esuberanza latina
conosciuta in Spagna e durante la residenza
romana, von Humboldt giunse a dire che fantasia
e sentimento determinano sia il carattere
individuale che i caratteri nazionali ed
etnici. La lingua parlata e scritta è dunque
determinata dal temperamento del singolo
e del popolo; questo spiega le differenze
tra lingua e lingua, tra dialetto e dialetto.
Ancora Abbagnano scrive: « Il linguaggio
è lo stesso senso interno in quanto via via
giunge alla conoscenza ed all'espressione;
esso è perciò legato alle intime fibre dello
spirito nazionale; e nella diversificazione
di questo spirito trova l'ultima radice delle
sue divisioni. Esso è inoltre un organismo
che vive soltanto nella totalità e nella
connessione delle sue parti: la prima parola
di una lingua la preannuncia e presuppone
tutta. Humboldt ha portato, in virtù di questa
sua idea,a trasformare lo studio del linguaggio
da una pura opera di raccolta ad una comprensione
del fenomeno del linguaggio nella sua totalità.
»(Abbagnano - cit.)
Il liberalismo di von Humboldt
Guido De Ruggiero in Storia del liberalismo europeoinquadrò molto correttamente la nascita di
un liberalismo tedesco nella profonda influenza
che, col passare del tempo, il pensiero di
Kant era venuto ad esercitare sulle forze
intellettuali, riconoscendo, peraltro che
esso nasceva sullo slancio dell'illuminismo
francese e della stessa rivoluzione.
« Il concetto kantiano della libertà,
come capacità del volere a determinarsi da
sè - scrive De Ruggiero - secondo la propria
legge razionale, cioè come conversione della
ragion pure nella ragion pratica, trova la
sue esegesi prammatica nell'opera della rivoluzione
che ha convertito una filosofia in un atto
dell'emancipazione umana. Con essa si schiude
il regno della personalità, vittoriosa sulla
natura, del gretto egoismo, della tradizione
passiva. Schiller ed Humboldt costruiscono
il ricco scenario per questo dramma, di cui
Kant ha tracciato con mano sobria e severa
la figura del protagonista.» (da Storia del liberalismo europeo - Laterza - Bari, 1984)
Kant ha ideato un modello di stato sulla
distinzione fondamentale della sua filosofia
pratica tra legalità e moralità.
Mentre la legalità infatti considera la pura
conformità alla legge di una qualsiasi azione,
senza alcuna analisi dei motivi dell'azione
stessa, la moralità rappresenta una conformità
motivata dal senso del dovere, che deriva
in qualche modo più dallo spirito che dalla
lettera della legge.
Allo stato, e solo ad esso, appartiene la
sfera della legalità, ma la sfera della moralità
gli deve essere sottratta, perchè essa è
di legittima proprietà dell'individuo, e
perchè nessuna autorità - conclude De Ruggiero
- che non sia quella della coscienza, può
giudicare l'interna moralità degli atti umani.
Se quindi lo stato non può essere morale,
non può nemmeno essere etico, o promuovere
un'etica diversa da quella di richiedere
il rispetto di una legalità minima, chiara
ed essenziale: non rubare, non sporcare,
non imbrogliare, non ammazzare ecc. Tutto
il resto è di competenza del singolo.
Di qui in poi Humboldt, e non Hegel, perchè
una volta affermate insieme legalità e moralità,
lo stato più è invisibile e meglio è.
Scrive De Ruggiero: «Il capolavoro
dell'individualismo politico dell'età romantica
è il libretto di Guglielmo Humboldt: Saggio sui limiti dell'azione dello Stato, scritto nel 1792 e pubblicato postumo nel
1851.
Qui l'efficacia della libertà nella formazione
della personalità umana è mostrata nel suo
aspetto più vivido attraente. La libertà
non è se non la possibilità di un'attività
varia perchè illimitata; essa forma pertanto
la condizione di ogni espansione delle forze
individuali. L'uomo, anche il più indipendente
e spregiudicato, collocato in un ambiente
uniforme, progredisce più lentamente. L'intervento
dello stato nel regolare gli atti della sua
vita privata mortifica lo sviluppo delle
sue facoltà ed attitudini; e nei rapporti
reciproci degli individui tra loro, affievolisce
quell'interesse che essi dovrebbero nutrire
spontaneamente gli uni per gli altri, generando
una mutua diffidenza. Invece l'aiuto scambievole
riesce tanto più energico in quanto ciascun
cittadino sente più vivamente che tutto dipende
da lui; e l'esperienza c'insegna che nelle
classi oppresse, abbandonate dal governo,
il sentimento della solidarietà raddoppia
di energia.» (da Storia del liberalismo europeo - Laterza - Bari, 1984)
Le idee di von Humboldt risultano così potenzialmente
provocatorie. Una simile affermazione potrebbe
essere riattualizzata nel presente con un'affermazione
del tipo: lo stato assistenziale provoca
la caduta della generosità e della solidarietà
spontanea ed aumenta gli egoismi, se tutti
i beneficiari non si rendono conto dei processi
che hanno consentito l'affermazione di uno
stato sociale. Trovarsi la "pappa fatta"
non incrementa mai il livello delle coscienze.
Nello stato assistenziale l'individuo è sotto
tutela, e non deve, in fondo, preoccuparsi
che delle disfunzioni, della mala sanità, delle ingiustizie pensionistiche, delle code per i ticket, delle esenzioni
e così via. Tutto è dovuto, in altre parole,
come se fosse stato sempre così, mentre in
realtà non è mai stato così.
« Qualunque cosa - prosegue De Ruggiero
- è fatta sempre meglio quando si lavora
per sè che non per amore di un risultato
da produrre. Ciò accade perchè l'azione è
più cara del possesso, purchè sia libera
e spontanea. L'uomo più vigoroso ed attivo
preferirebbe l'ozio al lavoro forzato. E
la libertà non solo aumenta la forza, ma
trae anche seco per il fatto stesso di quell'accrescimento,
una disposizione d'animo più liberale. La
coazione snerva le energie ed eccita tutti
i desideri egoistici, promuove i più abietti
artifizi della debolezza. La coazione val
forse a impedire qualche errore, ma toglie
bellezza anche alle più utili azioni. La
libertà dà origine forse a qualche errore,
ma attribuisce al vizio stesso un'apparenza
meno ignobile.
Nulla ci insegna così bene a renderci degni
della libertà, quanto la libertà stessa.»
(da Storia del liberalismo europeo - Laterza - Bari, 1984)
La libertà è dunque la condizione indispensabile
affinchè emerga negli individui lo spirito
di iniziativa.
A chi, a quel tempo, ed erano soprattutto
i reazionari, si esprimeva negativamente
nei confronti della libertà, osservando che
il popolo era immaturo, privo d'istruzione,
incapace di muovere un passo senza una solida
guida, Humboldt ribatteva che era il difetto
di libertà ad incentivare l'immaturità e
la persistenza di una insufficienza morale
ed intellettuale negli individui delle classi
subalterne. Dunque solo scuse per continuare
il regime oppressivo.
Purtroppo, questa ricchezza di idee rimarrà
nei cassetti fino al 1851, e verrà ereditata
principalmente da John Stuart Mill , che su questo scheletro costruirà il saggio On Liberty.
E' tuttavia da notare, e ciò emerge con particolare
dal saggio del De Ruggiero, che non solo
col trascorrere del tempo, von Humboldt,
diventato uomo di governo, stemperò per forza di cose questo atteggiamento estremistico, ma anche
che la selezione degli stessi professori,
i pilastri della nuova università di cui
egli fu il principale responsabile, non fu
certo la più felice in una prospettiva autenticamente
liberale. In un senso, tutto ciò si può giustificare
col detto: prese quanto passava il convento, ed il convento passava nientaltro che il
giurista Savigny ed il teologo Schleiermacher.
In altro senso, ovviamente, von Humboldt
andrebbe addiritura lodato perchè scelse
la linea della libertà d'insegnamento e dunque,
scelse docenti che non rappresentavano che
in piccolissima parte il suo pensiero.
Savigny, insieme con Hugo, rappresentava
la scuola storica del diritto. E ciò che
emerge dall'opera del Savigny fu soprattuto
il tentativo di riportare nell'attività giuridica
l'idea stessa di nazione e di tradizione,
come se in fondo non ci fosse contraddizione
palese tra l'idea del farsi giustizia da
sè (ovviamente nel solo caso di uno junker
impegnato a frustare il servo ribelle), o
del ricorso all'ordalia, e l'idea che è la
corte di giustizia a dover decidere, e l'idea,
ancora più sacrosanta, che anche i deboli
possono aver ragione, anche qualora l'ordalia
desse loro torto.
« Al razionalismo che faceva del diritto
un principio innato - scrive De Ruggiero
- egualmente valido per tutti gli uomini
e disciplinato da pure leggi di ragione,
la scuola storica contrappone l'idea di un
diritto come produzione spontanea e organica
dello spirito nazionale, non diversamente
dalla lingua, dai costumi, e da tutte le
altre istituzioni popolari. Savigny esagera
e quindi corrompe, il motivo di verità che
è innegabilmente in questa intuizione, fino
al punto di negare che lo spirito del suo
tempo sia maturo per la codificazione del
diritto e di contestare (con argomenti, del
resto, assai deboli) il valore del codice
civile napoleonico.
E' questo il tema della sua famosa polemica
col Thibault. La sua ostilità contro i codici
non concerne soltanto l'aspetto formale e
archietettonico di essi, ma il loro medesimo
contenuto: l'astratta determinazione delle
norme giuridiche interrompe, secondo lui,
la continuità dello sviluppo e fa di un organismo
vivente un ente di ragione avulso dalla vita.»
(da Storia del liberalismo europeo - Laterza - Bari, 1984)
La sostanza di questa posizione stava nel
fatto che essa, anzichè accogliere criticamente la novità del codice civile napoleonico,
portava indietro, cioè alle bizzarie gotiche
del codice, in parte non scritto, delle tradizioni
germaniche medioevali.
Non tanto diversamente, andarono le cose
con Schleiermacher, la massima figura di
teologo tedesco dai tempi di Lutero.
Qui la questione è sicuramente del tutto
diversa, ma è indubbio che l'università prussiana
di Berlino, almeno fino all'arrivo di Hegel,
risentì profondamente degli orientamenti
di Schleiermacher., il quale rivendicò con
prediche, lezioni e scritti torrenziali la
più assoluta autonomia della religione, si
badi, non solo dalla filosofia, ma anche
dalla morale.
Ora, ai nostri occhi abituati a vedere ed
a pensare che la morale stessa non abbia
avuto altra origine che quella religiosa,
e che solo successivamente si sia formata
speculativamente una morale laica e razionale,
l'affermazione produce immediatamente un
moto di rigetto. Anche perchè Schleiermacher
interpretò la religione come un atteggiamento
mistico, come un'intuizione di Dio e un sentimento,
l'amore per Dio e la creazione, che tuttavia
si ferma a qualcosa di chiuso, che non produceva
quindi insegnamenti morali e conoscenza,
ma solo il sentimento dell'infinito, che è come parlare del sarchiapone. La
filosofia e la morale, per Schleiermacher
non vedono che l'uomo, ovvero il nostro miserabile
finito, mentre il sentimento religioso abbraccia
il sarchiapone, e cioè l'infinito, ma in
un senso non geometrico, cioè in un senso
di indeterminato, dunque un senso che si approssima alla
nozione di nulla. Ora, pur riconoscendo che vi sono enormi
difficoltà a parlare di Dio (posto che esista)
come qualcosa di determinato, visto che,
come il sarchiapone, nessuno l'ha mai visto (prologo al Vangelo di Giovanni), è certo
che il suo essere infinito dovrebbe comunque
risultare costituito dalla somma di tutte
le determinazioni, il cui numero è innumerevole,
e non già da una sola infinita indeterminazione
caotica.
L'Abbagno osserva: «Schleiermacher
combatte pure il principio che "senza
Dio non c'è religione": di Dio e della
sua esistenza si può parlare nell'ambito
di una particolare intuizione religiosa;
ma ogni particolare intuizione religiosa
implica la religione. "Dio nella religione
non è tutto, ma una parte, e l'universo è
in essa più che Dio.» (Abbagnano -
Storia della filosofia, vol. V - cit.)
Si capisce da queste poche battute che Schleiermacher
non fu solo un romantico religioso, ma un
romantico irrazionalista che investì la problematica
religiosa di una nuova strana ed oscura energia
mistica, lasciando tuttavia irrisolte una
montagna di questioni logiche.
Tutto ciò che possiamo dire, infine, è che
le scelte politico-culturali di von Humboldt
indirizzarono nel bene e nel male la cultura
prussiana e tedesca verso orizzonti non del
tutto razionali. Kant era rimasto a Konigsberg
e non passò mai, del tutto, a Berlino.
Letture:
F. Tessitore - I fondamenti della filosofia politica di
Humboldt - Napoli 1965
P. Giacomoni - Formazione e trasformazione, "Forza"
e "Bildung" in W. von Humboldt
e nella sua epoca, Milano, 1988
F. Serra - Wilhelm von Humboldt e la rivoluzione tedesca - Il Mulino - Bologna, 1976
G. De Ruggiero - Storia del liberalismo europeo - Laterza - 1984
Sulle concezioni del diritto e dello stato
in Hegel rimango dell'opinione che il miglior
lavoro continui ad essere:
Norberto Bobbio - Studi hegeliani - Diritto, società civile,
stato - Einaudi -Torino, 1981
Sulla situazione storica dell'epoca con particolare
rigurdo alla Prussia al tempo di Napoleone
e di Humboldt tutti i libri possono andar
bene, ma la questione è trattata con sobria
chiarezza da:
Adriano Prosperi e Paolo Viola in: Storia moderna e contemporanea - vol. II e III - Einaudi, Torino, 2000
-
Contrariamente a quanto faccio di solito,
cioè l'avanzare il consiglio di leggere tutto
il possibile sull'argomento, mi permetto
questa volta di sconsigliare la lettura del
testo di Franco Serra. Non solo perchè sostiene
una tesi insostenibile, ovvero che Humboldt
fu una sorta di precursore di Hegel, noto
superliberale, ma perchè risulta francamente
di lettura difficilissima e di scarsa utilità.
guido marenco - 5 gennaio 2002 -