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Il romanticismo tedesco e la filosofia -
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di Renzo Grassano
Il romanticismo fu fenomeno europeo dai molteplici contorni: interessò in vario modo la Francia, l'Inghilterra, l'Italia e persino la Spagna. Tuttavia, ai fini della storia della filosofia, fu soprattutto il romanticismo tedesco ad assumere grandissima importanza, sia nei suoi sviluppi più schiettamente letterari che in quelli più strettamente filosofici.
Vista la vasta e riconosciuta influenza esercitata dal pensiero di Rousseau sui romantici, non sarebbe però del tutto sbagliato risalire ad alcune posizioni espresse dal ginevrino in una genealogia filosofica del romanticismo, specie in antitesi all'illuminismo. Del resto, egli fu tra i primi ad adottare il termine romantic, dapprima nel senso di "pittoresco" e poi per indicare l'indefinibile effetto della malinconia che una certa visione suscita.
Divisioni disciplinari e consuetudini scolastiche hanno portato a limitare il vero e proprio romanticismo ad un periodo circoscritto, distinguendo da esso il movimento letterario dello Sturm un Drang, ed un successivo classicismo, influenzato dagli studi estetici di Winckelmann e caratterizzato dalla forte impronta creativa di Johann Wolfgang Goethe.
Esistendo un classicismo, cioè una profonda ammirazione per l'equilibrio e la plasticità delle forme artistiche della Grecia classica, alcuni critici e storici della letteratura tedesca hanno pensato di collocare alcune figure chiave di questo periodo, ovvero Friedrich Hölderlin, Heinrich von Kleist e Jean Paul in una corrente anticlassica perchè debordante, sia nelle forme che nei contenuti. Opinione rispettabilissima, e fondata soprattutto sulla radicale differenza che caratterizzò il genio estremo di von Kleist, ma assai più discutibile nei confronti di Hölderlin, insieme classico e romantico, a mio parere.
Non sono così dentro le questioni letterarie per negare una validità a questa suddivisioni, tuttavia la mia impressione è che ogni autore faccia per molti aspetti storia a sé, e che le etichette servano, qui come altrove, più che altro per dare un titolo ai capitoli di un libro.
Il romanticismo si sviluppò soprattutto a partire dalla rivoluzione francese, in parte come reazione agli eccessi giacobini ed in parte per ragioni meno immediate, e per questo più profonde. Rispetto alle pretese illuministe di ridurre l'uomo ad individuo razionale, costituì soprattutto una rivalutazione del sentimento, un ritorno dell'infinito a dispetto della finitudine, una nuova comprensione dell'uomo a partire dalla sua soggettività.
Nei miei studi giovanili mi colpì un dato che non sono mai riuscito ad approfondire: la critica del teologo Schleiermacher alla religione intesa come morale, come legge, come comandamento. Non avendo potuto mai leggere scritti di Schleiermacher, mi sono portato dentro per anni un interrogativo: se non è anche morale, qual'è allora, per Schleiermacher, il senso più vero della religione?
Collocandolo nel quadro storico del romanticismo, il suo pensiero diviene facilmente più comprensibile: anche la vita religiosa è l'aspirazione all'universale, all'unità con Dio. Essa non consiste nell'applicare comandamenti, compreso quello che ordina di amare Dio ed il prossimo, ma nel sentire questa disposizione soggettivamente, non come qualcosa che fonda il nostro comportamento nel mondo, ma qualcosa che deriva dal nostro sentire e vedere chi siamo rispetto all'universo.
Una delle parole-chiave del romanticismo tedesco fu Sehnsucht, parola che significa sia nostalgia che, più letteralmente, malattia dell'anelare, e dunque esprime lo struggimento nei confronti di uno spesso indefinito oggetto agognato.
Messa in questi termini, la ricerca sul romanticismo ci porterebbe davvero molto lontano, alla musica per esempio, a Beethoven, a Schumann, ad altre forme di arte, di pensiero, persino nel cuore delle scienze romantiche, cioè di un approccio romantico alle scienze fisiche e naturali.
Ma, poichè uno dei dogmi espressi dagli stessi romantici fu quello della superiorità del linguaggio scritto e parlato, della rappresentazione drammatica (il teatro, l'opera lirica) su ogni altra forma di arte, mi è parso utile limitare questo file a letterati e poeti, in modo certamente non esaustivo, ma proficuo per vedere le connessioni tra i movimenti e le dinamiche culturali e l'evoluzione del pensiero filosofico.
L'esame sommario di alcune figure in una rapida panoramica è più che sufficiente per mostrare cosa va cercato, a stuzzicare interessi e curiosità.
L'approfondimento, del resto, è indispensabile per avere un'introduzione adeguata ai sistemi filosofici dell'idealismo, in particolare quelli di Fichte, di Schelling e di Hegel e per capire la loro sintonia col tempo storico.
Per questo più che di filosofi, qui, tratterò dunque di poeti e letterati, studiosi dell'uomo e della storia che, comunque ebbero un rapporto importante se non decisivo con la filosofia stessa. Herder e Goethe, in particolare, che romantici non furono ma, seguirono il movimento con interesse e senso critico, ebbero granda influenza su Hegel.
Scriveva il poeta Novalis, romantico del gruppo di Jena: "Quanto più un uomo è confuso (i confusi si dicono spesso indecisi), tanto più egli può diventare, con lo studio, diligente; mentre invece le teste ordinate devono cercar di diventare veri scienziati, enciclopedici profondi. I confusi hanno all'inizio da lottare con ostacoli potenti. Entrano soltanto lentamente, imparano con fatica a lavorare: ma poi sono padroni e maestri per sempre. L'ordinato entra velocemente, ma esce anche velocemente. Egli raggiunge presto il secondo gradino: ma generalmente si ferma lì. Gli ultimi passi gli diventano faticosi e raramente trova la forza di ritornare, avendo raggiunto un certo grado di maestria, allo stato di principiante. La confusione è indizio di esuberanza, di energia e facoltà, ma di proporzioni difettose; la determinatezza è indizio di proporzioni giuste, ma di limitate facoltà e energie. Perciò il confuso è così progressivo, così perfettibile, mentre invece l'ordinato finisce così presto nel filisteismo. Ordine e determinatezza soli non sono chiarezza. Mediante la lavorazione di sé, il confuso arriva a quella celeste trasparenza, a quell'illuminazione di sé stesso che l'ordinato raggiunge così di rado. Il vero genio unisce questi due estremi. Esso condivide la rapidità col secondo e la ricchezza col primo.
Per chi ha spirito tutte le cose sono una; per chi ha talento ognuna è unica. Uomini definienti e infinienti."
(da Frammenti, 322 - traduzione italiana di Ervino Pocar - BUR 1981)
Il vero romantico nasce da una confusione, e si presenta in scena come il contrario del metodico illuminista, del sistematico Kant. Aspira al genio, alla comprensione del tutto, ad abbracciare l'infinito ma, sottolinea il bravo Novalis, sarà genio solo se riuscirà ad essere l'uno e l'altro, non solo sregolatezza, ma anche ordine e disciplina. Perchè solo così sarà davvero universale, cosciente di sé, della differenza con gli altri, ed insieme uno, unito agli altri, alla natura ed allo spirito.
Scriveva ancora Novalis: "Romanticizzare significa dare all'ordinario un senso superiore, al quotidiano un'apparenza di mistero, al cognito la dignità dell'ignoto, al finito una sembianza d'infinito." Evadere, fingere, o semplicemente guardare a tutto con altro sguardo? Troveremo un abbozzo di risposta solo alla fine di questa esplorazione.
Tutto iniziò con lo Sturm und Drang, movimento che durò il tempo di un lustro, ma fu sufficiente a liberare energie prima ingabbiate in quell'ordine nuovo che lo scienziato illuminista aveva cercato faticosamente di instaurare.
La figura di transizione fu indubbiamente Friedrich Schiller, nel quale ideali illuministici ed esigenze pre-romantiche di riconoscimento della complessità dell'uomo si palesarono con genialità nel dramma giovanile I Masnadieri, che venne rappresentato per la prima volta a Mannheim nel 1782, incontrando uno strepitoso successo. Al centro dell'azione vi erano due fratelli, Karl e Franz Moor: l'uno bandito perchè offeso nell'onore e lotta per fare più giustizia nel mondo; l'altro è l'emblema del vizio nella sua forma più cinica e brutale. Ma, soccombendo volontariamente, Karl Moor si riscatta e si eleva ad eroe di una superiore verità morale.
Non credo che i critici letterari siano concordi con il mio giudizio, ma l'inno Alla gioia, An die Freude, composto nel 1785, rappresenta uno dei vertici della poesia, qualcosa che ogni filosofo dovrebbe tenere bene a mente:
Tutti gli abitanti del mondo
omaggino la simpatia,
essa innalza alle stelle
dove troneggia il grande ignoto
e ancora:
Saldo coraggio tra i più gravi dolori,
correre in aiuto ovunque pianga l'innocenza,
osservanza eterna degli impegni,
verità verso amici e nemici.
orgoglio virile dinnanzi ai troni regali.
Fratelli, ci costasse i beni ed il sangue
diamo al merito le sue corone,
sterminiamo l'infame menzogna!
Ma, altri nomi sono da conoscere: J.G.Herder, il giovane Goethe, F. Maximilian Klinger, autore del dramma a tinte fosche da cui prese la definizione tutto il movimento; Sturm und Drang, appunto, che Ladislao Mittner tradusse con Impeto tempestoso, ma che letteralmente suona come Tempesta ed impeto.
Al vertice di questa vicenda stanno sicuramente I dolori del giovane Werther di Goethe, un romanzo epistolare che fece piangere nobili fanciulle e grasse fantesche, e che spinse al suicidio eroico decine, se non centinaia, di giovani.
Accadde il contrario di quello che si sarebbe aspettato Aristotele: il dramma non produsse catarsi ma grottesche e tragiche imitazioni di un evento che non era mai realmente successo. Platone avrebbe avuto ragione: guai a lasciar libero campo ai poeti, cattivi maestri di passioni irrazionali, specie tra i giovani.
Eppure Goethe aveva colto qualcosa di vero, qualcosa che non era solo frutto di una sua esperienza personale. Assolutizzando una creatura, per quanto incantevole, quando la si perde, è come perdere Dio, il bene, la vera felicità. E come perdere tutto ciò che da senso alla vita.
Immaturo chi casca in questo tipo di adorazione del finito e transeunte, direbbe il teologo. Facile a dirsi, ma questo tipo di teologo, forse, non ha mai vissuto. Non c'è adolescente che non abbia, almeno fino a poco fa, attraversato esperienze del genere, ovvero un amore infinito per "un'anima bella" che perciò stesso è infinita nel tempo, trascende il terreno ed il caduco e ci attende sorridente in paradiso. E' solo un peccato che l'amata da Werther fosse ancora viva e vegeta, felicemente coniugata, in terra, mentre lo stesso Goethe, ben lungi dal suicidarsi, trovava subito da consolarsi con le splendide occasioni che la vita poteva offrirgli: non solo amori, s'intende, ma studi, osservazioni naturalistiche, viaggi, la scrittura come esercizio quotidiano ed, infine, la politica e la promozione culturale unite ad una chiara fama mondana ed alla frequentazione del meglio dei salotti dell'epoca. Eppure, Goethe si lamentò per tutta la vita di questo successo che lo stava distraendo. Come a dire che non c'è limite all'insoddisfazione.
Herder fu la vera testa pensante dello Sturm und Drang. Nato nel 1744 a Mohrungen in Prussia, fu a Parigi dove conobbe i grandi illuministi e poi venne in Italia; si distinse per i suoi studi di linguistica e per un'opera intitolata Ancora sulla filosofia della storia. Fu allievo di Kant ed amico di Hamann. Nel 1770 conobbe Goethe ed iniziò un'amicizia intensa e fruttuosa.
Secondo la visione di Herder il linguaggio non è uno strumento convenzionale per comunicare i contenuti concreti ed astratti della ragione, ma è l'espressione dello spirito e dei sentimenti di un popolo.
Ne viene una teoria estetica per cui la semplicità e la genuina natura di un popolo sono poesia. Il genio sorge da questa cultura germinale e la interpreta con i mezzi che la sua stessa cultura, la sua stessa lingua gli hanno portato in dono.
Herder avverte, tuttavia che tra il linguaggio dell'azione, diremmo il linguaggio quotidiano sedimentato nella chiacchiera popolare, ed il linguaggio maturo, cioè articolato in proposizioni di senso complesso, forma e contenuto della cultura e della scienza, si registra una sostanziale discontinuità.
Scriveva: " Io non mi posso nascondere la mia meraviglia che filosofi... siano potuti talvolta incorrere nel pensiero di spiegare l'origine del linguaggio umano con questi gridi del sentimento."
Il linguaggio, secondo Herder, nasce quando la voce si emancipa dal grido e dal gesto, da un'espressione immediata e diretta del sentimento. "Quanto più un popolo è selvaggio, cioè libero e vivo ... tanto più selvaggi, liberi e vivi, sensuosi, liricamente mossi debbono essere i suoi canti, se mai ne ha prodotti - scriveva Herder, aggiungendo che la perfezione del Lied - "consiste nel melodioso esternarsi della passione e del sentimento... La melodia è l'anima della canzone... La canzone deve essere ascoltata, non veduta."
Ciò porta Herder a rifiutare una tipica teoria illuminista, ovvero quella dell'affinità naturale tra espressione corporea, gestualità e linguaggio.
Per questo, secondo Herder il linguaggio articolato, che comincia a declinarsi in voci sempre più complesse, in nomi di sensazioni, in definizioni di stati d'animo, in termini concettuali, si eleva di un palmo, o forse due, su tutte le altre forme d'arte. Letteratura e poesia, dunque, come superiori alla scultura, alla pittura, alla musica, anche se, nella musica, accade il miracolo di una fusione tra parola e sentimento.
Per Herder, come del resto per Goethe, Shakespeare è il simbolo stesso di questa superiorità della letteratura, capace di raccontare ed esprimere l'essenza di un popolo ed il dramma dei personaggi.
"Avvicinati al suo teatro come ad un mare di avvenimenti, dove onda scroscia su onda! Le scene della natura appaiono e dispaiono, ingranando l'una nell'altra, per disparate che ci sembrino si suscitano e si distruggono a vicenda, affinchè si compia l'intenzione del creatore, che sembra aver associato tutti nel suo piano di apparente incongruo disordine: piccoli oscuri simboli di un barlume di divina teodicea." (Herder)
Ma, anche la sua concezione della storia è notevole: la sua filosofia della storia incarna l'idea di un cammino dell'umanità, e, soprattutto, di ogni singolo popolo, verso l'appropriazione della propria essenza, verso una civilizzazione compiuta. Con Herder sorge una concezione diversa della storia nella quale si estrinseca la la facoltà di capire empaticamente le varie civiltà. Scrisse di storia con animo intriso di teologia. Scoprire Dio nella storia significò per Herder comprendere i pensieri che "L'Eterno ci ha fattivamente palesati nella serie delle sue opere". E ancora: "Nessun uomo, nessun paese, nessun popolo, nessuna storia nazionale, nessuno stato è uguale ad alcun altro, perciò nemmeno il Vero, il Bello e il Buono sono in essi uguali. Se non si persegue quello che ci è proprio, se prendiamo ciecamenta a modello un'altra nazione, tutto ciò resterà soffocato."
Sono idee che avranno una grande influenza su Hegel, il quale, comunque, le rielaborerà in modo molto più analitico e sintetico insieme, mostrando tutto il negativo di questa positività, e soprattutto rivalutando il ruolo della ragione nella storia, affermando la superiorità della filosofia sulla letteratura. Non è una differenza da poco, vista la dimostrata dipendenza di Herder da Hamann.
Di quest'ultimo si può dire che fu genuinamente antikantiano ed antiilluminista. Contro i sezionamenti critici ed analitici, egli fu tra i primi ad affermare l'esigenza di un sentire totale. L'uomo non era per Hamann un animale razionale, ma un soggetto passionale e senziente e la stessa parola gli pareva il simbolo irrazionale di una onnipervasiva sostanza divina e spirituale. Innegabile che la sua concezione della poesia precorra quella di Herder, e pertanto, anche Hegel.
Goethe. Meriterebbe ben altri approfondimenti questo moderno Leonardo che sembrava davvero incarnare lo spirito faustiano e quello dello scienziato moderno, del letterato e del filosofo.
Ma c'è un punto da afferrare subito: il successo clamoroso del Werther segnò la fine dello Sturm und Drang. Goethe era consapevole di non essere riuscito a trasmettere i suoi veri principi; era stato travisato dalla stoltezza dei suoi lettori e delle sue caste, ma frementi lettrici.
Trasferendosi a Weimar, Goethe iniziava un percorso che lo avrebbe condotto all'umanesimo classico della maturità.
Ottenuta la protezione del Duca Carlo Augusto, di cui sarà anche ministro, Goethe riusciva nell'impresa di costruire il nuovo centro della cultura tedesca, collaborando con Wieland, Herder e Schiller.
Il nuovo punto di partenza erano le ricerche, le osservazioni e le ipotesi naturalistiche. Influenzato dalla filosofia di Spinoza, gli si era convinto che la natura e Dio sono strettamente congiunti e fanno tutt'uno. "La natura non è che l'abito vivente della divinità."
E come non si può giungere all'anima se non attraverso il corpo, così non si può giungere a Dio, se non attraverso la natura.
Oppositore della filosofia di Jacobi, che aveva posto Dio del tutto al di là della natura, Goethe si opponeva anche ai materialisti illuministici che avevano fatto di essa un puro sistema di forze meccaniche. Contro Cartesio, contro Newton, contro, persino, l'enciclopedismo francese.
In una lettera a Jacobi del 1795 egli scriveva." Chi vuole l'essere supremo deve volere il tutto; chi tratta dello spirito deve presupporre la natura, chi parla della natura deve presupporre lo spirito. Il pensiero non si lascia separare da ciò che viene pensato, la volontà non si lascia separare da ciò che viene mosso."
La sua ricerca naturale partiva dalla necessità di individuare il fenomeno originario, la prima manifestazione dell'unità tra spirito e natura. L'ipotesi è quella che al fondo della natura si realizzi una vita insondabile, ovvero qualcosa che avvicina l'idea kantiana della cosa in sé, con la differenza che, mentre in Kant essa sembra qualcosa di statico, l'essere, in Goethe diviene qualcosa di dinamico, un confronto-scontro di polarità quali spirito e materia, attrazione e repulsione, contrazione ed espansione, da vedersi come processi che hanno un fine nel potenziamento della vita stessa.
L'Egmont rappresenta, a mio avviso, un momento centrale della tensione goethiana, perchè il centro del dramma non è, come nel Don Carlos di Schiller la lotta politica tra assoluitismo e libertà, ma l'uomo che ignora la colpa in senso morale, ma conosce la legge fatale che accompagna ogni vita. "L'uomo crede di dirigere la propria vita, di guidare sé stesso, e intanto il suo Io più profondo viene tratto irresistibilmente verso il proprio destino." A differenza di Schiller che mostrava di credere in un metafisico libero arbitrio, prossimo a Kant, Goethe trova che l'uomo è sovrastato da forze demoniache. Certo, il Faust rappresenta il vertice indiscusso della poesia di Goethe, che mostra una consapevole del tragico dell'esistenza: l'amore che afferra tutte le potenze dell'anima, non porta la pace ma la colpa:
Ed io, l'odiato da Dio,
non mi accontentai
di sollevare i macigni
e di farli in mille pezzi!
Dovevo distruggere lei, la sua pace...
Friedrich Hölderlin era nato a Lauffen sul Neckar. Orfano di padre. La madre era convolata a seconde nozze con il borgomastro di Nüttingen. Il ragazzo era stato destinato ad una vita da teologo. Aveva studiato con Hegel e Schelling a Tubinga ed a loro era legato da una profonda amicizia personale e da giovanili affinità di pensiero. Entusiasta della rivoluzione francese e quindi non pregiudizialmente antiilluminista, collaborò coi due amici alla stesura di un documento anonimo intitolato significativamente Il più antico programma di sistema dell'idealismo tedesco, uno scritto centrato sulla totalità della vita e della filosofia, e che aveva per tema l'esigenza di una nuova religione ed una nuova mitologia in funzione educativa. Tutto ciò per preparare l'umanità in vista della nuova libertà universale.
Studi recenti hanno mostrato che la penna che stese materialmente il documento apparteneva ad Hegel, ma non è azzardato pensare che anche Hölderlin fece la sua parte.
La lirica filosofica di Schiller fu il modello dei suoi primi grandi inni dedicati ai supremi ideali dell'umanità: amore, amicizia, giovinezza, armonia e libertà.
A molti pare che, in questa fase, costrinse le proprie ispirazioni in un linguaggio concettuale ai limiti della poesia.
Lo stesso Schiller gli procurò un posto da precettore presso Charlotte von Stein a Waltershausen in Turingia.
Ma nel '94 andò a Jena, per ottenere la nomina a docente di filosofia. Sempre nel '94, Schiller decise finalmente di pubblicare sulla Talia il frammento dell'Iperione.
Ma le divergenze poetiche e filosofiche indussero Schiller ad abbandonare il giovane. E questa fu un'esperienza dolorosa per Hölderlin.
Quando, nel '96, si trasferì a Francoforte sul Meno per fare il precettore in casa del banchiere Gontard, trovò nella padrona di casa, Susette Gontard, la donna ideale. La soprannominò Diotima. Era l'inizio di un nuovo dramma, di una relazione impossibile, di un destino di dolore, anche se il tutto, molto probabilmente, non ebbe alcun seguito "carnale". Per Hölderlin, ella incarnava la Grecia, un paradiso perduto, già idealizzato ai tempi del sodalizio con Hegel e Schelling.
Ma, al di là di ogni sfogo lirico meramente personale, egli sentì nell'antichità ellenica come la sacra sostanza di ogni più alto e perfetto ordinamento naturale.
La missione del poeta, che ormai era la sua missione, era quella di richiamare nel mondo la suprema divina potenza. In odi brevi, alla maniera di Pindaro, Hölderlin invocò gli elementi primordiali della vita, facendo del popolo, Stimme des Volkes, la voce del popolo, la voce di Dio.
Ma nel giovane resta pur sempre la tristazza profonda di essere confinato un un limbo, in un grigiore di quotidiana solitudine ed estraneità al suo tempo ed al suo luogo.
Tramonta, o bel sole,
essi ti stimarono assai poco,
te, o santo, non conobbero.
E ancora:
Esenti dal fato, come il dormiente
neonato, respirano i Celesti;
castamente custodito
in umile boccio
fiorisce eterno
il loro spirito
e gli occhi beati
guardano sereni
in un'eterna chiarità.
Ma a noi non è concesso
di riposare in alcun luogo:
Dispaiono, precipitano
i dolenti mortali
ciecamente da un'ora
nell'altra,
come acqua cadente
di rupe in rupe
per anni ed anni giù nell'ignoto.
Nel 1797 uscì il primo volume del romazo lirico Iperione, che era l'espressione dell'anelito al tutto ed al divino che pervadeva in modo lancinate l'animo di Hölderlin. Iperione trova in Diotima la pura personificazione del divino, l'amore, la natura e la bellezza. Il solare Alabanda diviene l'amico fervido ed operoso. Iperione si mette in viaggio per riconquistare la libertà dei greci oppressi, ma la carneficina della battaglia distrugge sul nascere la bellezza dell'azione. Quella stessa azione, destinata, a riscattare l'umanità umiliata, diviene qualcosa che insudicia, di sangue, lo stesso ideale.
Costretto a lasciare in modo vergognoso ed umiliante casa Gontard, la vita di Hölderlin precipita in abisso senza fondo, come nel protagonista dell'Empedocle, il filosofo che si precipitò nel cratere dell'Etna.
La sua è ormai la vicenda di un folle, un diverso, un disadattato che, a differenza dell'amico Hegel, non riuscì mai a riconciliarsi con la realtà, a scoprire la razionalità del reale e la realtà del razionale.
Cose simili potremmo dire di Heinrich von Kleist, accomunabile ad Hölderlin per la tragicità del destino. Nacque nel 1777 e morì suicida nel 1811. Fu anch'egli un anticlassico, incapace di dare forma armonica ed equilibrata alla difficile convivenza tra ragione e sentimento.
Goethe lo criticò aspramente per la sua deriva truce e passionale.
Eppure, von Kleist fu impressionato, in gioventù dalla filosofia kantiana e, certamente, da quella fichtiana. Una delle sue ultime testimonianze, forse non sufficientemente nota nemmeno agli studiosi della filosofia del periodo, fu il saggio Sul teatro delle marionette, del 1810.
Per von Kleist la marionetta non era qualcosa di meccanico ed artificioso, ma l'espressione di una vita innocente ed ingenua, non ancora corrotta dalla riflessione e dalla coscienza, diretta dal burattinaio da intendersi come qualcosa che interpreta il destino (Dio), e che infonde "grazia" ai movimenti.
E' un testo che allude al tragico destino dell'uomo illuso di essere libero di scegliere le proprie azioni, la propria vita ed il proprio pensiero, e non si rende conto che propria questa sua razionalità è continuamente smentita dai fatti.
In effetti, la vita di von Kleist sembra rispecchiare questa parabola. Avviato alla squallida vita di caserma da una decisione familiare, nel 1799 se ne libera, dandosi allo studio della filosofia e della matematica.
Kant e Fichte lo convinsero, in negativo, che non possiamo conoscere ciò che veramente ci preme in modo assoluto. E, forse, sta in ciò il nucleo della sua produzione letteraria: l'assurdo di una condizione che ci ancora sempre al qui ed ora, ad un desolante presente, mentre siamo convinti, nel nostro intimo, che vi deve essere qualcosa, là fuori, oltre la cortina delle nebbie, oltre i confini fisici del mondo, che potrebbe riuscire a placarci, a dissetarci, a renderci meno aridi.
Questa contraddizione ha il sapore di un fatale demonismo: l'intima verità dello spirito non vuole accettare la cruda realtà dei fatti. E' un dissidio comune a quello dei filosofi, Hegel in particolare, ed è interessante notare come entrambi, seguendo vie del tutto diverse, e nemmeno analoghe, giungeranno alla medesima conclusione: occorre riconciliare pensiero, e nel caso di von Kleist, sentimento, e realtà.
Più facile, per Hegel, muoversi nella astratta dinamica del pensiero e del concetto; quasi impossibile per von Kleist, giacchè il sentimento non è qualcosa che si possa placare con parole, o con idee, così facilmente.
Quando si trasferì a Parigi, ansioso di trovarvi il nuovo ordine sociale della rivoluzione, il nuovo mondo promesso dall'Apocalisse cristiana, fu amaramente deluso. Forse la Germania era meglio della Francia.
Seguendo un'improvvisa suggestione proveniente da Rousseau, si trasferì in Svizzera per fare il contadino e tornare ad uno stato di natura. Il re di Prussia lo licenziò bruscamente ed il nostro ebbe una reazione da servo-padrone hegeliano: "...se lui non ha bisogno di me - scrisse - io ho ancor meno bisogno di lui. A me non riuscirebbe difficile, infatti, trovare un altro re, ma lui sì, invece, trovarsi altri sudditi."
In Svizzera, da contadino, produsse il suo primo dramma, La famiglia Schroffenstein, del 1803. E' un'allucinante sequenza di equivoci e casi fortuiti che porta, sulla scia di Romeo e Giulietta, due famiglie ostili ad una guerra insensata. Ne saranno vittime anche l'innocenza e l'amore, giacchè due innamorati, appartenenti ovviamente ai due campi avversi, cadranno sotto i colpi di piccone della logica inesorabile della vendetta e dell'odio.
Sopraffatti dal destino, dunque, vittime delle colpe dei padri.
Sempre in Svizzera, von Kleist iniziò il Robert Guiskard, un drammone che lo stesso Wieland celebrò con parole eccessive: "Se gli spiriti di Eschilo, Sofocle e di Shakespeare si unissero a scrivere una tragedia, ne nascerebbe un Guiskard conforme a questi frammenti, che colmerebbe la grande lacuna della letteratura tedesca, lasciata aperta anche da Schiller e da Goethe."
In realtà, il Robert Guiskard, a posteriori, non sembra davvero rappresentativo dell'arte di von Kleist. Tutto il dramma si riduce ad un volere e non potere del principe normanno Roberto Guiscardo che, sebbene colpito dalla peste, vuole comunque conquistare Bisanzio. Non è un caso pertanto, che von Kleist non ne abbia terminato la conclusione.
Molto più significativa resta, semmai, Anfitrione, del 1807. Protagonista della vicenda è Alcmena, moglie di Anfitrione, che viene ingannata da Zeus, il quale, subdolamente, assume le sembianze dello sposo. Già portata in scena da Molière, la storia acquista, però, con Kleist, i contorni del dramma.
Alcmena, consapevole della sostituzione e dell'inganno, precipita in una disperata confusione sentimentale, divenendo incerta tra il suo vero sposo ed il dio. Epperò, il suo sentimento interno rimane puro, poichè anche nel dio, essa continua ad amare lo sposo, sebbene, solo in quella divina apparenza egli le si riveli con uno splendore impensabile prima.
Davvero demoniaco nell'attraversare il lato tragico delle situazioni più assurde, von Kleist è una sorta di estremista senza il quale non avremmo il contrasto tra questa poetica della disperazione ed il vero romanticismo, quello teorico di F.Schlegel e quello artistico e filosofico di Novalis.
Ma, è nel Principe von Homburg che Kleist attua una sorta di svolta, prima di terminare egli stesso in modo tragico la propria esistenza. Qui, anticipando e seguendo ad un tempo la parabola della filosofia idealistica tedesca, von Kleist mostra come la ribellione possa sfociare in una riconciliazione anzichè in una rivoluzione. La rivoluzione letteraria e filosofica in Germania, sembra escludere la necessità di una rivoluzione politica e sociale, come in Francia.
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RG -16 gennaio 2002