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Giulio Preti: dall'empirismo logico al suo
superamento critico
di Daniele Lo Giudice
Giulio Preti fu allievo di Antonio Banfi,
e come lui non sfuggì al tentativo di realizzare
problematiche convergenze tra indirizzi filosofici
diversi. Questo pare, anzi, questa una costante
della filosofia italiana nel Novecento. Ludovico
Geymonat, ad esempio, provò a congiungere
in una prima fase, neopositivismo e razionalismo
critico. E Nicola Abbagnano tentò di accostare
neopositivismo ed esistenzialismo, sia pure
declinando quest'ultimo in una versione positiva.
Preti fu attratto inizialmente dal neopositivismo
ma, si rivolse anche al trascendentalismo,
al pragmatismo ed al marxismo. Egli provava
un giovanile «disgusto per il vaniloquio
filosofico», dunque non poteva che orientarsi
in una direzione aliena dall'abuso della
retorica filosofica. In uno scritto del 1953,
Linguaggio comune e linguaggi scientifici,
egli chiariva: «Ora c'è una filosofia che
ha tante tinte e tante sfumature, e prende
tanti nomi: neopositivismo, empirismo logico,
pragmatismo, relativismo; [...] una filosofia
che è odiata dai maggiori partiti oggi in
lotta, aggredita da destra e da sinistra,
accusata volta per volta di bolscevismo e
di fascismo. Riducendo queste varie accuse
al loro nocciolo, ciò di cui questa filosofia
è accusata è appunto di essere la voce del
bambino della novella di Andersen: la pura
voce dell'esperienza e del senso comune,
che non sa e non vuole vedere con gli occhi
del buon funzionario e del buon suddito,
che non crede ai miti e minaccia ad ogni
istante quell'ordine costituito che su ognuno
di tali miti regge. Un ordine si regge su
una serie di comandi assoluti i quali si
devono presentare ai subordinati con tutti
i carismi dell'Assoluto: eternità, necessità,
"verità". Ma il senso comune quell'Assoluto
non lo vede, perché guarda con i propri occhi
frontali anziché con quelli dell'obbedienza.
Una gerarchia si regge sulla fede in un'investitura
carismatica dei capi - uomini infallibili
per definizione, essendo essi la "verità".
L'empirismo logico e il pragmatismo si presentano
come la filosofia degli uomini che hanno
fiducia in loro stessi, nella loro sensibilità
ed esperienza: i quali pensano l'uomo avere
un destino migliore che non quello di rimanere
imprigionato in un ordine e in una gerarchia.
E' una filosofia democratica per eccellenza
- la filosofia del bambino, del senso comune,
del vedere con i propri occhi, filosofia
dell'uomo senza miti e senza fedi, senza
dèi e senza padroni. Per questo oggi, in
questo cozzo di volontà di potenza, dominio
delle masse, sfruttamento delle masse, mobilitazione
delle masse, è una filosofia antipatica ai
Capi, ai fanatici e ai mercenari. Ma questo
spiega, insieme ad altre ragioni, del resto
connesse, il successo filosofico dell'empirismo
logico come filosofia del senso comune. E'
la filosofia liberante, la filosofia della
libertà.» (1)
Tuttavia, con l'andare del tempo, Preti prese
un percorso divergente rispetto al neopositivismo,
pur rimanendo saldamente ancorato al principio
della "verificabilità e del rigore".
Il problema era che non riusciva a trovare
nell'empirismo logico i mezzi adatti per
procedere oltre una critica alla metafisica.
Se nella fiaba di Andersen il principe è
nudo, ma solo il bambino ha il coraggio di
dirlo, nella critica alla metafisica si dice
che essa stessa è nuda, ma non si coglie
quale concreto vantaggio essa può recare
proprio in quanto spogliata di ogni menzogna.
Gettando la metafisica, gettiamo via non
solo i vestiti, ma quanto essa ha saputo
dirci, e ancora potrebbe dire. Preti, insomma,
non ci sta, a buttare nel cestino l'intera
filosofia. «Molti dei famosi problemi metafisici
nascondono, in generale, veri problemi filosofico-scientifici;
solo che la metafisica li rende vani impostandoli
in modo illecito. La critica positivistica
ce li deve restituire purificati e posti
nel loro vero senso; ma l'errore del neopositivsmo
sta nell'illudersi di averli risolti, o meglio
dissolti.» (2)
L'anno successivo aggiungeva: «Ora, anche
noi siamo d'accordo che la scienza e non
solo la scienza deve essere liberata dalla
metafisica; anche noi siamo d'accordo che
il materialismo classico oggi ha bisogno
di una profonda revisione, e non si può accettare
così com'era allora. Ma vi sono esigenze
logiche e scientifiche di cui le vecchie
concezioni si erano fatte interpreti traducendole
in formule metafische - ora noi dobbiamo
di nuovo farle valere quelle esigenze, epurandole
dalla loro veste metafisica.» (3)
In questa fase il problema di Preti era dunque
quello non già di rivestire la metafisica,
o di buttarla in solaio, ma di tenerla 'spogliata'.
Per questo decise di provare a riconnettere
empirismo logico e neo-kantismo, considerando
entrambi separati da impostazioni non inconciliabili.
Gli sembrava, insomma, che quanto aveva detto
Kant, "in sostanza" fosse "in
sostanza" ciò che andava ancora dicendo
il neopositivismo. «Per noi il difetto più
grave del neopositivismo del Circolo di Vienna
e di Berlino è l'avere polemizzato con troppo
semplicismo, e troppo verbalisticamente,
contro la filosofia kantiana, senza avere
almeno cercato di capire l'ispirazione e
soprattutto l'impostazione del problema.
Troppo preoccupato - anche se giustamente
preoccupato - di descrivere l'effettivo procedimento
delle scienze, il neopositivismo di Carnap
e Reichenbach non si è chiesto quale fosse
il fondamento di validità di tale procedimento,
trattando da problema "metafisico"
quello che invece era un problema di fondamento
della logica.» (4)
Se andiamo al II capitolo di Praxis ed empirismo,
il lavoro fondamentale di Preti uscito nel
1957, tale critica è riproposta in termini
ancora più chiari ed espliciti. «Il punto
della dottrina dell'empirismo logico che
maggiore rilievo rispetto alla polemica che
esso conduce contro la "filosofia"
è il principio di verificazione, nel quale,
a ragione o a torto, coloro che espongono,
o polemizzano contro, l'empirismo logico
come una filosofia ne fanno consistere il
centro teoretico.» (5) A cosa porta l'uso
sistematico del principio di verificazione?
A negare un senso a proposizioni inverificabili.
«All'ingrosso, le primitive formulazioni
empiristiche ammettevano come unico criterio
del vero e del falso la verificabilità empirica:
"la luce della Luna è bianca" è
una proposizione vera se, e solo se, la luce
della Luna è bianca.» Anche proposizioni
più complesse di questa possono essere verificate.
Però è anche vero che «in un discorso scientifico
ci sono molto spesso enunciati non suscettibili
di verificazione. Erano chiamate "ipotesi"...
[...] Ma poiché era chiaro che tali ipotesi
erano inverificabili per principio, e non
per mera deficienza tecnica, si introdusse
un'altra illusione: che si potessero verificare
mediante il procedimento induttivo. Ma la
problematica dell'induzione ha messo in evidenza
come propriamente induttive siano soltanto
generalizzazioni statistiche, le quali, tra
l'altro richiedono una Logica diversa da
quella del vero-falso [...] Dobbiamo quindi
abbandonare il concetto paleo-empiristico
di "verità" (e quindi di "senso
di un enunciato"), rivelatosi troppo
angusto, e introdurre invece il criterio
più ampio secondo cui la "verità",
ossia il diritto di cittadinanza di un enunciato
entro un discorso, può essere di tipi diversi
e quindi obbedire a criteri diversi.» (6)
I criteri diversi enunciati da Preti cominciano
dal riconoscereche oltre alla verità fattuale,
"F-verità"verificabile, extralinguistica,
si danno possibili tipi diversi di verità
endolinguistici, come la verità sintattica,
o "C-verità", e la verità semantica
o "L-verità". Vedremo in dettaglio
le spiegazioni che offre Preti in un altro
file. Qui interessa stabilire che in tal
modo si supera un'angustia. E la si supera
logicamente, ovvero ricorrendo ad un'argomentazione
razionale che termina con l'affermazione
che «enunciati del discorso, di per sé privi
di senso (quindi non proposizioni) acquistano
un senso solo nel sistema del discorso, in
virtù dell'insieme di proposizioni verificabili
che ne discende e che ne costituisce il senso
indiretto o senso associato.» (7) E qui arriva
una stoccata a quelli che si potrebbero definire
i "continentali": «Per i filosofi
legati alla concezione tradizionale della
filosofia come conoscenza sui generis tutto
ciò non fa molta differenza; né avremmo introdotta
questa precisazione se essa non avesse importanza
nella discussione di parecchi aspetti particolari
del problema di cui ci stiamo occupando.
La difficoltà fondamentale sta in questo:
che lo stesso principio di verificazione,
assunto come un principio teoretico portante
sulla conoscenza umana ("conoscenza
è ciò, e solo ciò, che è fattualmente verificabile")
appare privo di senso, perché di principio
non verificabile: non contiene infatti nessun
criterio o metodo per la sua stessa verificazione.
Sarebbe dunque un principio metafisico e,
almeno esso, costituirebbe la metafisica
propria dell'empirismo.» (8)
Come risolve Preti il problema? Dicendo che
il principio di verificazione non è un'asserzione,
ma un metodo, un criterio, un enunciato normativo
che non asserisce un fatto. «Questa non è
una distinzione bizantina, né una mera scappatoia
- ma una distinzione che riveste la massima
importanza in tutto il sistema della cultura.
La proposizione normativa non si riferisce
ad una verità o falsità: "prendi l'ombrello"
non è né vera né falsa - è un invito o un
comando, che può essere seguito o non seguito.
[...] La cultura non è costituita di sole
asserzioni, ma di asserzioni e di regole
(comandi, inviti, ecc.): questo già all'interno
di quella complessa realtà storico-culturale
che si chiama "sapere".» (9) In
altre parole, il principio di verificazione
investe il solo dominio delle asserzioni,
non quello dei comandi. E se il principio
di verificazione è un comando, non deve rispondere
di sé stesso se non come comando etico di
chi lavora in scienza o in filosofia.
Tuttavia, il problema potrebbe ripresentarsi
proprio sul piano ridefinito da Preti: cosa
ci assicura che un comando non sia arbitrario,
frutto di un capriccio?
In primo luogo il fatto che esso viene accettato
nell'ambito di una cultura. Se viene accettato,
non può essere arbitrario. Per essere motivati
ad accettarlo non occorrono prove o dimostrazioni.
Sono motivi sufficienti le esperienze positive
o negative che facciamo a riguardo. Che succede
se rifiutiamo il comando? Che succede se
lo accettiamo?
Ma, tecnicamente, possiamo portare argomenti
a favore dell'accettazione perchè la sua
applicazione favorisce il raggiungimento
di determinati scopi. E' un principio non
teoretico, ma pratico. Non va verificato,
ma discusso. Ci sentiamo così ai margini
di un ritorno al trascendentalismo e allo
stesso tempo in prossimità del pragmatismo,
sia quello italiano che quello americano.
(continua)
(1) G. Preti - Linguaggio comune e linguaggi
scientifici - ora in Saggi filosofici - vol
I
(2) G. Preti - recensione agli Studi di L.
Geymonat sul "Politecnico" diretto
da Elio Vittorini
(3) G. Preti - I positivisti - "Politecnico"
n. 17, gennaio 1946
(4) Idealismo e positivsmo - Bompiani 1943
(5) G. Preti - Praxis ed empirismo - Einaudi
1957
(6) idem
(7) idem
(8) idem