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Le origini della filosofia

di Renzo Grassano
."...se non avessimo mai visto le stelle, il sole, il cielo, nessuna delle parole da noi pronunciate sull'universo sarebbero state profferite. Ma ora la vista del giorno e della notte, ed i mesi e la rivoluzione degli anni hanno creato il numero e ci hanno dato una concezione del tempo nonchè la facoltà di indagare sulla natura dell'universo e da questa fonte ci è venuta la filosofia che è il massimo dono che mai fu o sarà concesso dagli dei all'uomo mortale."
Platone (Timeo, 47 c)

Tutte le storie della filosofia cominciano da Talete e da Mileto, ovvero da quel gruppo di antichi pensatori noto come il gruppo degli Ionici, che operò nell'Asia Minore intorno al VI secolo a.C.
Recentemente, tuttavia, questo modo di iniziare la storia del pensiero filosofico è stata criticata, e Daniele Lo Giudice riflette su questa critica in modo molto pertinente.

Pur non negando che lo scavo archeologico nelle culture dell'Egitto, del Medioriente e dello stesso giudaismo antico, ci porterebbe a trovare tracce significative di contenuti non solo religiosi e mitici del sapere, non mi vergogno di appartenere al partito dei sostenitori più accaniti dell'originalità del pensiero greco.

I primi passi della filosofia furono scanditi da una rivoluzione il cui significato è oggi esplicito: si cercarono i fondamenti della realtà intesa innanzi tutto come natura, fisica, nella natura stessa, e li si identificò in quelli che vennero considerati gli elementi basilari: acqua, terra, aria e fuoco.
Oggi sappiamo che questi supposti elementi sono solo stati della materia, e che, in una prospettiva chimica, i veri elementi fondamentali sono gli atomi, mentre i fisici hanno evidenziato quanto vi sia di ancora incredibile e misterioso a livello subatomico. Ma nell'ottica di allora, per quello che si sapeva allora, non possiamo sottrarci all'impressione di un evento storico nella vicenda del pensiero umano e nel rapporto tra umanità e mondo.
Sarà che a me piace in generale tutto ciò che conduce a liberarci da credenze assurde, ma credo fermamente nel fatto che la nascita della filosofia corrispose alla nascita della libertà. La filosofia fu in questo senso il corrispettivo intellettuale e spirituale di un movimento reale e materiale, per quanto anche confuso e non sempre storicamente ricostruibile in modo corretto.

Questo, del resto, si spiega facilmente: quando un uomo è posto di fronte ad un mito non ha alcuna possibilità di scelta. O lo accetta o lo rifiuta. Rispetto al racconto mitico religioso non si può che essere o fedeli, o infedeli, e solo nell'infedeltà può nascere un atteggiamento critico. Nelle società mediorientali ci furono probabilmente uomini che rifiutarono i miti preesitenti. Ma, come nel caso del faraone riformatore religioso Akhenaton, essi si proposero solo di sostituirli con altri miti. L'universo mentale degli antichi non poteva andare oltre la dimensione mitopoietica.
Diversamente andarono le cose in Grecia. Le ipotesi dei filosofi furono presentate in modo che, volenti o nolenti, si prestavano alla critica, al dissenso, alla ricerca costruttiva.
Pur riconoscendo come esagerate le interpretazioni positivistiche della filosofia antica, secondo le quali vi era già nei greci un approccio scientifico in senso moderno, sarei piuttosto per riconoscere che in essi vi era già un approccio razionale, e che solo muovendo dalla razionalità si arriva alla scienza.

Etienne Gilson, nel suo studio sulla filosofia del Medioevo, ha contrapposto la teologia cristiana alla filosofia antica, asserendo che solo la prima ha indicato all'uomo la strada della libertà, mentre la filosofia è rimasta intrappolata nel ragionamento sulla necessità, e sull'essere come necessario.
Gilson ha, ovviamente, un po' di ragione se consideriamo che lo stesso Aristotele asserì, nell'Etica Nicomachea, che l'oggetto della filosofia è diverso da quello della saggezza: la prima studia ciò che è necessario, ed è per questo che può diventare scienza; la seconda si occupa di ciò che l'uomo può liberamente deliberare, dunque di qualcosa che può essere opzionato.
Orbene, contrapporre libertà e necessità è certamente ammissibile in generale, ma quando si parla di libertà su questo piano, ovvero nell'ordine di idee che costituisce una certa visione del mondo, il suo vero contrario è la costrizione. E mi pare che, in realtà, nessuna filosofia antica conduca a pensare l'uomo come costretto.
Le filosofie dell'antichità si spesero, semmai, per mostrare come liberarsi dalla schiavitù delle passioni più venali.
Probabilmente, Gilson confuse il pensiero del filosofo arabo Avicenna, per il quale il possibile si realizza solo come necessario, con quello di Platone ed Aristotele, senza dimenticare il conclamato indeterminismo di Epicuro, per il quale nemmeno il movimento degli atomi è costretto da qualche necessità.

Questo tipo di ricerca naturalistico non soppiantò di colpo, e forse nemmeno era nelle intenzioni dei suoi protagonisti, la credenza nei miti e nelle leggende sull'origine del mondo e degli dei, ma, altrettanto sicuramente, inaugurò un approccio alle cose che costituì la quintessenza della filosofia stessa, cioè la ricerca di un sapere incontrovertibile, di una verità scientifica non solo nei confronti di un particolare aspetto della realtà, ad esempio la salute del corpo e della mente, come nella medicina, ma dell'insieme della realtà stessa.
Mentre la singola disciplina si misurava con qualcosa, la filosofia affrontava per la prima volta il problema del tutto, non ricorrendo al mito, ma secondo un presupposto razionale.
Questo suo marchio di fabbrica segnò insieme il merito ed il limite del filosofo, nel cui modello fondamentale, quel Socrate che seppe imprimire una svolta decisiva nella storia del pensiero umano, possiamo legittimamente scorgere sia l'inconcludente chiacchierone che ci fa solo perdere tempo, sia il maestro di vita che ci fa risparmiare tempo ed esperienze negative, autoinganni e frustrazioni. A chi spesso sottolinea la mania socratica come esempio di non-saggezza, sono per rispondere con una saggezza socratica che ancor oggi può molto insegnare.

Ma la strada dai primi filosofi a Socrate è lunga ed accidentata.
I primi passi della filosofia furono contrassegnati da un procedere che, pur avanzando parallelamente e sotto lo stimolo di scienze consorelle quali l'antica medicina o l'antica astronomia, si segnalava per un modo più astratto e generalizzante di porre le questioni, come fosse alla ricerca, aspetto che si manifestò più tardi, di una ontologia, cioè di una scienza generale e primaria dell'esistente, dell'ente in quanto ente, e dei suoi costituenti primari.
Questo modo di raccontare e presentare la storia della filosofia risale ai filosofi stessi, in particolare a Platone ed Aristotele.
Noi siamo liberissimi di contestare questo approccio, ma se vogliamo imparare la storia, dobbiamo quanto meno conoscerlo.
Nei dialoghi platonici abbiamo in modo elegante e compiuto la ricostruzione del pensiero di importanti filosofi quali Eraclito, Parmenide, Protagora e Gorgia, per non parlare di Socrate.
Nelle opere di Aristotele, in particolare in quella che noi chiamiamo Metafisica, troviamo importanti riferimenti al pensiero degli ionici, di Anassagora, dei sofisti, dei megarici, nonchè spunti polemici contro alcune correnti presenti nell'Accademia fondata da Platone e frequentata per ventanni dallo stesso Aristotele.
Dunque, anche se non si ebbe una vera e propria storia della filosofia fino alla pubblicazione dell'opera di Diogene Laezio, cioè in un'epoca relativamente tarda, possiamo dire che le opere scritte dai due massimi filosofi dell'antichità sono non solo attendibili, ma insostituibili per accedere in modo corretto al pensiero dei filosofi più antichi e tentare in modo più o meno corretto la ricostruzione del loro pensiero. Purtroppo, infatti, in molti casi disponiamo solo di frammenti, ed in moltissimi, nemmeno di questi, ma solo di testimonianze dubbie e di seconda e terza mano.

Inoltre, sia Platone che Aristotele, descrivendo l'approccio filosofico, scrissero anche le più importanti definizioni della filosofia stessa. In particolare, dobbiamo ad essi la differenza tra un approccio filosofico ed un approccio mitico-religioso.
Nel sottolineare la differenza tra la tradizione mitica e quella filosofica, Aristotele evidenziò, tuttavia, che chi ama il mito in qualche modo è già filosofo. La stessa narrazione mitica, infatti, suscita in molti, se non in tutti, interesse e meraviglia, e secondo Aristotele, come prima secondo Socrate e Platone, è la meraviglia per le cose che suscita il bisogno insopprimibile di una ricerca di tipo filosofico, mirante cioè a svelare le cause ed i principi primi di tutto l'esistente.
Indubbiamente, tuttavia, proprio nei confronti del mito, che spesso non fu altro che una libera e fantasiosa elaborazione orale e letteraria di diffuse e diverse credenze di origine popolare, nacque insieme alla meraviglia anche una qualche forma di scetticismo. La parola viene dal termine greco skepsi, che significa ricerca, ma ha assunto presso di noi il significato di rifiuto di spiegazioni che ci paiono prive di fondamento.
Per quanto lo scetticismo vero e proprio, come corrente di pensiero, sia l'ultimo nato della filosofia, comparso molto tardi, si può ben dire che la filosofia nacque scettica, come reazione al dilagare del mito e, probabilmente, all'uso strumentale e politico che si faceva del mito stesso.
Difficile sfuggire all'impressione che senza la scrematura di tale scetticismo originario, che gli storici spesso dimenticano, si sarebbe potuto fare un solo passo in avanti nella direzione della ricerca filosofica.

Il dato con cui dobbiamo misurarci fu in qualche modo rilevato sia da Hegel che da Comte, due filosofi dell'ottocento di straordinaria importanza. Una volta insinuatosi il germe dello scetticismo, è quasi necessario che si crei disordine morale e spirituale, che si presenti, dunque, una crisi.
E questo perchè il mito non è solo fumo, ma anche arrosto, cioè trasmette valori ed orientamenti, un ordinamento della società, insegnando, come in Omero, a ciascuno il suo posto e la sua funzione.
Un esempio significativo di questa crisi si può trovare nei versi di Esiodo, poeta di estrazione popolare, forse costretto a fare l'intellettuale non solo per vocazione e capacità, ma anche per supplire alle carenze degli intellettuali del suo tempo, e più ancora in quelli di Archiloco, un aristocratico stanco e deluso, mezzo poeta e mezzo soldato, alla inquieta ricerca di una vita più genuina di quella codificata dai miti e dai rapsodi precedenti.
Lo stesso Platone, del resto, non esitò a servirsi di miti per indicare il punto sul quale la ricerca razionale non poteva che arrestarsi. Secondo lui occorreva un mito per spiegare l'origine del mondo fisico ed il suo ordine, ed egli lo costruì sulla figura del demiurgo, il creatore del mondo. Alcuni vi possono vedere l'influenza del sapere orientale di cui si è già detto; a me pare piuttosto la sottolineatura di un'esigenza insopprimibile della ragione stessa, cioè trovare il bandolo della propria origine, sapere in che misura uomo è davvero differente da animale.

La storia della filosofia non è solo storia di avanzate, ma anche di arretramenti e messe a punto.
La comparsa dei sofisti, soprattutto nella città di Atene, che solo a questo punto divenne il crocevia delle più importanti correnti filosofiche, testimonia sia il vento di libertà che spirava nella filosofia e grazie alla filosofia, sia il senso di malessere che indubbiamente circolava negli spiriti più inquieti ed insoddisfatti per il disordine morale e spirituale dovuto alla crisi degli antichi valori.
Nell'età di Pericle, ovvero la massima fioritura della civiltà ateniese, si ebbe un filosofo di grandissima levatura intellettuale, Anassagora, certamente uno scienziato, che tuttavia non seppe rispondere in modo adeguato ad una domanda etica e morale che cominciava ad affiorare.
Liberi di scegliersi una vita, molti giovani aristocratici, non sapendo spesso che farsene della libertà, scivolarono sul terreno della dissipazione e della dissolutezza, o rincorsero sfrenate ambizioni di potere e di gloria.
La diffusione di mistiche e pratiche religiose alternative a quelle ufficiali, quali il culto di Dioniso e l'orfismo, la religione dei misteri ed il menadismo, testimoniano di questa ansia di ricongiungere vita e credenze, ma anche di uno sdoppiamento nevrotico della personalità che era particolarmente visibile nei riti orgiastici del dionisismo e nell'isteria delle donne seguaci di queste pratiche.

La risposta a questa situazione fu Socrate, il suo inquieto interrogare i fondamenti dell'etica, i presupposti della morale, la critica feroce a tutto ciò che era l'apparenza di una cultura civile priva di solide basi, nonchè un razionalismo che si presentava come solida e coerente alternativa al misticismo.
Il miglior allievo di Socrate fu Platone, ed è indubbio che solo attraverso l'opera indefessa di questa figura che la filosofia divenne forte, autorevole, efficace; una guida per l'azione e la vita, senza per questo scadere in una saggezza di accomodamento, raccogliticcia e fondata su massime stantie e piene di falso buon senso.
Chi ha osservato che nelle dottrine platoniche si ebbe anche un recupero di una parte del misticismo, quella più razionale, ha indubbiamente ragione.
La teoria della sopravvivenza dell'anima, così come quela della reminiscenza, cioè quella dottrina che afferma che noi non conosciamo mai nulla di nuovo, ma solo rammentiamo ciò che l'anima sapeva fin dall'inizio, prima di scivolare in questo mondo, non fu solo un tentativo razionale di spiegare il perchè delle cose, ma resuscitò la speranza, cercando di dare un senso alla vita, senza nulla concedere alla mania ed alla irrazionalità delle sette iniziatiche e mistiche alternative alla religione ufficiale.

Nell'interpretazione platonica più tradizionale la causa della particolare configurazione del mondo e delle cose sta in due momenti distinti, sebbene connessi: da un lato l'esistenza di un mondo trascendente, il mondo delle idee, nel quale tutto ciò che è presente nel mondo reale è già rappresentato idealmente, e dall'altro in un altro mito, quello del demiurgo, il dio che fece il mondo materialmente, plasmandolo secondo quelle stesse idee eterne.
Aristotele, pur criticando la teoria delle idee, dovette in qualche modo riconoscere che tra i criteri fondamentali per conoscere e riconoscere le cose vi è la causa formale, cioè la configurazione di oggetti inanimati e soggetti animati, corpi inerti e corpi in movimento. La forma delle cose, che è comunque qualcosa di materiale, appartenente a questo mondo, venne dunque a correggere la teoria platonica delle idee preesistenti, accomodandola allo scetticismo di chi rifiutava la credenza nella reicarnazione delle anime. Ma per far questo, dovette riconoscere un punto importante di quella teoria, ovvero che nella forma è presente l'idea, o tante idee, e che comunque dalla forma si possono ricavare concetti indispensabili per conoscere le cose e definirle. Un uomo è un uomo perchè ha forma umana. Il suo essere uomo ha dunque una causa formale, visibile e riconoscibile.
Attraverso questi due grandi passaggi, la teoria platonica delle idee e la dottrina aristotelica della causa formale, che andrebbe completata con l'enunciazione e la spiegazione delle altre tre cause dell'essere delle cose, questione che affronteremo nei files dedicati ad Aristotele, si venne così a configurare la solida piattaforma della ricerca filosofica che condizionò la storia successiva della filosofia.

Come piccolo e mediocre storico della filosofia (insegnavo in un liceo prima di trovare una collocazione più soddisfacente in un impresa che mi paga meglio, e dedicarmi comunque alla filosofia come semplice appassionato) sono persuaso che filosofare significa mettere in questione tutto ciò in cui crediamo, tutti i pensieri consolidati, tutte le tradizioni.
Questo abito mentale rivoluzionario non nasce dal nulla, e certamente non nacque dal nulla nemmeno ai tempi di Talete. Sullo sfondo sta sempre l'intreccio insicindibile tra sapere e potere, nonchè il più che legittimo sospetto che il sapere sia spesso strumentalizzato, contraffatto e deformato dal potere.
Da quando mondo è mondo, la sapienza non è mai stata qualcosa di neutrale, una fonte limpida a cui attingere, ma il monopolio di caste, di dominatori e di approfittatori della dabbenaggine altrui.
L'atteggiamento filosofico, proprio nel momento in cui si dichiarava come amore per il sapere, svelava se stesso come un investigatore la cui indagine cerca di portare alla luce i tratti nascosti della sapienza e i tratti nascosti della realtà stessa.
Esso non si ferma davanti a qualsivoglia autolimitazione, esso cerca sia "la" verità, che le verità delle cose, delle logiche intrinseche alla dinamica del mondo naturale prima, ed umano e sociale poi. Cerca di scoprire se, dietro a fenomeni che spesso si ripetono secondo regolarità ed, anche, eccezioni significative, vi siano leggi di funzionamento e cause fondamentali.
Cerca di comprendere se, inseguendo le verità, si possa infine raggiungere "la" verità.
Questo amore per il sapere è dunque, nei suoi tratti più evidenti, nelle sue più viscerali ed accorate motivazioni, una tensione alla verità che non ha limiti, e che non conosce altri limiti che quelli imposti dalla propria intelligenza e dalla qualità delle esperienze possibili in un determinato momento. Fatto salvo il rispetto, ovviamente, per l'integrità e la dignità della persona umana.

Un merito indiscutibile dei primi filosofi fu quello di rendere esplicita l'oggettività della natura, il suo essere dato.
Ed un merito indiscutibile del professor Nicola Abbagnano, fu quello di evidenziarlo con chiarezza.
I filosofi presocratici, termine con il quale si suole designare, in modo a volte sbrigativo, tutte le figure che precedettero la comparsa sulla scena del filosofo che inaugurò un tipo di ricerca ancora diverso e più radicale, secondo l'Abbagnano, furono persuasi che, spiegando la natura, si spiegasse anche l'uomo.
L'essere umano non era altro dalla natura stessa. Nemmeno un'emergenza nel senso di una progressiva differenziazione, un imporsi di quel fenomeno che noi moderni chiamiamo coscienza, o spesso, senso morale.
Ma, correttamente, l'Abbagnano riconobbe che nel naturalismo dei primi filosofi era implicito che nella ricerca sull'oggetto crescesse di conseguenza anche il soggetto.
Ciò fu evidente non solo perchè, successivamente, Eraclito ammise di "aver indagato sé stesso", ma perchè una più adeguata conoscenza del mondo esterno conduce per forza di cose, ad una consapevolezza di sè, del proprio ruolo e delle proprie possibilità.
Emancipandosi dal mito, l'uomo cominciò a rivalutarsi. Se poi si è anche sopravvalutato, non è certo colpa della filosofia.

letture consigliate:
Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, 5 vol. - Vita e Pensiero, Milano 1976-80
M.Vegetti ( a cura di) Il sapere degli antichi - Boringhieri, Torino 1985
O. Gigon, Problemi fondamentali della filosofia antica - Guida, Napoli 1983
Renzo Grassano - 2 giugno 2002

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