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La filosofia della scienza di Karl Popper
Con i metodi della routine empirista non si scoprono nuove teorie
di Guido Marenco
Einstein contro Bacone
"Fulminato da Einstein", questo si può dire, Popper fu presto persuaso che le teorie scientifiche sono opera di cervelli geniali i quali non seguono alcuna procedura abitudinaria e non pensano in termini induttivi baconiani e nemmeno nei termini in cui Newton scelse di descrivere i propri metodi. Ciò significa, per Popper, che le menti scientifiche fingono ipotesi a tutta birra, fallendo novecentonovantanove volte su mille. Pensare di «evitare errori è un ideale meschino - scriverà - se non osiamo affrontare problemi che sono così difficili da rendere l'errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre più teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa grande è imparare da essi.» (1)
Einstein aveva evidenziato l'importanza degli esperimenti mentali, di cui c'è abbondanza di esempi nei suoi scritti divulgativi. E' dunque con Einstein che la logica della scoperta scientifica svela sé stessa: il fisico raggiunge la propria teoria adottando metodi puramente speculativi. Immaginando situazioni, deducendo la maggior parte delle conseguenze possibili da una legge generale più inventata che costruita. Anche se la costruzione ha poi importanza affatto secondaria, perché, come sappiamo, l'elaborazione della relatività generale richiese anni di fatica, una lotta titanica ai limiti del collasso nervoso, e fu risolta solo con l'aiuto di amici matematici.
Popper intende così il metodo scientifico dopo Einstein: «La mia concezione del metodo della scienza è semplicemente questa: esso sistemizza il metodo prescientifico dell'imparare dai nostri errori: lo sistemizza grazie allo strumento che si chiama discussione critica.
Tutta la mia concezione del metodo scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste di questi tre passi:
1) inciampiamo in qualche problema;
2) tentiamo di risolverlo, ad esempio proponendo qualche nuova teoria;
3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di risoluzione.
O, per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche.» (2)
Come lavora lo scienziato secondo Einstein
Possiamo intercettare qualcosa di più preciso del pensiero di Einstein se leggiamo il testo integrale dell'articolo Induzione e deduzione in fisica, apparso su un giornale tedesco, il "Berliner Tageblatt", il giorno di Natale del 1919. «L'immagine più semplice che ci si può formare dell'origine di una scienza empirica è quella che si basa sul metodo induttivo. Fatti singoli vengono scelti e raggruppati in modo da lasciare emergere con chiarezza la relazione legiforme che li connette. Tramite il raggruppamento di queste regolarità è possibile conseguire ulteriormente regolarità più generali, fino a configurare - in considerazione dell'insieme disponibile dei singoli fatti - un sistema più o meno unitario, tale che la mente che guarda le cose a partire dalle generalizzazioni raggiunte per ultimo potrebbe, a ritroso, per via puramente logica, pervenire di nuovo a singoli fatti particolari.
Un pur rapido sguardo allo sviluppo effettivo della scienza mostra che i grandi progressi della conoscenza scientifica solo in piccola parte si sono avuti in questo modo. Infatti, se il ricercatore si avvicinasse alle cose senza una qualche idea (Meinung) preconcetta, come potrebbe egli mai afferrare dal mezzo di una enorme quantità della più complicata esperienza fatti i quali sono semplicemente sufficienti a rendere palesi relazioni legiformi? Galilei non avrebbe mai potuto trovare la legge della caduta libera dei gravi senza l'idea preconcetta stando alla quale, sebbene i rapporti che noi di fatto troviamo, sono complicati dall'azione della resistenza dell'aria, nondimeno noi consideriamo cadute di gravi nelle quali tale resistenza gioca un ruolo sostanzialmente nullo.
I progressi veramente grandi della conoscenza della natura si sono avuti seguendo una via quasi diametralmente opposta a quella dell'induzione. Una concezione intuitiva dell'essenziale di un grosso complesso di cose porta il ricercatore alla proposta di un principio ipotetico o di più principi di tal genere. Dal principio (sistema di assiomi) egli deduce per via puramente logico-deduttiva le conseguenze in maniera più completa possibile. Queste conseguenze estraibili dal principio, spesso attraverso sviluppi e calcoli noiosi,, vengono poi messe a confronto con le esperienze e forniscono così un criterio per la giustificazione del principio ammesso. Il principio (assiomi) e le conseguenze formano insieme quella che si dice una "teoria". Ogni persona colta sa che i più grandi progressi della conoscenza della natura - per esempio, la teoria della gravitazione di Newton, la termodinamica, la teoria cinetica dei gas, l'elettrodinamica moderna, ecc. - hanno tutti avuto origine per questa via, e che il loro fondamento è di natura ipotetica. Il ricercatore parte dunque sempre dai fatti, il cui nesso costituisce lo scopo dei suoi sforzi. Ma egli non perviene al suo sistema teorico per via metodica, induttiva; egli piuttosto, si avvicina ai fatti tramite una scelta intuitiva tra teorie pensabili basate su assiomi.
Una teoria può ben venir conosciuta come sbagliata, qualora ci sia un errore logico nelle sue deduzioni o può venir riconosciuta come inadeguata (unzutreffende) allorché un fatto non si accordi con una delle sue conseguenze. Ma mai potrà venir dimostrata la verità di una teoria. E ciò perchè mai si sa se anche nel futuro non si scoprirà nessuna esperienza che contraddica le sue conseguenze; e sono sempre pensabili altri sistemi di pensiero, in grado di connettere gli stessi fatti dati. Se sono a disposizione due teorie, entrambe compatibili con il materiale fattuale dato, allora non esiste nessun altro criterio per preferire l'una all'altra che lo sguardo intuitivo del ricercatore. E' così che si capisce come acuti ricercatori i quali dominano teorie o fatti, possono tuttavia essere appassionati sostenitori di teorie opposte.
In questa agitata epoca io sottopongo al lettore le presenti brevi, oggettive, considerazioni, giacchè sono dell'avviso che tramite la silenziosa dedizione a scopi eterni, comuni a tutte le culture umane, si può oggi essere più attivamente utili al risanamento politico che attraverso le trattazioni e le professioni politiche.»
Popper, Einstein, Marx, Freud e Adler
La scelta di questo articolo che chiudeva il 1919 non è stata casuale. Il 1919 fu un anno cruciale nell'esperienza di Popper, perché ebbe modo di conoscere sia la "psicologia individuale" di Adler che la psicoanalisi freudiana, oltre le idee di Einstein. «Considerando quell'anno retrospettivamente, mi stupisce che in così breve tempo possano accadere tante cose nell'evoluzione intellettuale di una persona. Nel medesimo tempo, infatti, studiai Einstein; e questo esercitò l'influenza dominante sul mio pensiero - a lungo andare, forse, l'influenza più importante di tutte.» (3)
Popper dedica un certo spazio al raccontarci perché fu marxista e comunista per un po', e poi abbandonò la partita politica, pur continuando a simpatizzare per i socialdemocratici non marxisti. Il succo del ragionamento sta in due momenti distinti: da un lato il senso di colpa personale derivante da gravi disordini in cui persero la vita molte persone. Popper credette che la responsabilità non fosse imputabile solo alla polizia che sparò sui dimostranti, ma ad un atteggiamento eversivo dei socialisti austriaci dovuto a convinzioni ideologiche. Esso violava le regole dello stato di diritto e lo stato di diritto doveva difendersi. Dall'altro, egli colse nelle idee marxiste una pretesa di scientificità sociale e storica che si stava rivelando fallace. «Avevo accettato acriticamente, dogmaticamente, un credo pericoloso. La reazione mi rese in un primo tempo scettico; poi mi portò a reagire ancorché solo per brevissimo tempo, contro ogni razionalismo. (Come più tardi constatai, questa è una reazione tipica di un marxista deluso).
A diciassette anni ero diventato un anti-marxista. Mi ero reso conto del carattere dogmatico del credo e della sua incredibile arroganza intellettuale. Era una cosa terribile arrogarsi un tipo di conoscenza secondo cui sarebbe un dovere porre a rischio la vita di altre persone per un dogma accettato acriticamente o per un sogno che sarebbe potuto risultare irrealizzabile. Ciò era particolarmente brutto per un intellettuale, per uno che sapeva leggere e pensare.» (4) Il nocciolo del marxismo consiste in una "profezia storica, combinata con un appello implicito alla seguente legge morale: Aiuta a provocare l'inevitabile!"
Quando Popper ascoltò Einstein provò certamente un'emozione intensa, anche perché si sentiva in 'crisi', come chiunque abbia perso il filo della ragione. «Einstein tenne una conferenza a Vienna alla quale io fui presente; ma ricordo solo che ero sbalordito. Questa cosa andava assolutamente oltre la mia comprensione. Io ero cresciuto in un'atmosfera in cui la meccanica di Newton e l'elettrodinamica di Maxwell erano accettate fianco a fianco come verità indubitabili. Perfino Mach, nella sua Scienza della meccanica, in cui egli aveva criticato la teoria newtoniana dello spazio assoluto e del tempo assoluto, aveva tuttavia mantenuto le leggi di Newton - inclusa la legge dell'inerzia, della quale aveva dato una nuova e affascinante interpretazione. E quantunque prendesse in considerazione la possibilità di una teoria non-newtoniana, pensava che prima di poterla avviare si sarebbero dovute attendere nuove esperienze, che sarebbero potute giungere, forse, da nuove conoscenze fisiche o astronomiche sulle regioni dello spazio in cui sono presenti movimenti più veloci e più complessi di quelli che si possono avere nel nostro sistema solare. Nemmeno la meccanica hertziana deviava, eccetto che nella sua presentazione, da quella di Newton.» (5) Del resto la scoperta del pianeta Nettuno era avvenuta seguendo una logica newtoniana e il successo era stato "impressionante". La teoria di Newton era ancora agli occhi di Popper e di moltissimi fisici in grado di correggere ripetutamente il materiale empirico che si proponeva di spiegare. Eppure da questo clima di presunte certezze, oltre al quale si agitavano però molti dubbi, sorse una teoria alternativa. «Fui fortunato per essere stato introdotto a queste idee da un giovane e brillante studente di matematica, Max Elstein, un amico che morì nel 1922 a ventuno anni di età. Egli non era un positivista (come era Einstein a quel tempo, e negli anni a venire), e metteva quindi in risalto gli aspetti oggettivi della teoria di Einstein: l'approccio della teoria del campo; l'elettrodinamica e la meccanica e il loro nuovo legame; e la meravigliosa idea di una nuova cosmologia -un universo finito, ma illimitato. Egl richiamò la mia attenzione sul fatto che lo stesso Einstein considerava come uno dei principali argomenti in favore della sua teoria il fatto che questa ammettesse la teoria di Newton come un'opposizione molto buona; e inoltre che Einstein, benché convinto che la sua teoria fosse un'approssimazione migliore rispetto a quella di Newton, riteneva tuttavia la sua teoria semplicemente come un passo in avanti verso una nuova teoria ancor più generale: e ancora, che Hermann Weyl aveva già pubblicato, ancor prima delle osservazioni dell'eclisse, un libro (Raum, Zeit, Materie, 1918) in cui si proponeva una teoria più generale e comprensiva di quella di Einstein.» (6)
La cosa che maggiormente impressionò Popper fu che Einstein aveva affermato che la sua teoria sarebbe risultata insostenibile qualora i controlli possibili non l'avessero confermata. "Se non dovesse esistere lo spostamento verso il rosso delle linee spettrali dovute al potenziale gravitazionale, la teoria generale della relatività sarebbe allora insostenibile." Da questa affermazione di Einstein, Popper derivò una innovazione metodologica che giudicava capitale. «Qui c'era un atteggiamento completamente differente dall'atteggiamento dogmatico di Marx, Freud, Adler, e quello ancor più dogmatico dei loro seguaci. Einstein era alla ricerca di esperimenti cruciali, il cui accordo con le sue predizioni avrebbe senz'altro corroborato la sua teoria; mentre un disaccordo, come fu egli stesso a ribadire, avrebbe dimostrato che la sua teoria era insostenibile.
Sentivo che era questo il vero atteggiamento scientifico. Era completamente differente dall'atteggiamento dogmatico, che continuamente affermava di trovare "verificazioni" delle sue teorie preferite.
Giunsi così, sul finire del 1919, alla conclusione che l'atteggiamento scientifico era l'atteggiamento critico, che non andava in cerca di verificazioni, ma bensì di controlli cruciali; controlli che avrebbero potuto confutare la teoria messa alla prova, pur non potendola mai confermare definitivamente.» (7)
Precedenti: Whewell, Jevons, Bernard, von Liebig, Herschel, Naville e tanti altri, non ultimo Peirce
Ciò che affermava Einstein, e che Popper riprenderà con energia e spirito filosofico, non era però una novità. Illustrissimi precedenti sono rinvenibili nel cuore stesso del positivismo o, quantomeno, nel cuore dell'epoca del positivismo. Einstein non poteva non conoscere, sia pure indirettamente, il pensiero di Justus von Liebig, il chimico tedesco che nel 1863 aveva pubblicato un violento attacco a Bacone nel quale si leggeva: «I biografi di Bacone e la maggior parte degli autori che si sono occupati delle sue opere, lo rappresentano e lo considerano come l'antagonista della Scolastica, come il rinnovatore delle scienze naturali, come il fondatore di un nuovo metodo della ricerca e di una nuova filosofia...[...] E ancora dopo tre secoli, il suo nome brilla come una stella luminosa che, così si afferma, ci ha indicato la giusta via e il vero scopo delle scienze.»
In realtà, Bacone, pur vivendo in un secolo meraviglioso che vide rivelarsi il genio di Keplero e Galileo, di Stevino, Gilbert e Harriot, non comprese per niente in cosa consistesse l'impresa scientifica. Il mondo descritto da Bacone soprattutto nella Sylva sylvarum è "un mondo di errori ed imposture". Il metodo esposto da Bacone nel Novum organum "è del tutto inutile per lo sviluppo dei concetti anche più semplici, alla fine di una prolissa discussione noi veniamo a sapere quel che conoscevamo all'inizio". Egli ci porta solo in un labirinto, ma privi del filo d'Arianna: "il metodo di Bacone non è affatto il metodo della ricerca delle scienze naturali".
Bacone vorrebbe "far parlare le cose", invece, "nelle sue spiegazioni, è sempre Bacone che prende la parola senza mai permettere alle cose stesse di parlare; per essere loro interprete egli dovrebbe capire la loro lingua, ma proprio questa gli è sconosciuta."
Secondo von Liebig, il vero metodo della scienza naturale è deduttivo e a priori: "l'esperimento non è che un mezzo di aiuto per il processo di pensiero, analogamente al calcolo, il pensiero deve in tutti i casi e necessariamente precedere l'esperimento, se si vuole che questo abbia un certo significato. Una ricerca empirica della natura, nel senso usuale del termine, semplicemente non esiste. Un esperimento che non presuppone una teoria, cioè un'idea, somiglia ad una vera ricerca naturale come il rumore dei fischietti dei bambini somiglia alla musica". (8)
Non molto diverse furono le posizioni di William Whewell e William Stanley Jevons. Il primo filosofo, il secondo logico ed economista, noto per aver rovesciato con ammirevole abilità le idee di Stuart Mill in ordine alla centralità dell'induzione. Sulla stessa linea si possono ritrovare Herschel, Karl Pearson (La grammatica della scienza, prima edizione nel 1892) e George Gore, autore de L'arte della scoperta scientifica, Londra 1878. Anche in Italia si ebbero almeno due filosofi della scienza lucidamente consapevoli dei limiti dell'induttivismo: Luigi Palmieri e G. A. Colozza. Ma è certamente Ernest Naville, filosofo elvetico operante in Francia, il pensatore che più di ogni altro potrebbe rivendicare il ruolo di 'precursore' di Einstein e Popper. Naville, pur riconoscendo a Claude Bernard, il grande innovatore della medicina, von Liebig , lo stesso Galileo, il merito di aver evidenziato il ruolo delle ipotesi nella costruzione delle teorie, affermò che fino ad allora, nessuno aveva veramente intuito la valenza generale di questa impostazione e delle sue conseguenze. Naville,come del resto Einstein più tardi, non negò che esistono scoperte che vengono dall'osservazione diretta. «L'osservazione suscita l'ipotesi nella mente dello scienziato, e l'ipotesi provoca nuove osservazioni.. Si tratta qui di una questione di proporzioni, e non penso di esagerare nel dire che le osservazioni dirette dalle ipotesi stanno alle osservazioni pure e semplici almeno come cento sta a uno. Il mondo è immenso e bisogna sapere dove guardare sotto pena di perdersi in una vaga e sterile contemplazione. Si osserva quasi sempre in vista di teorie preconcette che si vogliono confermare o distruggere. Per gli spiriti colti la conoscenza dei fatti non diventa veramente interessante se non quando rivela un'idea e manifesta l'armonia della natura con il pensiero. Le ipotesi, anche quando son false, possono essere utili, se hanno un fondo di serietà, perché provocano le ricerche.» (9) Tuttavia, Naville, a differenza di quanto farà Popper, mise in guardia, fin dalle prime pagine della sua prefazione, dal rischio di farsi prendere dall'entusiasmo per le ipotesi. Infatti scriveva: «Ci si sbaglierebbe molto sulla finalità del mio lavoro se si pensasse che esso deve avere per scopo quello di riabilitare praticamente l'ipotesi e di incoraggiarne l'uso. E' impossibile infatti aumentare l'uso di un procedimento del pensiero che è sempre necessariamente in esercizio.
Evidenziare il ruolo dell'ipotesi significa dare agli scienziati la chiara coscienza del metodo che impiegano e renderli allo stesso tempo attenti ai suoi abusi. Nella vita morale una passione è tanto più dannosa quanto più è ignorata; metterla in evidenza vuol dire impegnarsi a controllarne gli effetti. Allo stesso modo, segnalare l'azione sempre presente della facoltà di supporre, significa la richiamare l'attenzione sulla necessità di controllare tale azione per mantenerla nei suoi giusti limiti.» (10)
La prudenza consigliata da Naville si potrebbe spiegare con il fatto che egli non era ancora in pieno possesso di un metodo della smentita, ovvero della teoria delle falsificazione. Le prove della validità di una teoria, per Naville, continuava a risiedere nelle verifiche. Naville non giunse a comprendere che le verifiche non erano sufficienti e che sarebbe occorso quel surplus di controlli rigorosi che sia Einstein che Popper avrebbero poi individuato come prova decisiva.
Eppure, qualcuno aveva già parlato di falsificazione, ad esempio John F. W. Herschel. Per non dire di Peirce.
Peirce: abduzione, fallibilismo e falsificazione
Solo con Peirce, abbiamo un pensiero veramente nuovo nei confronti delle metodologie della ricerca. Lo riconobbe lo stesso Popper, sia pure tardivamente, nel lavoro Replay to My Critics. Tuttavia, Popper si sentì anche in diritto di evidenziare le grandi differenze tra il suo approccio e quello di Peirce. In effetti tutti possono vedere che in Peirce esisteva già una teoria del ruolo delle ipotesi genialmente inventate; solo che, semplificando al massimo la descrizione della procedura dell'invenzione, Peirce la rese in una formula troppo banale, al limite dell'aridità: e se fosse vero che? Il genio, per Peirce, è una persona semplice, ed è per questo che la semplicità è disarmante.
In Peirce c'era anche una grande consapevolezza dei limiti dell'impresa scientifica e della possibilità dell'errore. Questo era fallibilismo. Popper osservò, tuttavia che il fallibismo di Peirce era meno radicale del suo, perché il filosofo americano, in qualche parte del suo frammentatissimo lavoro, non aveva escluso la possibilità della "teoria della verità manifesta" (termine impiegato da Popper). Popper rifiutava questa teoria perchè convinto che in generale nessuna teoria possa arrogarsi il diritto di essere "vera" in modo indubitabile. Magnanimamente giustificava il 'ritardo' di Peirce con la scusante che non aveva potuto conoscere lo sconvolgente pensiero di Einstein.
In realtà ci sono molte pagine di Peirce che dimostrano come egli avesse già delineato un abbozzo di logica della scoperta del tutto parziale e quindi senza pretese assolutistiche. Peirce arrivò a scrivere che "non siamo mai sicuri di niente", non in un'ottica cartesiana e soggettiva, ma in un ottica di impresa scientifica intersoggettiva. La sicurezza relativa ci viene dalla verifica e dalla falsificazione, cioè dalla possibilità che una teoria oggettiva possa venire controllata e ricontrollata pubblicamente da teste diverse in accordo o in disaccordo con le risultanze sperimentali. Molti filosofi interessati all'impresa scientifica avevano già parlato di confutazione, smentita, contraddizione fattuale; Peirce fu molto lucido nel parlare di falsificazione. Si veda ad esempio quanto scrisse in On the Algebra of Logic. A contribution to the Philosophy of Notation. (vedi)
Von Mises
Del resto, Popper era stato per così dire anticipato sul filo di lana anche da Ludwig von Mises, che nel 1933 (un anno prima della pubblicazione della versione tedesca della Logica della scoperta scientifica) aveva messo in circolazione Grundprobleme der Nationalökonomie. L'impostazione epistemica di von Mises era visibilmente sulla linea percorsa da Popper: "il passo decisivo - scriveva - si ha solo con la costruzione di ipotesi: una proposizione non emerge semplicemente dall'osservazione e dall'esperienza... L'ipotesi è già un'elaborazione intellettuale dell'esperienza". In tutti i casi, "è completamente l'opposto del vero la tesi dell'empirismo secondo la quale le proposizioni teoriche si raggiungono attraverso l'induzione sulla base di osservazioni di 'fatti' prive di presupposti. E' solo con l'aiuto di una teoria che noi possiamo determinare che cosa sono i fatti."
(continua)
1) K. R. Popper, dal saggio La teoria del pensiero oggettivo - in Conoscenza oggettiva - Armando 1975
2) K. R. Popper - Problemi, scopi, e responsabilità della scienza - in Scienza e filosofia - Einaudi 1969
3) K. R. Popper - La ricerca non ha fine / Un'autobiografia intellettuale - Armando 1976 - III edizione 1997
4) idem
5) idem
6) idem
7) idem
8) J. von Liebig - Über Francis Bacon von Verulam und die Methode der Naturforschung - Literarisch-artistische Anstalt der J. G. Cotta'schen Buchhandlung, Monaco 1863, citato nella prefazione di D. Antiseri a Ernest Naville - La logica dell'ipotesi - Rusconi 1989
9) Ernest Naville - La logica dell'ipotesi - Rusconi 1989
10) idem