| home | indice | indice positivismo |
La rivoluzione industriale
capitolo 1: cose ed eventi che cambiarono il mondo
di Guido Marenco
Meno di settantanni furono sufficienti a cambiare la vita, il lavoro, la ricchezza personale di decine di migliaia di persone, ed anche l'abituale colore del cielo sopra l'Inghilterra si trasformò. Da sempre mutevole, e tendente al cupo, assunse un minaccioso colore grigio e denso.
Il periodo interessato è quello che va all'incirca, secondo l'idea di T.S.Ashton, dal 1760 al 1830. Questo momento fu chiamato dagli storici "rivoluzione industriale" ed iniziò in Inghilterra. Fu caratterizzato dall'impressionante passaggio da un'economia prevalentemente agricola ed artigianale ad un'economia centrata sul sistema-fabbrica. Fabbrica significa macchine in ambiente chiuso e malsano; la macchina evoca il vapore, l'acqua, il carbone, le fucine, un rumore assordante. E' bene chiarire che il sistema-fabbrica nacque un po' prima dell'impiego massiccio della macchina a vapore. Fu nel campo della tessitura che si ebbero le novità più importanti: il lavoro venne serializzato con l'introduzione di macchine azionate dall'energia umana ed idraulica. I nomi di queste macchine erano quasi poetici, come la jenny. Ma dietro alla poesia si nascondeva l'inquietante immagine di bambini e donne che lavoravano tutto il giorno, in posizioni innaturali e malsane.
Per ragioni che vedremo in dettaglio, si ebbero fin dalla seconda metà del Settecento, progressi nella produzione tessile: nella lana, nel cotone, nella lavorazione di fustagni, di tessuti misti, nella seta. Si migliorò e si incrementò l'estrazione mineraria, si svilupparono nuove tecniche nel campo della metallurgia, l'artigianato del cuoio si perfezionò; Birmingham sviluppò una fiorente industria per la produzione di armi da fuoco e Sheffield proseguì, migliorandola, un'antica tradizione nel campo delle lame, delle picche, delle asce e dei coltelli. Stagnai e calderai, fabbri e carpentieri uscirono lentamente da un circuito produttivo chiuso e limitato a servire i dintorni. Cancelli di ghisa cesellati vennero posti in tutte le residenze di un certo tenore. Fabbriche di birra e distillerie di gin e whisky si diffusero anche per fare fronte ad una crescente domanda, ma dovettero fronteggiare la concorrenza del rum proveniente dalla Giamaica. L'artigianato nella produzione di vasellame crebbe in misura esponenziale e le stoviglie cominciarono ad entrare in ogni casa, anche la più umile. Sia le donne che gli uomini dei ceti meno abbienti cominciarono a vestire con più ricercatezza contando sul fatto che panni di lana, tessuti misti di cotone e lino erano reperibili a prezzi inferiori. Tessuti facilmente lavabili presero gradualmente il posto di quelli non lavabili. Una sorta di evoluzione igienica, non sempre vissuta consapevolmente, consigliava di lavarsi e pulire gli abiti più frequentemente.
Le case popolari divennero più linde, anche se esistono sulla questione testimonianze raccapriccianti ancora a metà Ottocento.
L'artigianato del mobile conobbe un notevole sviluppo sia a Londra che in tutta l'Inghilterra. La carta da parati cominciò a rivestire le pareti delle stanze del ceto medio emergente.
Il nuovo mercato
Ci una vera e propria rivoluzione anche nei destinatari della merce prodotta. Oggi diremmo che era nato un mercato del tutto nuovo. Mentre l'artigiano lavorava un tempo quasi esclusivamente per una ristretta piazza locale e produceva soprattutto merce di lusso acquistata da signori e ceti abbienti, poco alla volta il variegato mondo produttivo cominciò a calibrare la propria offerta con manufatti a prezzo di fascia bassa, acquistabili anche da persone con redditi minimi e precari.
Non solo; è dimostrato che questa tendenza consentì di consolidare ed estendere l'esportazione negli altri paesi europei e nelle stesse colonie i prodotti inglesi , non specchietti e perline per i selvaggi sconcertati da grande magia di uomo bianco, ma manufatti tessili, liquori torcibudella, armi, utensili, prodotti di cuoio e persino generi di lusso riservati ai nababbi dell'India ed ai mercanti arabi di schiavi in Africa.
Lo stesso incremento demografico giocò un ruolo importantissimo, sia contribuendo all'allargamento del mercato in termini di consumatori, sia offrendo all'industria più manodopera in età giovanile, quindi più duttile e fisicamente capace.
Le opinioni sulle ragioni dell'incremento demografico sono discordi, ma, in generale, tutti convengono sul fatto che aumentò l'immigrazione da Scozia e Irlanda, e questo compensò l'emigrazione verso le colonie americane; diminuì il tasso di mortalità e, soprattutto, si elevò quello di natalità. Matrimoni precoci vennero consumati più velocemente perchè il giovane capofamiglia, trovando diverse opportunità di lavoro, poteva abbandonare la casa paterna senza troppe preoccupazioni. Un miglioramento della dieta quotidiana sembra invece alla base dell'allungamento del periodo di vita. E questo è rilevante perchè in tutto il corso del Settecento l'Inghilterra ebbe numerosi caduti sui campi di battaglia. Nel 1815, al termine dell'estenuante guerra con Napoleone, i caduti inglesi furono complessivamente 350.000. Senza contare mutilati e feriti in vario modo.
Cambiano campagne
Uno degli eventi più significativi che precedettero ed accompagnarono la rivoluzione industriale in un modo che pare persino paradossale, fu la rivoluzione agricola. Essa fu possibile, come vedremo, grazie alla concentrazione della proprietà terriera in poche mani ed alla recinzione dei terreni con siepi, muretti e filari d'alberi. Le proprietà prima suddivise in piccole porzioni inframmezzate e disperse nella grande jungla della proprietà comune del villaggio, erano in genere trascurate, forse più che nella media dei paesi europei. La redditività dei suoli era tra le più basse e non solo per caratteristiche naturali. Molti contadini trascuravano la terra perchè avevano trovato più conveniente installare nella propria casa filatoi e telai per lavorare la lana. Spesso non concimavano il terreno e, comunque, non mettevano sicuramente a frutto nemmeno più le antiche tecniche. Questo disamore, che aveva portato ad un degrado della terra, fu forse la vera causa della passività con la quale i contadini reagirono al tentativo dei latifondisti di concentrare ancora di più la proprietà. Ricevettero offerte per i terreni e vendettero, senza pensare che l'agricoltura stessa, se riorganizzata, poteva diventare un business tanto quanto l'artigianato tessile. I ricchi signori che si accaparrarono le proprietà più redditizie, come a Norfolk, al contrario dei contadini, avevano fiutato la possibilità di grossi affari, sia leggendo libri che viaggiando per l'Europa ed osservando come diversamente dall'Inghilterra, venivano messi a frutto i terreni. In genere essi non promossero in prima persona l'agricoltura, ma riaffittarono le terre ad un nuovo tipo di agricoltore, ad esempio il marinaio che aveva finito l'imbarco, od il cittadino deciso a far fortuna con la terra e convinto dalla lettura dei libri o dalla conoscenza diretta dei nuovi procedimenti.
Poichè qualcosa del genere è accaduto recentemente anche in Italia con lo sviluppo dell'agriturismo, l'industrializzazione dell'ortofrutta e e degli allevamenti, e la resa definitiva di un vecchio modo di concepire l'agricoltura, si può facilmente comprendere cosa successe veramente nelle campagne inglesi nel Settecento.
Il miglioramento nella conduzione dei fondi che fece seguito alla concentrazione della proprietà, con l'introduzione di nuove tecniche di rotazione, consentì un forte incremento della produttività dei suoli. La coltivazione della patata e del mais, importati dall'America, contribuirono in modo decisivo a vincere la fame.
Strade e canali
Un secondo evento realmente decisivo fu costituito dal miglioramento del sistema di comunicazione, dalla costruzione di nuove strade allo scavo di canali navigabili tra fiume e fiume, che portò a velocizzare notevolmente il trasporto delle merci e ridurre i costi. E questo fino all'avvento della ferrovia, nel secondo decennio dell'Ottocento. Anche in tal caso caso i protagonisti dello sviluppo non furono lo stato e le opere pubbliche ma, i privati che seppero vedere in queste infrastrutture civili un'occasione di guadagno.
Per utilizzare le nuove strade occorreva infatti pagare un pedaggio ed anche i canali erano navigabili pagando una tassa. Il miglioramento nelle vie di comunicazione copriva un ritardo storico che l'Inghilterra aveva nei confronti della Francia e di altri paesi europei. I quali, a loro volta, erano però in grave ritardo sul fronte della libertà di commercio e di trasporto nei confronti dell'Inghilterra. Mentre le merci, sul suolo inglese, potevano viaggiare liberamente e l'unico vero rischio era costituito da bande di criminali che potevano assaltare i trasportatori isolati, in Europa un sistema di barriere doganali e di dazi, sia nazionali che locali, gravava in modo ossessivo sui mercanti. E questo fu probabilmente uno dei fattori più scoraggianti per lo sviluppo economico europeo fuori dall'Inghilterra.
E' molto interessante quanto scrive lo storico Christopher Hill:« Il trasporto via terra costava almeno 4 volte di più al miglio, per ogni tonnellata di quanto non costasse il trasporto fluviale; costava 20 volte più caro per il carbone, diceva qualcuno.Un cavallo poteva tirare un peso 80 volte maggiore su una chiatta in un canale che con un carro su una strada agevole, e 400 volte quello che poteva portare un cavallo da carico. Così il fatto che tra il 1600 e il 1760 le 700 miglia di fiumi navigabili in Inghilterra fossero quasi raddoppiate ebbe un'importanza decisiva. Prima dell'era dei canali, negli anni sessanta del secolo XVIII, la birra forte ordinaria aveva un'area economica di mercato all'incirca dalle 4 alle 6 miglia. Questo nei fatti limitò l'espansione dell'industria fuori Londra, e favorì la fabbricazione artigianale della birra. I canali resero possibile la vendita non solo a Liverpool, ma anche nei paesi baltici e in India, della birra chiara fatta con l'acqua di Burton-on-Trent, che era particolarmente adatta. » (C. Hill - cit.)
Ma l'abbattimento dei costi nel trasporto del carbone fu sicuramente l'evento più importante. Grazie ai canali, Manchester e l'industria del cotone poterono usufruire di una riduzione del prezzo del carbone pari al 50%. La stessa agricoltura fu largamente beneficiata in vario modo. Il carbone consentì di impiegare il letame, spesso usato come combustibile, come fertilizzante, insieme alla calce bruciata con il carbone. D'altro canto - sottolinea ancora Hill - il miglioramento della rete di comunicazione beneficiò in particolare Londra, che veniva rifornita di grano e bestiame da macello a costi nettamente inferiori ed anche d'inverno.
Le macchine
Il diffondersi delle cosiddette macchine a vapore, fire-engines, non costituì quindi il fattore decisivo della rivoluzione industriale, se non in un secondo momento. La prima fase, quella dell'espansione e del vero e proprio boom del settore della filatura del cotone, fu resa possibile dall'introduzione di macchine che funzionavano a propulsione umana, come nel caso della spinnig-jenny, e ad energia idraulica, come nel caso del water-frame. La prima si poteva acquistare con circa dieci sterline, una cifra non proibitiva, anche se non alla portata di tutti, come un pc oggigiorno in un qualsiasi paese del terzo mondo, ed essendo azionabile a mano, poteva dunque essere installata in casa, od anche in un piccolo capanno. La seconda viaggiava ad energia idraulica, e richiedeva pertanto un corso d'acqua scrosciante per essere azionata. Diventava conveniente soprattutto se concentrata in unità produttive di medie dimensioni. Le prime fabbriche che utilizzarono il water-frame furono gli opifici di Arkwright, Need e Strutt, impiantati grazie ai capitali di cui disponevano Need e Strutt, ricchi mercanti di tessuti ed imprenditori del sistema di lavoro a domicilio nelle campagne.
La chimica
Infine, va riconosciuto a David Landes il merito di avere evidenziato per primo il ruolo centrale dell'evoluzione della produzione chimica, normalmente trascurata dagli storici. Secondo Landes, la trasformazione in campo tessile sarebbe stata impossibile senza una corrispondente trasformazione nelle tecniche per candeggiare i tessuti. «Non c'erano in tutte le isole britanniche - scrive Landes - abbastanza prati a buon mercato o latte acido per candeggiare i tessuti del Lancashire una volta che filatoio idraulico e "mula" ebbero sostituito la ruota da filare; e ci sarebbero volute quantità inimmaginabili di orina umana per sgrassare la lana greggia consumata dai lanifici del West Riding. » (Landes -cit.)
Antecedenti
Qualcosa di simile al sistema-fabbrica esisteva prima dell'avvento delle macchine a vapore ed anche dei telai modificati e fatti funzionare con l'energia idraulica. Nei cantieri navali, come nelle imprese edilizie e nella cantieristica civile, l'organizzazione del lavoro seguiva un particolare modello nel quale esistevano manovali, operai semplici, operai specializzati, sorveglianti e capimastro. Anche il numero dei lavoratori impiegati era considerevole: l'arsenale di Chatham, secondo la testimonionanza di Daniel Defoe, impiegava quasi mille uomini.
Ma sarebbe riduttivo pensare che tutto il resto vivesse in una dimensione puramente artigianale. La grande manifattura nel settore tessile era già presente e saldamente organizzata nel Cinquecento e nel Seicento. John Winchcombe, conosciuto e celebre tra i suoi contemporanei come Jack di Newbury, aveva impiantato, ai tempi di Enrico VIII e Caterina d'Aragona, un grandissimo opificio, anzi, più d'uno, ed aveva alle sue dipendenze un numero incredibile di lavoranti.
Paul Mantoux riporta la seguente testimonianza: «Possediamo una descrizione curiosa, anche se non del tutto attendibile, contenuta in un libretto che narra, in versi mediocri, la storia del grande fabbricante di panni. Duecento tessitori, riuniti in una grande sala, manovravano duecento telai assistititi da altrettanti apprendisti. Cento donne erano occupate a cardare. Duecento ragazze "con gonne di stamigna rossa e con in testa pezzuole bianche come il latte, manovravano la rocca ed il filatoio. La scelta delle lane, compito di centocinquanta ragazzi, "i figli di povera gente sciocca". Il panno, una volta tessuto, passava nelle mani di cinquanta cimatori e di ottanta apprettatori. Lo stabilimento comprendeva anche una follatrice cui lavoravano venti uomini, ed una tintoria che ne teneva occupati quaranta. Probabilmente queste cifre sono esagerate. E' certo però che l'impresa di di John Winchcombe differiva, sia per il tipo di organizzazione, sia per importanza, dalle consuete forme d'industria.» (Mantoux - cit.)
Anche se non era la classica cattedrale nel deserto, ma solo un duomo in mezzo a tante chiesette, l'impresa di Winchcombe non era la sola e Mantoux cita altri nomi.
I Tudor, cioè la famiglia reale di Enrico VIII e di sua figlia Elisabetta I, non erano tuttavia favorevoli a questo tipo di concentrazione industriale, forse anche solo per evitare di sentirsi meno ricchi di Jack, come sembra accadde a Enrico VIII, che un giorno, stupito dal gran numero di carri carichi di panni che percorreva in processione le vie di Londra, chiese a chi appartenessero, e venuto a sapere che si trattava di Jack di Newbury, esclamò: "Quest'uomo è più ricco di me!".
Lo storico è forse interessato a sapere più perchè questo modello non si impose subito, e non più di duecento anni dopo, che a conoscere perchè comparve e poi scomparve così precocemente. Le risposte sono complesse. Comparve perchè i tempi, all'epoca Tudor, potevano favorire il grande capitale commerciale ed il tentivo di saltare anche l'ostacolo di un'artigianato forte ed orgoglioso, in grado di imporre i propri prezzi al mercante. Scomparve perchè non poteva che avere molti nemici interessati, dagli artigiani agli stessi reali, all'aristocrazia terriera. Costoro approvarono le misure, che potremmo definire antitrust, dei Tudor.
La grande unità produttiva, a parità di condizioni, cioè senza alcun vantaggio costituito da macchine in grado di lavorare più velocemente, producendo di più, risultava inevitabilmente battuta dalla piccola impresa, dall'agile organizzazione. Era macchinosa in senso deteriore, e più esposta ai conflitti tra padroni ed operai. Il vantaggio indiscutibile che la piccola impresa ha sempre avuto sulla grande è il clima di collaborazione familiare ed amichevole che il piccolo imprenditore intelligente sa costruire nel rapporto con i dipendenti. Che quello poco intelligente non sappia farlo, non fa che dimostrare la regola. Se un sorriso può, a volte, più di un piccolo aumento di paga, è certo che un sorriso, più l'aumento di paga ed il buon esempio, producono miracoli di produttività.
Grandi sistemi pre-fabbrica
Il lavoro, in questi grandi sistemi pre-fabbrica, veniva eseguito su comando e rispettava un orario. Certamente non era umano secondo standard attuali di valutazione, così come non lo era nell'antichità. Basta un rapido colpo d'occhio per cogliere che sotto il profilo delle tecniche produttive i progressi che vanno dal 2000 a.C al 1700 d.C furono estremamente limitati.
Nel lavoro, oltre che la forza e l'abilità fisica dell'uomo, non si poteva far altro che utilizzare l'energia animale e la forza dell'acqua e del vento. Ma non si costruivano torri, palazzi, ponti ed acquedotti né con il vento né sfruttando l'energia idrica: occorreva che molti uomini sudassero sotto il sole o si scaldassero con la fatica in un clima gelido.
Ma anche in un contesto di grande dimensione, ciò che colpisce l'osservatore più attento è che nel tempo precedente alle macchine, i ritmi del lavoro erano dettati dall'uomo. Anche lo schiavista più disumano non poteva pretendere l'ultravelocità a suon di sferza, pena la perdita del lavoratore e del suo capitale di abilità tecniche e professionali.
Con le macchine non sarà più così. Velocizzando e serializzando tutte le procedure, le macchine detteranno tempi più veloci e costringeranno i lavoratori, nel momento stesso in cui sembrava che li liberassero dalla fatica, ad un impegno ancora più concentrato, esponendoli inoltre a rischi del tutto nuovi, quali l'esplosione delle vaporiere e un ambiente di lavoro insalubre.
La nascita delle fabbriche comportò un'ulteriore evoluzione dell'organizzazione produttiva. Il punto chiave della rivoluzione industriale fu dunque questo passaggio al sistema di fabbrica, alle forme di abilità professionale e disciplina etica che richiedeva non solo agli operai. Con il sistema-fabbrica nasceva, inoltre, il proletariato moderno, che chiunque è libero di chiamare come meglio crede: manodopera, classe operaia, lavoratori. Ciò che conta è la sua caratterizzazione determinata, ovvero il fatto che il proletario non ha terre, non ha capitale, spesso si è sradicato dalla sua patria d'origine per trovare lavoro. L'unico mezzo legale di cui dispone per guadagnarsi da vivere è vendere la propria capacità lavorativa, impegnandosi in fabbrica per dodici-quindici ore al giorno, almeno cinque-sei giorni alla settimana, senza considerare che, come vedremo, già all'inizio della rivoluzione industriale, l'impiego delle macchine a vapore per far funzionare i filatoi ed i telai idraulici, consigliò l'industriale della lana di Leeds, Benjamin Gott, di introdurre il lavoro notturno per meglio sfruttare l'energia disponibile.
Ma prima di entrare nel vivo di questa storia, occorre un lungo giro di ricognizione utile a segnalare tutti i fattori che contribuirono a questa colossale trasformazione che segna il vero spartiacque tra il mondo che conosciamo e quello precedente.
I luoghi della rivoluzione
La rivoluzione industriale fu inizialmente un fenomeno tipicamente inglese e, contrariamente a quanto si crede non iniziò dalle città, ma dalle zone rurali: nei piccoli centri delle contee. E fu preparato e preceduto dalla diffusione di un sistema decentrato di produzione organizzato sul lavoro a domicilio, detto putting-out system.
Ovviamente Londra era a quei tempi una città ribollente di attività economiche e produttive: vi erano distillerie, fabbriche di birra, macelli, botteghe artigianali per la minuteria, l'abbigliamento, le parrucche (siamo nel '700!), drogherie e farmacie, attività collegate al porto, una dozzina di banche (non molte, pertanto), assicurazioni, studi legali, le sedi delle più importanti compagnie commerciali, tipografie e case editrici. Daniel Defoe la descrisse come già una metropoli con circa un milione e mezzo di abitanti. Stime meno fantasiose parlano di una popolazione di almeno ottocentomila anime all'inizio del Settecento. L'esistenza di distillerie e fabbriche di birre implicava già un'accumulazione di capitale, come sanno bene gli esperti, in grado di consentire l'anticipazione di forti somme per l'acquisto dei prodotti indispensabili come il malto.
Londra non fu tuttavia la sede delle trasformazioni più importanti.
I luoghi tipici della nascita del sistema-fabbrica concepito come capannone o edificio nel quale vengono installate macchine per la produzione di serie di prodotti tessili o per la lavorazione del ferro si trovavano altrove: a Manchester, a Sheffield, nello Hallomshire, a Nottingham e così via.
L'innesto di queste attività sul territorio non venne provocato esclusivamente da una scelta razionale operata a tavolino del tipo "andiamo qui perchè ci sono infrastrutture, siamo vicini al porto di Liverpool e la manodopera costa meno." Le prime fabbriche in senso moderno sorsero negli stessi luoghi in cui esisteva una già articolata produzione, potremmo dire una tradizione artigianale dello stesso tipo di quella impiantata. Ma, senza esagerare la razionalità dei mercanti e dei possessori di capitale, si potrebbe enfatizzare il loro fiuto per gli affari. Alcuni di loro avevano compreso, prima degli altri, che si poteva spremere con il lavoro a domicilio dei contadini molto più che dagli operai impegnati full-time nelle botteghe artigiane. In realtà, non scoprirono nulla di nuovo. Esisteva già una rete indipendente di contadini-filatori e tessitori nel campo della lana. Mezzo agricoltori e mezzo artigiani, essi lavoravano in proprio, con proprie apparecchiature fin dal tardo medioevo.
I mercanti ebbero l'idea di estendere e modificare questo sistema, offrendo ad altri contadini la possibilità di arrotondare i guadagni lavorando sia la lana che, soprattutto, il cotone importato dall'India, dalla Turchia, dalle Indie Occidentali, e più tardi, dalle colonie americane.
Ovviamente la produzione era destinata in gran parte ad un mercato senza grandi ambizioni. Il sistema di trasporti via terra era precario, quello via mare non sempre economico, la navigazione fluviale non godeva ancora di una rete di canali.
Il tipo di lavoratori addetto a queste attività era quello di un contadino o di un bracciante agricolo che nel periodo della semina e del raccolto lavorava nei campi e che nei lunghi mesi invernali filava la lana, tosava le pecore degli allevatori, cuciva gli abiti, oppure si dedicava alla trasformazione di prodotti alimentari. La base della produzione era costituita dal lavoro in casa, a cui concorreva tutto il nucleo familiare.
Molti artigiani lavoravano esclusivamente su commissione diretta del cliente. Altri, inseriti in un primo rudimentale sistema di divisione del lavoro, si limitavano a filare; altri ancora tessevano, rivendendo il panno ai mercanti della zona.
Soprattutto a partire dall'inzio del Settecento il quadro mutò significativamente quando i mercanti cominciarono a trasformarsi in imprenditori, ad acquistare essi stessi filatoi e telai, ed a distribuirli tra lavoranti a domicilio messi a contratto e pagati a cottimo.
La produzione non era di grandissima qualità, alcuni dicono mediocre. Quella di prima qualità, tuttavia non poteva mancare, ed è probabile che la parte destinata al mercato di Londra e persino all'esportazione fosse prodotta da laboratori specializzati ed artigiani e garzoni impegnati a tempo pieno.
Si deve notare quindi che gran parte del territorio inglese aveva superato la fase di un'economia di semplice sussistenza, anche se, ovviamente, non si può dire che la maggioranza navigasse nella prosperità. Bastava una carestia, un'epidemia, una serie di annate storte in agricoltura a far traballare l'intero sistema, senza dimenticare che pur essendo l'Inghilterra al riparo dalle guerre che laceravano il continente nel Settecento, molti giovani erano comunque impegnati in servizi militari e dunque, come si dice oggi, braccia sottratte all'agricoltura, alla pesca, al lavoro artigianale.
Le guerre ininterrotte
La grandezza dell'Inghilterra non fu semplicemente conquistata con il denaro ed i commerci. Essa dovette combattere guerre ininterrotte in Europa come nelle colonie e si trovò spesso impegnata su più fronti. Se il concetto di guerra mondiale non fosse legato indissolubilmente all'immagine delle trincee del 1914-18, all'uso dei gas, ai panzer ed agli stukas in picchiata, a Dunquerque ed a Stalingrado, ai giapponesi che combatterono americani ed australiani nelle jungle del Pacifico nel 43 e 44, all'olocausto finale di Hiroshima e Nagasaki, si potrebbe ben dire che la vera prima guerra mondiale fu quella dei sette anni, combattuta tra Francia ed Inghilterra sui mari, in Europa, in India, nell'America del Nord, impegnando tanto le tribù indiane del Canada: uroni, irochesi, mohicani ecc..; quanto principi e Navab dell'India: sikh, maharatti e bengalesi.
Nemmeno nel periodo dei governi condotti da Robert Walpole, all'incirca tra il 1721 e il 1749, l'Inghilterra riuscì ad essere completamente in pace. Ma a differenza di molte nazioni continentali, riuscì sempre a tenere lontano il fronte. Le furono evitate quelle distruzioni che invece colpirono profondamente altri paesi europei e che quindi ritardarono il loro sviluppo economico.
Lo storico canadese Georges Rudè sottolinea, inoltre, una componente "fortuna". L'Inghilterra non venne colpita da carestie, a differenza del resto d'Europa, nei momenti più critici. Ma, secondo Ashton, le carestie vi furono, anche se in misura ridotta. Nel capitolo conclusivo della sua opera sulla rivoluzione industriale, cita alternanze di carestia e raccolti riusciti che condizionarono in vario modo lo sviluppo inglese: il 1756-57; il 1768-69; il 1772-75; il 1782-83; il 1795-96, periodo nel quale l'Inghilterra era già impegnata contro la Francia rivoluzionaria; il 1799-1801, il 1804-1805, il 1809-13; il 1816-19. Secondo Ashton, questi periodi furono condraddistinti da momenti di crisi generale. Tra il 1775 ed il 1782, inoltre, il paese fu intensamente provato dall'impegno nella lotta contro la rivolta dei coloni americani. Tutto il mondo civile simpatizzava per questa causa, anche perchè tutti speravano in un ridimensionamento economico e militare dell'Ingh ilterra. E questa lunga guerra fu certamente più dannosa delle carestie citate da Ashton.
L'espansione commerciale
Una grande crescita dei commerci precedette il boom industriale e in un certo senso lo reclamò; ma senza le innovazioni tecnologiche, non vi sarebbe stato lo sviluppo che conosciamo. L'espansione commerciale di per sè era già stato un fattore trainante nell'antichità: greci e fenici avevano costruito il loro impero mediterraneo esclusivamente su basi economiche e non certo su quelle militari. Ma il loro sistema aveva in sè qualcosa che ne limitava fortemente la portata. La produzione dei beni stessi era chiusa e ripetitiva, il catalogo dei mercanti, gira e rigira, era sempre lo stesso: tutto funzionava quando al mercato arrivavano merci essenziali quali il grano o il bestiame. Tutto diventava precario e fortunoso quando le stoffe, l'oro, i gioielli finemente lavorati, la chincaglieria non incontravano più il gusto dei compratori, o quando vi er a carenza di denaro, o carestia, o guerra. L'età del ferro era stata segnata da un serio progresso nella metallurgia. L'attività edilizia si era via via perfezionata, toccando nell'arte greca dei vertici ancora insuperati. Ma tutto era, per così dire, terminato lì, in quella fase che conosciamo come declino dell'impero romano e trionfo delle invasioni barbariche.
Il segreto della prosperità greca e fenicia era stato quello di saper costruire navi da trasporto veloci ed affidabili e di saperle usare, sfidando tempeste ed odissee di vario tipo. Vi era dunque alla base del potenziale commerciale una vera potenza produttiva. Senza le navi fatte dall'industria antica, il commercio non sarebbe stato quello che è stato ed avremmo conosciuto la Grecia solo come espressione di un popolo di pastori, mediocri agricoltori, e al più architetti e scultori. Gli intrecci da cogliere quando si cerca di fare una storia economica, od anche politica e culturale, sono dunque molti e non sono sempre facilmente distinguibili.
Chiunque osservasse che non si fanno cantieri navali se non c'è denaro sufficiente per mantenere schiavi o pagare il salario alla manodopera, avrebbe ragione. L'impresa di grandi dimensioni richiede capitale, ed il capitale si accumula o commerciando o rapinando i forzieri altrui. Ma all'inizio la flotta di Atene era costituita da barche più che da navi e gli addetti alla costruzione non erano molti. Il vero capitale iniziale fu dunque costituito dalla forza delle braccia, dall'ingegno della mente e dalla disponibilità di legname.
Un punto di forza non trascurabile a vantaggio dei greci fu la democrazia politica di Atene ed un forte spirito d'avventura e d'iniziativa personale. Non dietro ad un capo carismatico, ma ognuno per conto suo o, al più in società con altri. Persino la mitologia, con la storia di Giasone ed il vello d'oro, sostiene questa tesi. I fenici avevano, probabilmente, lo stessa tempra, ma non avevano la democrazia e, soprattutto non avevano la filosofia, cioè una mentalità scevra da superstizioni. Ancora a Cartagine si praticava una religione nella quale erano previsti sacrifici umani per accattivarsi il favore degli dei. E il sistema rituale-sacerdotale aveva un suo costo di mantenimento che si traduceva in tasse. Non che in Grecia mancassero templi e santuari mantenuti con offerte e tributi, ma sicuramente il politeismo gaudente dell'Olimpo aveva un pregio: ognuno poteva scegliersi il dio o la dea al quale votarsi, anche se il culto di Athena ad Atene era indubbiamente dominante e quello del dio Hermes, santo protettore dei ladri e dei mercanti, nonché inventore della scrittura, non richiedeva sacrifici umani, il pagamento di tasse od offerte, ma solo intelligenza sufficiente. La tragedia greca propone un solo caso di sacrificio umano esplicitamente richiesto, quello di Ifigenia, figlia di Agamennone, alla vigilia della guerra di Troia. Il genio di Euripide, probabilmente, risiede nel fatto che mostrando a quanto possa condurre la credulità umana, la fede riposta in falsi dei e falsi veggenti, si possa comunque incontrare un deus ex-machina che salva gli innocenti. Provvidenza o colpo di fortuna? Comunque sia, un lieto fine che tutti preferiscono alle tristezze della conclusione tragica tradizionale, alla colpevole cecità di Edipo. Qualcuno ha osservato, giustamente, che senza questo ottimismo nella soluzione di problemi che la stessa superstizione umana si è costruita, non vi sarebbe stato progresso. Condivido questa opinione.
Tra la visione di Euripide e quella di alcuni lungimiranti ed avventurosi inglesi del settecento c'era almeno questo punto in comune: un pizzico di ottimismo e tanta fiducia nel deus ex-machina.
La concorrenza olandese, italiana e portoghese - il commercio di schiavi
Dovendo occuparci dell'espansione commerciale inglese è opportuno specificare che quantomeno Italia e Olanda erano sicuramente in uno stadio più avanzato rispetto all'Inghilterra, e che portoghesi e spagnoli erano arrivati primi nella spartizione delle conquiste di nuove terre negli altri mondi. Amsterdam era la regina del Nord e le repubbliche marinare, specie Genova e Venezia, quelle del sud, per non parlare di Firenze, collegata all'eterna rivale Pisa da una sorta di cordone ombelicale.
Ma ad un certo punto la situazione prese a modificarsi per il semplice fatto che né genovesi, né veneziani, né pisani erano in grado di solcare gli oceani, non avendo la copertura di forti stati nazionali alle spalle e non essendo nella posizione geografica migliore.
Venezia doveva inoltre vedersela coi turchi e con la pirateria saracena, e più tardi con l'Austria, per non parlare dell'acqua alta e dell'eterno problema di come fermare le alluvioni. Fece miracoli al pari degli olandesi, ma non furono sufficienti.
Con la scoperta dell'America e la colonizzazione di vaste aree dell'Africa e dell'Asia, il baricentro del mondo si era spostato e l'Inghilterra era anche in una buona condizione geografica per approfittarne. La concorrenza olandese, spagnola e portoghese era comunque spietata e per lunghissimo tempo furono soprattutto i portoghesi ad espandersi, a partire dalla conquista di Ceuta, un porto posto sulla riva africana dello stretto di Gibilterra nel lontano 1415. Questo avamposto fu strappato con la forza agli arabi che ancora lo controllavano e poco dopo i portoghesi occuparano Madera nel 1420, costruirono un forte ed un deposito sull'isola di Arguin, al largo della Mauritania nel 1448, ed un secondo forte nella Baia del Benin nel 1482. Solo un anno dopo erano alle foci del Congo e nel 1487 circumnavigarono il capo di Buona Speranza. La via per l'India era aperta.
Ci volle quasi un secolo perchè l'orizzonte si ampliasse a tal punto da consentire il trasporto di merci acquistate o rapinate, a seconda dei casi, da lontane contrade un tempo raggiungibili solo attraverso estenuanti ed insicuri viaggi via terra.
Dopo la scoperta dell'America, i portoghesi sbarcarono in Brasile e già nel 1530 cominciarono a dedicarsi al commercio degli schiavi prelevati in Africa ed a trasportarli in America del Sud per farli lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e cotone.
Nel frattempo anche gli spagnoli erano scesi in campo, avevano conquistatato Messico e Perù e occupato le Filippine nel 1564.
Ma furono gli olandesi, alla lunga, a vincere la partita commerciale. Nel 1602 era stata costituita la Compagnia Olandese delle Indie Orientali con l'evidente scopo di intaccare il monopolio portoghese nel commercio delle spezie. Nel 1621 venne fondata la Compagnia olandese delle Indie Occidentali. Entrambe avevano natura privata, erano cioè consorzi di mercanti e costruttori di navi, con alle spalle una solida struttura finanziaria.
Sebbene in ritardo, anche gli inglesi diedero vita a compagnie simili a quelle olandesi. Per ragioni di spazio non possiamo toccare in dettaglio lo svolgersi di questa conquista commerciale del mondo, ma evidenziare solo alcuni punti.
Il primo consiste nella globalizzazione dei fenomeni economici e commerciali. A partire dal Cinquecento e dal Seicento è evidente che la lotta per il dominio in Europa assumeva un carattere mondiale ed era strettamente intrecciato al controllo dei mercati e delle vie di comunicazione marittime.
Gli inglesi ebbero infine la meglio su portoghesi, spagnoli e olandesi perchè seppero combinare meglio la potenza militare, che mancava agli olandesi, all'iniziativa dei mercanti privati associati in Compagnie, che veniva scoraggiata da portoghesi e spagnoli.
Ma vinta questa partita con iberici ed olandesi, dovette presto vedersela con la Francia, anch'essa lanciata nell'espansione coloniale, sia in India che in America.
Il commercio degli schiavi si rivelò presto redditizio. Gli indios amerindi si erano mostrati poco adatti a lavori di fatica. I neri africani, al contrario, parevano mediamente più robusti e più remissivi. Alcuni studiosi hanno sottolineato che questa tesi è discutibile, affermando che gli indios erano inaffidabili perchè ancora inseriti in un ambiente familiare e quindi tentati da una ribellione. La vicinanza con i loro fratelli liberi era un potente incentivo a tentare la fuga e persino a lottare per la libertà.
I portoghesi furono i primi a rendersi conto del business della schiavitù e le cronache sono piuttosto impietose nei loro confronti. I peggiori schiavisti e negrieri furono loro indubbiamente, ma gli inglesi non furono poi molto diversi. Fino al 1807, anno in cui il commercio di schiavi fu proibito per legge, valenti marinai e davvero perfidi mercanti prosperarono traghettando carne umana dalle coste dell'Africa ai porti centro-americani, in Giamaica e nelle colonie meridionali del Nord-America. Di qui ripartivano per l'Europa con le stive piene di prodotti tipici americani come il tabacco, il rum, lo zucchero di canna, il cotone, il caffè che rivendevano sui mercati europei per poi ripartire per l'Africa con le stive piene di manufatti smerciabili in quelle zone. Com'è ben visibile, si trattava di un percorso triangolare nel quale ogni viaggio prevedeva comunque un carico e doveva produrre un profitto.
Con qualche esagerazione, come testimonia il libro Capital and Slavery di Eric Williams, si potrebbe dire che il profitto derivante dal commercio degli schiavi, con i suoi connessi, fornì agli inglesi il capitale necessario alla rivoluzione industriale. L'economista Malachy Postlethwayt, che scriveva all'epoca, e difendeva gli interessi dei mercanti aggregati nella Compagnia Reale Africana, affermò che "il commercio dei negri e le naturali conseguenze che ne derivano possono essere giustamente considerate una fonte inesauribile di ricchezza e di potenza navale per questa nazione." Il commercio degli schiavi era, per Postlethwayt, "il principio primo ed il fondamento di tutto il resto, la molla principale che mette in movimento ogni ruota."
Indubbiamente le esportazioni rappresentano la prova fondamentale della vitalità di un'economia, almeno quanto il volume delle importazioni costituisce la prova dell'esistenza di un mercato interno e, quindi, di una liquidità, ovvero di una relativa disponibilità di denaro derivante da un reddito. Ma se ci limitassimo a contabilizzare ciò che entra e ciò che esce dai confini di un solo paese, potremmo consentire con T.S. Ashton, che scrive: « Gli storici, in genere, hanno prestato troppa attenzione al commercio con terre lontane. La stragrande maggioranza del commercio di importazione ed esportazione si svolgeva con il continente europeo ed in particolare con i paesi più vicini alla Gran Bretagna. In confronto a questo, il traffico con l'India, con le Indie Occidentali e l'America del Nord era scarso, e quello con l'Africa insignificante Le fortune accumulate dai membri della Compagnia delle Indie orientali non debbono far perdere di vista il fatto che chi edificò il commercio britannico in questo periodo non furono le organizzazioni monopolistiche trafficanti in oro e in schiavi ma i singoli mercanti di Londra, degli altri porti, delle decine e decine di città all'interno, che trattavano merce d'uso comune. Il commercio con il Baltico, donde la Gran Bretagna traeva materiale per i suoi cantieri, aveva maggiore importanza politica ed economica che non tutto il traffico con i paesi tropicali.»
Il colonialismo e le guerre "mondiali"
Tutto questo è indubbiamente vero, ma rappresenta solo una parte della verità storica.
Innanzi tutto perchè l'espansione tessile che costituì la base stessa della rivoluzione industriale si fondò sul boom del cotone.
Tutto il cotone che veniva lavorato in Inghilterra, veniva acquistato nelle colonie. Ciò mise parzialmente in crisi il fiorente artigianato laniero basato sul lavoro a domicilio e creò forti tensioni, delle quali parleremo.
Inoltre bisogna considerare che mille bilanci di 100 sterline creano un volume d' affari di 100.000 sterline, ma non sono pari ad un solo consuntivo di 100.000 sterline se non in termini numerici. Il potere economico, il vero e proprio potere politico derivante da un unico giro d'affari di 100.000 sterline è infinitamente superiore a tante piccole partite di 100 sterline. Se si comprende questo punto, è evidente che nemmeno con l'Africa il rapporto commerciale fu insignificante. Come abbiamo già accennato, le navi inglesi della Compagnia Reale Africana e della Compagnia dei mari del Sud lasciavano i porti, in particolare Liverpool, con le stive piene di manufatti tessili e prodotti di ferramenta fabbricati a Sheffield ed a Birmingham, quindi anche armi, asce, picche, aratri e fucili; arrivavano sulle coste africane e qui i mercanti vendevano e scambiavano le loro merci, realizzando un profitto considerevole. Con il ricavato, o semplicemente con un baratto, compravano schiavi e li trasportavano in America, dove vendevano la merce, realizzando un altro considerevole profitto. Infine, compravano prodotti americani, quindi soprattutto cotone, partivano per l'Inghilterra e qui giunti, vendevano, realizzando un ulteriore fortissimo guadagno. In pratica, i mercanti delle compagnie citate, con un solo lungo viaggio, per quanto estenuante e denso di pericoli, guadagnavano molto di più rispetto ai singoli mercanti ed alle compagnie impegnate nel commercio con l'Europa.
Anche olandesi e portoghesi facevano altrettanto, ovviamente. Ma, a lungo andare gli inglesi si rivelarono più efficienti, anche perchè spagnoli e portoghesi privilegiavano un certo tipo di merce: l'oro, che di per sè può dare lavoro a qualche orefice, ma non come il cotone a migliaia di persone. L'oro dava ricchezza immediata, ma se non veniva investito, non alimentava alcun tipo di economia. Gli olandesi potevano vendere tessuti in Africa, ma non armi e prodotti di ferramenta perchè le loro industrie non li producevano.
Dei portoghesi non si può dire molto, ma è certo che tantissimo di quello che portavano in Africa non veniva prodotto in Portogallo, ma acquistato in Europa, soprattutto in Spagna, come i prodotti in lana delle pecore merinos. L'Inghilterra era favorita dall'avere alle spalle una robusta industria manifatturiera.
Quanto al rapporto con l'India, va osservato che gli inglesi erano inizialmente sfavoriti: avevano meno liquidi rispetto agli olandesi in un rapporto di uno ad otto. Per questo dovettero spesso ricorrere a prestiti nella stessa India che, rispetto all'Africa si presentava come una società civile ed economica molto più articolata e vitale. I loro fiduciari erano rajah, mercanti e notabili locali. Tutto il Seicento fu segnato da queste difficoltà, e gli agenti della Compagnia delle Indie Orientali dovettero fare gran conto sulla benevolenza dei Moghul che risiedevano a Delhi ed erano di religione mussulmana.
« Fu solo nel XVIII secolo - scrive Eric R. Wolf - quando il potere dei Moghul declinò e i bellicosi Maratti si impadronirono di gran parte dell'entroterra del Surat, che alcune famiglie di mercanti locali richiesero la protezione della Compagnia... Non appena declinarono Surat e il commercio occidentale, il traffico con l'Oriente - Cina, Filippine, Indonesia - aumentò. I mercanti inglesi furono particolarmente bene accolti sulla costa del Coromandel dell'India Sud Orientale. Su questa costa, situata fuori dal raggio d'azione dei Moghul, essi non erano più ostacolati dal potere dei clan mercantili come a Surat, e poterono stabilire contatti con molti commercianti minori per inseririsi nella fiorente produzione tessile dell'entroterra. » (da L'Europa e i popoli senza storia - Eric R. Wolf - Il Mulino -Bologna, 1990)
Nel 1690 fu fondata una colonia inglese a Calcutta, nel Bengala, con l'evidente scopo di approfittare della decadenza dell'impero dei Moghul. Il Bengala poteva offrire tessuti, zucchero, riso, oppio, indaco e salnitro. In breve sorsero nella regione oltre 150 stabilimenti con magazzini. I rapporti con i potenti mercanti-banchieri di Calcutta consentirono alla Compagnia delle Indie Orientali di avere forti crediti e quindi investire nei tessuti prodotti localmente. Quando, poi, scoppiò un conflitto tra i Navab (anglicizzato in Nabob, da cui la parola nababbo significante ricchissimo)e gli zamindar, che non erano di religione islamica, e non volevano pagare i tributi ai Navab legati al Moghul mussulmano di Delhi, gli inglesi appoggiarono apertamente gli zamindar.
Nel 1757 il conflitto sfociò in una battaglia a Plassey e vi parteciparono attivamente truppe inglesi e francesi, schierate su fronti opposti. I Navab, appoggiati dai francesi furono sconfitti. Il tentativo francese di avere un proprio impero coloniale in India ebbe termine e gli inglesi, o meglio, i mercanti associati nella East India Company, rimasero i padroni della scena.
« Sull'onda della vittoria, la Compagnia dell e Indie Orientali depredò la tesoreria dello Stato del Bengala di ben oltre cinque milioni di sterline, e impose, inoltre il monopolio sulle esportazioni e le importazioni. Stabilendo i prezzi a proprio vantaggio, spodestò la classe mercantile locale e, tra il 1775 e il 1780, ricavò un profitto di altre cinque milioni di sterline. Servendosi di intermediari indiani, che spesso conquistavano posizioni notevoli grazie alla Compagnia, guadagnò il controllo diretto su oltre 10.000 tessitori bengalesi i cui contratti obbligavano a rapporti commerciali esclusivi con la Compagnia.» (da L'Europa e i popoli senza storia - Eric R. Wolf - Il Mulino -Bologna, 1990)
Il resto di questa storia è a pieno titolo la vicenda di conquista e di colonizzazione di tutta l'India che conosciamo a grandi linee.
I mercanti della Compagnia non furono più semplici ospiti in cerca di affari lucrosi, ma divennero i signori del nuovo regime anglo-indiano. Presero dimora nei palazzi più sontuosi e nelle ville dei migliori quartieri. Si contornarono di servitori, domestici, cuochi e lacchè, presero, com'era d'uso, una o più amanti indiane, scegliendole tra le più belle prostitute istruite al kamasutra, alla maniera dei nababbi precedenti. Con il Permanent Settlement del 1793, gli inglesi introdussero le loro leggi nel Bengala. Agli zamindar fu concesso lo status di proprietario terriero e fu loro imposto di versare all'amministrazione inglese i nove decimi dei tributi riscossi dai loro contadini. Ciò ebbe un effetto notevole sulla situazione interna al Bengala e provocò direttamente un generale impoverimento dei contadini, costretti a trasformarsi in braccianti agricoli per gli zamindar. Ma, indirettamente, la nuova situazione mandò in rovina l'artigianato tessile di alta qualità. Molti di questi artigiani divennero semplici operai al soldo dei nuovi padroni.
Tutta questa vicenda, che andrebbe approfondita anche sul versante americano e sul ruolo che giocarono le Compagnie inglesi della Baia di Hudson e delle Pellicce in Canada e nelle colonie dell'Est, esercitò dunque un'influenza tutt'altro che insignificante nell'afflusso di capitali dalla periferia al centro dell'impero. Ad emergere dalla competizione commerciale non furono gli onesti commercianti in ferro, carbone e legname che battevano le rotte per il Baltico o quelle del Mediterraneo, ma i pescecani delle Compagnie. E furono le loro ingenti fortune a costituire la più potente forma di concentrazione finanziaria mai vista in Inghilterra e, forse, nel mondo fino ad allora. Quali vie prese questa fortuna e come venne impiegata?
Il riciclaggio dei capitali
I libri di storia non "cantano" su questo punto. Se è vero che i nuovi nababbi non erano inclini a riciclare il denaro sporco in imprese industriali, ma piuttosto a spassarsela, è vero allora che tutto questo considerevole capitale entrò nel ciclo finanziario della rivoluzione industriale in maniera indiretta. I nuovi ricchi spesero i loro danari per avere terre, residenze di caccia, ville, belle donne, carrozze, cavalli e servitù. L'industria edile conobbe un forte incremento e, da qui il capitale passò di mano in mano, fino a giungere all'industria tessile e metallurgica attraverso le banche od il portafoglio di ricchi mercanti.
Ma come escludere eccezioni? Non tutti i pescecani erano e sono così fragili psicologicamente da rinuciare a lavorare perchè già ricchi. Tutt'altro: molti mercanti specializzati nel rapinare i popoli d'oltremare, intrapresero attività produttive in patria, anche se con uno stile diverso.
Nell'introduzione a Prometeo liberato, probalmente il lavoro più aggiornato sulla rivoluzione industriale, anche se io ritengo ancora primaria e fondamentale l'opera di Paul Mantoux per l'ampia messe di dati e storie ivi raccolte, David S. Landes sostiene la tesi che il colonialismo di per sè non produsse la rivoluzione industriale e argomenta sostenendo che Spagna e Portogallo, vivendo e prosperando con il colonialismo, si abituarono a vivere di tributi invece che di lavoro. Messa così la questione, non si potrebbe che dare a ragione a Landes ma, poichè c'erano paesi in Europa che vivevano di lavoro e non di tributi, come la Svizzera e alcuni principati tedeschi, ci si dovrebbe chiedere perchè la rivoluzione industriale non cominciò in Svizzera o in Germania, tanto più che spesso si sottolinea che lo spirito del capitalismo è un'espressione diretta della cultura protestante e l'Inghilterra non era un paese a maggioranza protestante, ma anglicano, con una gerarchia religiosa simile a quella cattolica.
La risposta ovvia è che a questi paesi mancavano i capitali necessari allo sviluppo, nonostante i cantoni svizzeri fossero ricchi, e soprattutto mancava l'impulso all'invenzione tecnologica ed alla manipolazione delle risorse che era presente in Inghilterra. L'artigianato ed il lavoro a domicilio nella forma del putting out system erano diffusi in Europa e sarebbe davvero fare cattiva storia descrivere il centro Europa, o il nord dell'Italia, come aree arretrate e rurali, prive di cultura, dove si viveva in catapecchie perchè nemmeno l'edilizia prosperava.
L'altra domanda potrebbe riguardare la Francia. Nel settecento essa viveva sia di tributi che di lavoro, ma i più spremuti dai tributi erano i francesi stessi, costretti a mantenere l'indecente nobiltà di Versailles. Tuttavia la Francia era all'avanguardia nella ricerca scientifica, molto più dell'Inghilterra. Se non avvenne un significativo rivoluzionamento nelle tecniche produttive fu perchè si trattava di scienza astratta, del tutto priva di un vero interesse per le applicazioni tecniche. Persino in campo medico-biologico esisteva una frattura profonda tra la biologia teorica dei vari Buffon e la medicina pratica dei medici, i quali erano spesso ignoranti come capre. In Inghilterra, al contrario, la scienza, quel poco di scienza che circolava allora , costituiva un sapere più diffuso e più alla mano. Non era chiuso nelle università, ma richiamo di valenza associativa, che aveva portato alla costituzione di società per lo sviluppo della conoscenza scientifica come la Royal Society ed altre benemerite associazioni locali.
Su tutti questi punti le cose migliori le ha scritte T.S. Ashton.
« Questa stretta associazione tra industria e dissenso religioso è stata spiegata in vario modo. Si è detto ch'era naturale che chi cercava nuove forme di culto battesse sentieri nuovi nel campo dell'attività mondana. Si è sostenuto che c'è un intimo nesso tra i principi peculiari del nonconformismo e le regole di condotta che guidano al successo negli affari. E si è affermato che l'esclusione dei dissenzienti dalle università e dalle cariche amministrative e di governo costrinse molti a cercare nell'industria e nel commercio uno sfogo alle proprie capacità. Può darsi che ognuna di queste tesi contenga una parte di vero, ma una spieg azione più semplice sta nel fatto che i nonconformisti, in generale, costituivano il settore più istruito delle classi medie.» (Ashton -cit.)
I migliori talenti di quel periodo uscirono dalla Scozia presbiteriana, dalle Università di Glasgow ed Edimburgo e non da Londra, Oxford e Cambridge. Il sistema elementare scozzese era il più progredito d'Europa. Continua Ashton: « Molti giovani, attratti dalla dottrina e dalla personalità di Joseph Black, professore di chimica a Glasgow e poi a Edimburgo, vennero iniziati a metodi di pensiero e di sperimentazione che più tardi furono rivolti a scopi industriali; tra questi giovani ci furono James Keir, pioniere dell'industria chimica e vetraria, e (se è lecito allargare il circolo fino a comprendere anche coloro che senza essere scolari di Black dovettero molto al suo insegnamento e alla sua amicizia) John Roebuck, James Watt e Alexander Cochrane, il brillante ma sfortunato conte di Dundonald. In forme più modeste, le accademie create dallo zelo pedagogico dei nonconformisti a Bristol, Manchester, Northampton, Daventry, Warrington e altrove svolsero, nell'Inghilterra del secolo decimottavo, un ruolo analogo a quello svolto dalle università in Scozia. Aperte a tutti, senza discriminazioni di fede, consentivano corsi di studi che, per quanto appesantiti da teologia, retorica e antichità ebraiche, comprendevano matematica, storia, lingua francese e contabilità.» (Ashton - cit.)
Forse tutto questo non è sufficiente a dare spiegazioni definitive, ma certo contribuisce a chiarire meglio le condizioni che fecero la differenza tra l'Inghilterra ed il resto d'Europa.
Nel terzo capitolo del Prometeo liberato, Landes insiste sulle differenze tra Inghilterra e continente indicando fattori geopolitici, demografici, ed economici che ebbero la loro importanza nell'ostacolare lo sviluppo anche in Inghilterra. Il commercio era ostacolato dalla difficoltà di trasporto e dalle barriere doganali. I mercanti non erano liberi di imprendere ed erano torchiati da un sistema fiscale idrovoro, non c'erano soldi abbastanza ed i poveri d'Europa erano più poveri dei poveri inglesi e giravano alla larga dai mercati e da merci che non potevano permettersi. Preferivano il fai da te nell'abbigliamento, spesso non avevano scarpe ed erano sostanzialmente sempre quasi al di sotto di un'economia di sussistenza. Qui, a mio avviso, fatto salvo che la rivoluzione francese fu sostanzialmente provocata dall'iniquità e dalla insostenibilità del sistema delle tasse, si esagera un benessere inglese dei poveri del tutto irrealistico e si amplifica una miseria europea che in realtà non era così marcata, quantomeno al di qua dell'Elba, in Boemia, in Ungheria ed in Austria, nell'Italia settentrionale e centrale, in Svizzera, nella stessa Francia, per non parlare delle Fiandre o dell'Olanda, che era forse il paese più ricco d'Europa. Torneremo su questi punti nel capitolo relativo agli sviluppi industriali in Europa ed in Italia ma, è bene averli presente subito.
Complessi rapporti tra commercio e produzione
E' semplice difficile stabilire se sia nato prima l'uovo o la gallina, ed è pertanto questione spinosa stabilire se sia stato il commercio a stimolare la produzione, o viceversa la produzione a cercare sbocchi commerciali sempre più ampi. Certo è che senza flotta e senza un sistema affidabile di trasporti non si va lontano se non a dorso di cammello o di somaro. La tesi che il commercio preceda l'industria è dunque altrettanto estremistica di quella che vuol far precedere l'industria al commercio. Sono fasi complementari che finiscono per incontrarsi e cooperare perchè questa è la prima legge dell'economia: ciò che è indispensabile deve essere prodotto, comprato e consumato. Il commercio stimola l'artigianato a produrre meglio per vendere di più e più lontano. L'artigianato può solo avvalersi dei canali commerciali per non trovarsi i magazzini intasati di merce invenduta ed andare presto in malora. Se il commercio sostiene l'artigianato, esso può ampliarsi e poco alla volta diventare piccola industria. Ma, non sono del tutto sicuro che questa sia una sorta di legge basica dello sviluppo economico. La storia economica dell'Inghilterra dimostra, semmai, che la grande industria nacque dall'associazione di capitali, di uomini col talento degli affari, ed altri con quello della perizia tecnica.
L'artigianato divenne semmai un'ostacolo all'espansione industriale ed un concorrente che richiese più volte la protezione dei governi per tutelare il patrimonio economico e professionale, la tradizione corporativa contro i devastanti sviluppi industriali.
Possiamo dire che la separazione delle carriere tra artigiani e commercianti fu un fatto piuttosto antico. Entrambi i mestieri richiedono tempo e quindi, a lungo andare una scelta. Ancor oggi vi sono botteghe artigiane nelle quali la stessa persona produce e vende i suoi manufatti. Ho sotto gli occhi un meraviglioso individuo che produce mobili e suppellettili in vimini e alza gli occhi dal lavoro solo quando entra un cliente. Ci sono oggi assemblatori che producono e vendono i loro pc artigianali; ma in generale lo stile aggressivo ed errabondo del mercante, che spesso è oggi un rappresentante di commercio, mal si sposa alla regolare e tranquilla esistenza dell'artigiano. La sopravvivenza di questi mestieri è oggi profondamente contrastata dall'organizzazione della grande distribuzione in catene di supermarket, che è speculare al sistema-fabbrica, e la cui storia ripete quella della rivoluzione industriale: il dettagliante sparisce, il pesce grosso mangia quello piccolo. I dettaglianti rimarranno, ma sempre più dovranno specializzarsi nella qualità e nell'originalità dei prodotti.
Anche nel Seicento e nel Settecento per fare i mercanti occorrevano molte doti: l'astuzia, la conoscenza delle lingue, una cultura media ed aggiornata, una rudimentale psicologia, una carica aggressiva, una superiore capacità diplomatica e discorsiva, una grande abilità nel persuadere o nel confondere il cliente. E soprattutto una profonda conoscenza dei mercati, delle monete, del valore delle merci, non disgiunta da quel che si chiama il fiuto degli affari ed una certa capacità di previsione.
Paul Mantoux afferma che senza un precedente sviluppo commerciale il progresso dell'industria sarebbe stato impossibile. Cita come esempio i rapporti che hanno legato il porto di Bruges all'industria tessile delle Fiandre nel Duecento e l'esempio della simbiosi tra i porti di Genova e Venezia con lo sviluppo della manifattura nell'Italia settentrionale.
« Non sono questioni che si possono trattare di sfuggita. -dice Mantoux- Ciò che comunque possiamo affermare, è che prima dell'avvento della grande industria, la potenza commerciale di un paese non era affatto proporzionale alla sua potenza industriale. L'esempio dell'Olanda basterebbe a dimostrarlo. Nel secolo XVII, l'Olanda è stata, dal punto di vista commerciale, la prima nazione del mondo intero. Ma le navi olandesi non caricavano merci olandesi. Trasportavano indifferentemente, verso ogni destinazione, derrate coloniali delle due Indie, metalli dei paesi Baltici, o stoffe preziose dell'Oriente. Gli olandesi erano soltanto dei commissionari e i loro grandi porti dei semplici magazzini. Nell'immenso movimento di capitali, di uomini e di idee, al cui centro era la piccola Olanda, l'industria non poteva trovare condizioni migliori per svilupparsi. Tessitorie di panno, tela e velluto, cristallerie, laboratori per la sfaccettatura dei diamanti, per non parlare degli arsenali, dentro o in prossimità dei porti, vennero creati in Olanda. Ma queste industrie, benchè fiorenti, non contribuirono che in minima parte alla ricchezza del paese. La più importante di tutte, quella delle costruzioni navali, non era che l'ausiliaria del commercio marittimo, cui doveva la prosperità se non la stessa esistenza.»
Ma, come abbiamo visto, l'esistenza del commercio marittimo doveva la sua stessa esistenza ai cantieri navali. Non si rischia di passare per pedanti se si insiste sulla reciprocità e la complementarietà, e non su una presunta egemonia fondamentale di un settore sull'altro..
Certamente il commercio determinò e condizionò, in alcuni casi specifici, la produzione artigianale.
L'importazione di tessuti prodotti in Olanda ed in India pose presto all'ordine del giorno una questione molto seria: erano prodotti migliori, che incontravano il gusto di quelli che se li potevano permettere.
Documenta Eric R. Wolf: «Le tecniche olandesi per tingere e rifinire gli abiti erano superiori a quelle di cui disponevano gli inglesi. Per affrontare la concorrenza olandese, gli inglesi ripiegarono su un prodotto più economico. Al posto delle "vecchie drapperie" non tinte, non rifinite, interamente di lana, che avevano prodotto fino ad allora, essi si volsero alla produzione di "nuove drapperie" - tessiture di lana con seta, lino o cotone - nonchè di tessuti pettinati più leggeri, in cui sia l'ordito sia la trama erano di lana cardata.»
I produttori inglesi erano in grado di produrre a costi inferiori perchè i lavoranti a domicilio del putting-out system, abitando in campagna, non avevano grandi pretese salariali, mentre in Olanda il costo del lavoro era più alto. Ma questo vantaggio dei costi inferiori non ebbe effetto sull'importazione di merci indiane.
Scrive ancora Wolf: « L'India produceva tessuti più economici e tecnicamente migliori di qualsiasi stato europeo. La cotonina indiana o calicò, così chiamata dalla città di Calicut sulla costa del Malabar, divenne di gran moda in Europa. Sia la Compagnia delle Indie orientali britannica, sia quella olandese, iniziarono dunque a commissionare ai tessitori indiani la produzione di calicò secondo i gusti europei: esse iniziarono ad importare in Europa il calicò indiano per stamparlo con disegni europei. Anche la seta e le mussoline indiane divennero popolari in Europa, e le due compagnie le importarono insieme al cotone indiano; soprattutto quello proveniente dal Bengala. »
Su pressione della forte lobby dei produttori di lana e degli allevatori di pecore vennero prese misure protezionistiche che impedirono alla Compagnia delle Indie di importare tessuti made in India. E contemporanemente si sviluppò il settore delle imitazioni. Cominciò a circolare il fustagno, cioè una mistura di lino e cotone che solo l'occhio esperto poteva distinguere dagli originali prodotti indiani.
Questi fatti mostrano quindi l'altra faccia della medaglia, ovvero in quale misura il commercio internazionale possa danneggiare la produzione interna, ed ancora che misure protezionistiche ed anticommerciali possano rilanciarla, provocando tuttavia effetti indesiderabili quali la ritorsione e quindi l'impossibilità di esportare le proprie merci.
Il problema è che quando i mercat i assumono una dimensione più ampia (e non ha importanza a quale livello sia questa dimensione, potrebbero trattarsi anche di due o tre borgate) il confronto qualità-prezzo penalizza chi produce merci peggiori a costi superiori. I mercati sono quindi una livella, per dirla con Totò, e la tentazione protezionistica è sempre in agguato, come reazione difensiva, ma non è la risposta migliore.
In ogni caso una posizione protezionistica richiede un governo che attui una politica protezionistica e nell'Europa del Seicento e Settecento si possono incontrare sia situazioni di apertura massima, come in Olanda, sia situazioni di estrema chiusura e di insuperabili barriere doganali.
Protezionismo ed "aiutini" governativi: anche i morti fanno mercato
Paul Mantoux evidenzia che sotto il regno di Carlo II in Inghilterra venne varata una legge, una delle tante apparentemente assurde, che prescriveva che qualunque individuo fosse deceduto in territorio inglese, dovesse essere sepolto avvolto in un sudario di lana.
Era un grosso regalo ai produttori, messi in condizione di lavorare non solo per i vivi, ma persino per i morti! Ma io non ho dubbi sul fatto che qualcuno pensò bene di realizzare un mercato parallelo basato sulla spogliazione delle tombe. Sudari di lana usati potevano egregiamente servire allo scopo di far osservare scrupolosamente la legge e certo costava meno fatica scoperchiare un sepolcro che tosare una pecora e tessere lana.
Mantoux evidenzia ancora il ruolo dello stato e dei governi inglesi. «La politica verso l'Irlanda è in questo senso caratteristica. Verso la fine del del secolo XVII, i progressi dell'industria irlandese cominciarono a preoccupare i produttori inglesi. Essi richiesero ed ottennero l'istituzione di un sistema di dazi d'esportazione che rendeva inaccessibili all'Irlanda i mercati coloniali e stranieri. All'isola fu imposto un vero e proprio blocco, reso effettivo dalla continua vigilanza di una piccola flotta composta da due navi da guerra e da otto corvette arm ate.
Era evidentemente impossibile impedire che l'industria laniera si sviluppasse sul continente. Gli inglesi, tuttavia, fecero di tutto per riuscirvi. Orgogliosi della superiore qualità della loro materia prima, erano convinti che, senza di essa, non si potessero che fabbricare stoffe grossolane. Abbandonate alle loro risorse, le industrie straniere sarebbero state condannate a una eterna inferiorità e, non potendo procurarsi la lana inglese, francesi, olandesi e tedeschi, avrebbero dovuto, volenti o nolenti, acquistare le stoffe inglesi. A questa illusione, cara all'orgoglio nazionale, si aggiungevano timori chimerici, come se una sola balla di questa lana meravigliosa, introdotta in un paese vicino, potesse essere sufficiente a suscitare la più temibile concorrenza all'industria inglese.»(Mantoux)
Ne venne che fu vietata l'esportazione della lana che non fosse stoffa finita, e che altrettanto fu per esemplari di pecore vive!
Fu persino vietata la tosatura a men o di cinque miglia dalla costa.
Tutte queste misure, secondo Mantoux, non favorirono per nulla l'innovazione tecnica. L'unica preoccupazione dei capitalisti della lana era quella di sollecitare continuamente il parlamento per avere altre leggi e minacciare rivolte quando il regime protezionista tendeva ad attenuarsi.
Ciò, inoltre, portò ad un conflitto con gli allevatori, per i quali il mercato inglese andava ormai stretto. Così nacque il contrabbando delle pecore. E fu fiorente. Un altro esempio di quella sottile linea di attività criminosa che accompagna il nascere del capitalismo. Ma in questo caso, dobbiamo dirlo, fu proprio il becero protezionismo dei lanieri a provocarlo: basta una legge rigida a mettere fuori legge interi comparti produttivi, come ben ricorderanno i produttori di latte e formaggio italiani.
In sostanza, se c'è una lezione da afferrare, è che vi è monopolio anche quando apparentemente non vi è, come, attualmente,nel caso delle assicurazioni in Italia. Sembra che ogni impresa sia in competizione con l'altra; in realtà tutte agiscono all'unisono per ottenere una più alta percentuale di profitti a spese dei consumatori.
Non a caso Arthur Young, autore di una prima inchiesta sullo sviluppo industriale ed agricolo in Gran Bretegna, scriveva contro il protezionismo: « Questi sono gli effetti funesti del monopolio. Volete stendere una nera nube sulla nascente prosperità di Manchester? Datele il monopolio del cotone. Lo sviluppo prodigioso di Bimingham vi disturba? Provvederà il monopolio a spopolare le sue strade, come un'epidemia. »
Ovviamente la tesi di Mantoux sul monopolio che ostacoli di per sé l'innovazione non è del tutto sostenibile. Anche in regime di monopolio si cercano insistentemente strumenti adatti a ridurre il costo del lavoro e quindi il numero degli occupati. Anzi, è probabile che si cerchi l'innovazione aumentando la quota dei ricavi destinata alla sperimentazione. Tutto sta allor a a verificare cosa accadde realmente in quel periodo nel campo tessile.
«Alla metà del secolo ('700, nda) - scrive Landes - i progressi in patria ed all'estero avevano fatto dei cotonieri una forza troppo potente perchè l'ancora preminente industria laniera potesse sopraffarli.
Cosa anche più importante, il cotone dal punto di vista tecnologico si prestava assai meglio della lana alla meccanizzazione. E' una fibra vegetale resistente e di caratteristiche relativamente omogenee; mentre la lana è una fibra animale, mutevole, e con sottili variazioni di comportamento. Con le macchine rudimentali dei primi tempi, dai movimenti maldestri e a strattoni, la resistenza era per il cotone un vantaggio decisivo.» (Landes cit.)
Ecco dunque la vera ragione della crisi della lana. Per superare tale crisi sarebbero dunque occorse innovazioni tecnologiche per rendere la lavorazione più veloce ed affidabile.
Ma come lottare contro un vero e proprio cambiamento del gusto nel vestire e nelle preferenza per vestiti lavabili a buon mercato?
Andando a ritroso, si potrebbe notare un fatto interessante: nel 1701 era apparso uno scritto anonimo, che Mantoux definisce libello di circostanza, ma che in realtà conteneva più di una risposta al protezionismo invocato dalla corporazione dei lanieri.
Il libretto si intitolava Considerazioni sul commercio con le Indie Orientali. «L'autore delle Considerazioni, ponendosi da un punto di vista del tutto teorico, tentò di dimostrare che l'importazione di prodotti indiani non soltanto era vantaggiosa per il consumatore, ma recava profitto anche all'industria nazionale. Non era una perdita di lavoro, infatti, produrre merci che potevano essere acquistate a buon prezzo all'estero? Inoltre, risparmiando lavoro, sarebbe stato possibile creare nuove industrie e stabilire in quelle già esistenti una più saggia distribuzione dei compiti e, in caso di necessità, un miglioramento dell'attrezzatura tecnica.» (Mantoux - cit.)
L'argomento dell'ignoto estensore delle Considerazioni era questo: « Che ciò non venga assolutamente preso per paradosso: il commercio con l'India può avere per conseguenza la produzione di di merci con minor impiego di manodopera e, senza che i salari diminuiscano, una generale diminuzione dei prezzi. Infatti se le merci possono essere fabbricate con minore lavoro, il loro prezzo, naturalmente, sarà minore...Ad esempio, quando un battello ha un equipaggio molto numeroso, le spese sono assai elevate. Supponiamo che si diminuisca l'alberatura e la velatura e che si imbarchi soltanto i due terzi dell'equipaggio conservando pressapoco la stessa velocità: il battello navigherà con spese minori senza che il salario dei marinai diminuisca per questo. Egualmente, in un industria inglese qualsiasi, i prezzi sono proporzionali al numero degli operai e alla durata del loro lavoro. Se, in conseguenza dell'invenzione di una macchina o di un maggior ordine e regolarità del lavoro, la medesima quantità di manodopera viene fornita dai due terzi di questo personale o nei due terzi del tempo precedentemente impiegato, il lavoro sarà minore e, di conseguenza, anche il prezzo, pur se i salari degli operai mantengono il loro prezzo anteriore.» (da Considerations upon East-India Trade, 1701)
L'ignoto autore, espressione degli interessi dei mercanti internazionali, cercava in sostanza di far intendere ai protezionisti che anche una situazione negativa poteva essere volta in un vantaggio. Le argomentazioni erano lucide, anche se del tutto teoriche.
« Il commercio con le Indie fornirà, verosimilmente, l'occasione di introdurre nelle nostre industrie inglesi maggiore abilità, ordine e regolarità. Di fatto farà sparire le meno utili e le meno vantaggiose. Gli uomini che vi sono impiegati cercheranno altre occupazioni, le occupazioni cioè più semplici e più facili che potranno trovare; oppure si dedicheranno a compiti particol ari e speciali nelle industrie più complesse. Infatti il lavoro più semplice è il più rapido da apprendere è quello che gli operai eseguono con maggiore perfezione e diligenza. Così il commercio delle Indie produrrà il seguente risultato: le diverse operazioni di cui si compongono i lavori più difficili verranno affidate a operai qualificati, senza lasciare che tutto venga compiuto dall'abilità di uno solo. E questo è quanto intendo per maggior ordine e regolarità del lavoro nelle nostre industrie inglesi.» (da Considerations upon East-India Trade, 1701)
Ed ecco, a questo punto, un passaggio che Mantoux definì profetico: « Il commercio con le Indie mette a nostra disposizione merci prodotte con minor quantità di lavoro e a prezzo più basso che in Inghilterra. La probabile conseguenza sarà l'invenzione di strumenti o di macchine che permetteranno di economizzare una quantità di lavoro equivalente...Queste invenzioni, mirando ad aumentare il prodotto e riducendo la m ano d'opera, si succederanno l'una all'altra per necessità ed emulazione: bisognerà che ciascuno inventi per conto proprio o sappia perfezionare un'invenzione già fatta. Se il mio vicino riesce a produrre molto con poca manodopera e, di conseguenza, a vendere a buon mercato, bisognerà che io trovi il modo di vendere al suo stesso prezzo. E' così che tutto procede: lo strumento o la macchina che eseguono un certo lavoro con minore impiego di manodopera ed a prezzi inferiori, suscitano una sorta di emulazione e di bisogno.» (da Considerations upon East-India Trade, 1701)
Profetico, certo, ma non così tanto da apparire incredibile. Siamo nel 1701, ovvero ben tre anni dopo l'invenzione della macchina di Thomas Savery e le immediate applicazioni messe in campo. L'ignoto autore disponeva, dunque, più che del dono della profezia, del fiuto dei grandi opportunisti e dell'arte degli antichi sofisti. Ciò che si può capire da queste note, è che il nostro ignoto autore scommise sul futuro contando più su tendenze presenti nella società inglese che su fatti reali. Scommise sull'intraprendenza dei singoli, la mobilità dei lavoratori, il talento inventivo degli ingegneri e la voglia di cambiamento presente ovunque.
In ogni caso, si tratta allora di capire che l'espansione commerciale non fu un fatto del tutto indolore e venne anche contrastata.
Andava bene vendere le proprie merci all'estero, andava bene importare spezie, tabacco, tè e caffè, impossibili a prodursi in Inghilterra, non andava affatto bene importare merci concorrenziali a quelle inglesi.
(continua)
--------------------------------------------------------------------------------
Bibliografia essenziale utilizzata:
Cristopher Hill - La formazione della potenza inglese Dal 1530 al 1780 - Einaudi - Torino 1977
Pierre Mantoux - La rivoluzione industriale - Editori Riuniti
David Landes - Prometeo liberato - Einaudi -Torino, 1973 (or. The unbound Prometeus, 1969)
T.S. Ashton - La rivoluzione industriale 1760-1830 - Laterza - Bari, 1953
Valerio Castronovo - La rivoluzione industriale - Sansoni - Firenze, 1988
Phyllis Deane - La prima rivoluzione industriale - Il Mulino - Bologna, 1977
Sydney Pollard - La conquista pacifica / L'industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970 - Il Mulino - Bologna, 1984
Karl Polanyi - La grande trasformazione - Einaudi - Torino, 1974 (ed or. New York, 1944)
Eric R. Wolf - L'Europa e i popoli senza storia - Il Mulino -Bologna, 1990
George Rudé - L'Europa del Settecento / Storia e cultura - Laterza, 1974
Alexander Koirè - Dal mondo del pressapoco all'universo della precisione - Einaudi, Torino 1967
Adriano Prosperi e Paolo Viola - Storia moderna e contemporanea - vol. II - Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese - Einaudi - Torino, 2000
Rodolfo Morandi - Storia della grande industria in Italia - Einaudi, 1959
Valerio Castronovo - L'industria italiana dall'Ottocento ad oggi - Mondadori, 1980
Paolo Rossi/AA VV - Storia della scienza moderna e contemporanea - UTET 1988
Anonimo - Considerations upon East-India Trade, 1701- ristampato nel 1856 nell'antologia A select Collection of Early English Tracts on Commerce, pubblicata a cura di J.R. Mac Culloch)
Guido Marenco - 2 aprile 2004 - su questo file esiste il copyright - può essere riprodotto solo su permesso dell'autore