Filosofia |
PARMENIDE
di Guido Marenco
Parmenide fu contemporaneo di Eraclìto, essendo
nato nell'odierna Velia, in Campania, nel
540 A.C. o giù di lì. Pare che a differenza
di Eraclìto riuscì a godere di ottima fama
presso i suoi concittadini, contribuendo
tra l'altro alla legislazione, ma seguendo
tutto intero questo scritto vedremo da "quali"
cittadini, probabilmente, egli ricevette
segni di stima.
A differenza di Eraclìto, autodidatta, inoltre,
egli ebbe dei "maestri": Senofane secondo alcuni, il pitagorico Aminia secondo
altri; facile che imparò qualcosa da tutti
e due.
Platone gli intitolò uno dei suoi dialoghi
più importanti e dovette in qualche modo
"fare i conti" col suo pensiero
per affermare l'intelligibilità del non-essere
ed una teoria della conoscenza fondata su
un'ontologia razionale.
Aristotele, dal canto suo, pur criticando
Parmenide, gli riconobbe una certa profondità
di pensiero.
Dell'opera fondamentale di Parmenide intitolata,
tanto per cambiare, "Sulla natura",
e scritta in versi, ci sono pervenuti solo
frammenti, anche se sufficienti a ricostruire
una parte cospicua delle sua filosofia.
Fin dall'inizio rimaniamo sorpresi e sconcertati
da una sorta di rivelazione: una dea avrebbe
fornito a Parmenide la chiave di tutta la
verità.
Essa si compone di due sentieri, "quello
del giorno" e "quello della notte".
Seguendo il primo sentiero, quello diurno,
si perviene ad avere "l'animo inconcusso
della ben rotonda verità."
Camminando su quello notturno si seguono
le opinioni dei mortali, ma non si perviene
alla verità, cioè a come stanno le cose realmente,
ma solo a credere che le cose stiano così
o cosà.
Parmenide tuttavia, non ritenne del tutto
inutile seguire anche il secondo sentiero,
tant'è che nel suo poema espose sia la Verità
del sentiero del giorno che alcune sue opinioni
derivanti dal sentiero notturno. Esse, ovviamente,
non erano opinioni come le altre, ma quelle
scelte tra le più valide.
Parmenide iniziò la sua esposizione affermando
la necessità di una certa affermazione e
l'impossibilità dell'affermazione opposta.
La via della Verità è quella che dice "che
è" e che non è possibile "che non
sia". Bisogna ragionare su questo "non
sia".
Esso significa che è impossibile che il "non-essere"
sia, cioè sia che esista il "non-essere",
sia che sia possibile qualcosa di diverso
dall'essere.
Si deve intendere "essere" con
"quello che è attualmente". E si
deve intendere "attualmente" come
il presente nel quale vi sono particolari
rapporti di forza, storicamente determinati
sia in ambito naturale, che in ambito sociale.
In altre parole la realtà è solo "ciò
che è". E questo significa che Parmenide
esclude la "possibilità" la quale
non è vista, come più tardi osserverà Aristotele,
come essere in potenza di qualcosa non ancora
in atto, ma è semplicemente negata e dichiarata
impossibile.
Non credo siano logicamente possibili altre
interpretazioni.
Come si vede chiaramente siamo ad una concezione
dell'essere che ritiene impossibile il "divenire"
e questo nonostante tutti i comuni mortali
percepiscano il "divenire" come
essere.
In sostanza Parmenide si colloca agli antipodi
di Eraclìto, per il quale il "divenire"
è il modo di essere dell'essere della realtà
e si pone altresì agli antipodi di un qualsiasi
tentativo di osservare e studiare la realtà
partendo da aspetti materiali di essa. Il
che significa negare ogni forma di scienza,
anche la più rudimentale ed empirica.
Ora non c'è filosofo di una certa importanza
che in qualche modo non sia stato, anche
solo temporaneamente, abbagliato dalla potenza
di quest'affermazione che esclude perentoriamente
qualsiasi possibilità di uscire dal cerchio
soffocante di quest'essere assoluto che nega
il cambiamento e la possibilità, qualsiasi
forma di scienza ed anche di tecnica. Infatti
se l'essere è ed il non essere non è non
potrebbe essere possibile ricavare una nave
da tronchi d'albero, o una statua da un blocco
di marmo, e nemmeno cuocere un pollo.
Come già detto dobbiamo ad Aristotele il
merito di aver affermato il diritto della
possibilità di abitare il mondo della filosofia,
ma sarebbe sbagliato non cercare di approfondire
le ragioni di Parmenide e cercare di vedere
oltre questo carattere perentorio delle sua
affermazione di base.
Chi scrive non concorda affatto con la maggioranza
degli studiosi di buon senso che hanno giustificato
Parmenide dichiarando "arcaico"
il suo modo di pensare e di argomentare privo
di soggetto e quindi assoluto.
Il soggetto, ad esempio "io" e
"tu", od anche il nome proprio
di una persona ribadita, ad esempio il nome
di un dio o di un eroe, è proprio del pensare
arcaico e del modo di raccontare arcaico
e primitivo. Le espressioni del tipo "piove"
sono il risultato di una evoluzione del pensiero,
ma sottindendono o "Dio fa piovere",
oppure "piove acqua" ed il soggetto
è l'acqua, omesso perchè inutile, visto che
i sassi non piovono tutti i giorni e non
piovono da soli e che pertanto risulta assai
difficile venire fraintesi quando si dice
"piove".
Sicchè la mia conclusione è del tutto opposta
a quella degli studiosi: omettere il soggetto
non è affatto arcaico, è terribilmente moderno
ed è anche tipico di chi vuole premeditamente
confondere le acque e mettere sassi al posto
delle idee nella testa della gente.
In altre parole: l'impossibilità del non-essere
non ha in Parmenide alcuna necessità filosofica;
non esprime alcuna ansia di ricerca; è solo
espressione di una necessità "politica"
ed è motivata dal fatto che egli vuole negare
la possibilità del possibile, ad esempio
l'introduzione di criteri di giustizia diversi
nel governo della città.
Noi non abbiamo alcuna prova circa la posizione
di Parmenide. Non possiamo stabilire se fosse
"buono" o "cattivo",
cioè se stesse con i giusti o gli ingiusti.
Indubbiamente stava con il "potere",
perchè chi sta all'opposizione deve nutrire
speranza nel cambiamento, altrimenti che
ci sta a fare?
Però possiamo dedurre che dovunque stesse,
ci stava con gli argomenti sbagliati, in
un modo intellettuale radicalmente disonesto.
Uguale dissenso, sempre rispetto al mainstream
di questi storici di buon senso della filosofia,
lo devo esprimere anche sull'attribuzione
a Parmenide di una formulazione arcaica del
"principio di non contraddizione".
Si tratta di una baggianata colossale che
scambia non lucciole per lanterne ma, l'essenza
stessa dell'imbroglio per la verità.
Infatti il principio di non contraddizione
poggia su una nozione precisa di contesto
e di ambientazione, si fonda sulle categorie.
Senza categorie, cioè il parlare categorico
nel senso proposto da Aristotele, non ci
può essere contraddizione, e quindi nemmeno
incoerenza.
Si da solo imprecisione.
Non posso dire che una persona è viva all'ora
x, e poi dire che è morta alla medesima ora
x. O è viva o è morta, all'ora x. Può solo
esser morta all'ora x+1, può solo esser viva
all'ora x-1. Come si vede il senso della
possibilità e del divenire contempla solo
l'istante x+1, cioè il futuro rispetto al
presente o al passato di cui stiamo parlando, e questo in quanto l'istante x-1 e l'istante x sono
stati determinati e non possono essere modificati
in alcun modo.
Quando invece si fanno affermazioni di tipo
assoluto, cioè categorialmente imprecise,
e quindi prive di contestualizzazione ed
ambientazione, non ci può essere contraddizione
ed è conseguentemente impossibile rilevarla.
L'espressione "Hitler fu buono"
ripugna alla coscienza di chiunque, è ovviamente
assurda rispetto ai dati storici di cui disponiamo,
ma se venisse contestualizzata ed ambientata,
non sarebbe contraddittoria. Ad esempio:
a otto anni Adolf Hitler regalò il suo temperamatite
ad un compagno di classe ebreo che piangeva.
Quel giorno fu buono. Fosse stata resa sotto
forma di testimonianza dallo stesso bambino
ebreo potremmo anche crederci e convenire
che ci furono giorni in cui Adolf Hitler
fu buono senza per questo cadere in contraddizione.
In realtà, come abbiamo cercato di mostrare,
al di fuori della contestualizzazione, il
principio di non contraddizione non solo
non ha utilità alcuna, ma rischia di introdurre
in qualsivoglia discussione delle fumisterie
eristiche alle quali aggrapparsi per nascondere
la verità e confonderci le idee.
In Parmenide si trovano dunque affermazioni
che abbagliano per la loro presunta lucidità,
ma non tengono affatto rispetto ad un esame
analitico ( e forse...psicoanalitico)
Egli afferma ad esempio che "il pensare
e l'essere sono la stessa cosa". Ma
questo non è vero se non si specifica che,
nel pensare il possibile e nel valutare come
impossibile il verificarsi di una certa cosa,
si dia per l'appunto la possibilità di una
situazione nuova in cui compare qualcosa
che prima non era, cioè non era in atto,
ma solo in potenza.
Ma in altro senso potremmo anche supporre
che egli volesse significare la stessa cosa
proposta più tardi da Descartes: se penso,
dunque esisto.
Il che non implica tuttavia alcun giudizio
su come si pensa, cioè se seguendo il logos
oppure non seguendolo. Ma se penso non seguendo
il logos, non è forse vero che penso anche
l'impossibile reale, ad esempio che una mucca
si metta a volare, non perchè qualcuno la
getta da una rupe, ma perchè le spuntano
le ali?
La mucca che vola è non-essere allo stato
puro, eppure l'abbiamo pensata. Cosa altro
occorre per dimostrare che essere e pensare
non coincidono? E che dunque si possono pensare
anche le menzogne e le fanfaluche?
Anche su questa coincidenza totale e perfetta
tra il pensare e l'essere Parmenide si mostra
dunque in gravissime difficoltà.
Analogamente si può ragionare rispetto alla
successiva affermazione secondo cui: "bisogna
dire e pensare che l'ente è, infatti è possibile
essere, mentre è impossibile il nulla".
Se non si distingue tra fisica e metafisica
l'affermazione di Parmenide genera solo confusione.
Infatti nulla esclude che un'anima sopravviva
al corpo e quindi continui ad essere. Ma
se il corpo è morto, è morta la sostanza,
cioè l'io che governava quella persona non
è più tra noi.
Sicchè, come si dice, ha lasciato un vuoto.
Da un punto di vista fisico non è più. Metafisicamente
potrebbe tuttavia esser vivo, chi lo sa?
Ma questo è categorialmente un altro piano
del discorso; infatti dovremmo specificare
che l'anima del morto è viva e dorme beatamente
in paradiso. (se non usiamo la categoria
del "dove", dove è vivo, e del
"come", come è vivo, non ci raccapezziamo)
Ma il terzo punto di dissenso che devo esplicitare
è ancora più grave, anche perchè investe
lo storico della filosofia che ha contribuito
in maniera determinante a guidare i miei
primi passi ed a portarmi ad una vera comprensione
di Aristotele.
Enrico Berti, tra gli altri, afferma nel
primo volume della sua storia della filosofia
edita da Laterza e rivolta ai licei, che
Parmenide espresse "in forma geniale"
il presupposto della sua filosofia ovvero
"la scoperta che in filosofia si può
ritenere verità solo ciò che si mostra dotato di necessità,
ossia il cui opposto è impossibile."
Continua Berti affermando che << Parmenide
deduce tutta una serie di conseguenze, cioè
di caratteri dell'essere (da lui chiamati
"segni", nel senso di segnavia)
che delineanano una concezione della realtà
molto simile a quella di Senofane...
Egli infatti afferma che solo l'essere è,
perciò non può mai essersi mai generato nè
mai perire, perchè generarsi significa venire
dal non essere, e perire significa ritornare
al non essere, ma nessuna di queste due cose
è possibile, in quanto il non essere non
è.>>
Ne viene ancora che anche la molteplicità
delle cose non può esistere, perchè è impossibile
distinguere una cosa dall'altra, e ciò equivarrebbe
a non essere l'altra. Ma poichè il non essere,
e quindi il non poter essere altro, è impossibile,
ciò equivale ad essere nulla, cioè all'impossibile.
Detto questo, esplicito il mio dissenso cominciando
dal fatto che se si ammette che la molteplicità
è impossibile perchè è impossibile operare
delle distinzioni nel mare dell'essere, si
nega proprio ciò che è fondamentalmente necessario,
ad esempio distinguere tra un oggetto commestibile,
un frutto; e ciò che non è commestibile,
il tronco dell'albero a cui sta appeso il
frutto.
Non solo: si nega la possibile esistenza
di due o più frutti della medesima specie,
e anche questo è assurdo.
Se poi sia vero che in filosofia si può ritenere
verità solo ciò che è dotato di necessità,
io non lo so. Però dovrebbe essere vero che
proprio la capacità di distinzione è necessaria,
ma Parmenide la nega, relegandola ad essere
opinione, ovvero una produzione mentale della
"notte".
In realtà non credo che sia corretto legare
in senso così stretto la verità alla necessità,
e quindi all'impossibile che sia diversamente.
La verità a volte è solo una persuasione
e ciò ci rimanda al soggettivo, senza per
questo cadere nelle affermazioni paradossali
fatte da Hume sul sapere oggettivo come mera
"credenza", che trovano un illustre
precedente in Democrito e la sua opinione
sui gusti come opinione.
Ma quando vogliamo stabilire una verità oggettiva,
dobbiamo per forza di cose verificare anche
ciò che ci pare impossibile, od altamente
improbabile, ad esempio che trecento Spartani
possano avere la meglio su miriadi di Persiani.
La storia della filosofia dimostra il contrario
di questa tesi, ovvero dimostra che anche
il non-necessario inteso in senso corrente,
come inutile al profitto, o come inutile
argomento alla tesi precostituita che voglio
sostenere, o come non diretta conseguenza
di un certo evento, è verità, altrimenti
su questo terreno avrebbe ragione Isocrate,avrebbero ragione i sofisti e avrebbero torto
Platone ed Aristotele.
Ciò che Isocrate giudicava inutile, cioè
la filosofia teoretica, Platone ed Aristotele
giudicarono necessaria.
Non perchè fosse o sia necessaria in assoluto,
ma perchè necessaria ad una visione della
vita consona a personalità come quelle di
Platone ed Aristotele ed alla loro ansia
di sapere.
Pertanto la questione di chiarire "cosa è necessario" e poi distinguerlo
da cosa è "necessario" diventa determinante, a cominciare da cosa
si intende quando si dice "necessario".
Io, ad esempio, mi chiedo sempre, secondo
gli ovvi principi di ragion pratica esposti
da Kant, "rispetto a cosa questo è necessario?"
Risposta: se voglio, devo. Se è successo
è perchè...
Ma il fatto che ciò appaia come "necessario"
nella mia testa non mi porta altro che ad
una verità probabile, nel migliore dei casi
"molto probabile".
Per esempio supponevo necessaria la conoscenza
del greco antico per studiare filosofia.
In realtà non lo era e non lo è, anche se
tale conoscenza è di fondamentale importanza.
Parimenti come tossicodipendente mi sembra
indispensabile avere sempre un pacchetto
di sigarette a portata di mano. Ma sarebbe
assurdo affermare che le sigarette mi sono
necessarie.
Se si tratta di un delitto, è necessario
che ci sia un omicida, ma è anche necessario
un movente.
E comunque senza testimonianze inoppugnabili,
o senza una confessione credibile, mi risulta
abbastanza difficile non tanto stabilire
la "mia" verità, quanto convincere
qualcunaltro in modo inoppugnabile che questa
è la verità.
Se voglio vivere devo respirare, devo mangiare,
e se voglio avere il mangiare, devo procurarmelo,
perchè solo l'aria non costa niente.
In questa sequenza è primariamente necessaria
la salute, perchè senza salute anche i soldi,
o servono a ben poco, o tuttalpiù ci consentono
di surrogare la salute stessa acquisendo
protesi e medicinali.
Inoltre solo la salute mi consente di lavorare
e quindi di guadagnare.
In conclusione nessuna delle affermazioni
di Parmenide è realmente dotata di necessità,
sia rispetto ad una nozione generica della
stessa, sia rispetto alle esigenze più correnti
degli animali bipedi, politici e razionali
che siamo.
La filosofia di Parmenide dunque risponde
solo ad una specifica necessità, la quale
è una necessità solo per Parmenide e per
quelli come lui: confondere le idee e sollevare
una nebbia di polvere talmente fitta che
finiamo col capirci più niente.
Questa necessità è improntata dalla precisa
intenzione di lasciare le cose come stanno,
dissuadere dalla possibilità di operare qualsiasi
cambiamento. Dunque è una filosofia del potere
che a noi sembra assolutamente neutrale nel
senso che potrebbe essere usata sia dai progressisti
che dai conservatori; l'importante è essere
al potere. Una volta che lo si è, dichiarare
impossibile il cambiamento è il modo più
subdolo ed anche più efficace per minare
la fiducia dell'avversario, scompigliarne
le fila, e strappargli qualche seguace scagliandolo
nella nebbia dell'essere primordiale a fare
i conti con l'impossibile che sia, quando
ormai è dimostrato che le uniche cose impossibili
sono "quelle che non riusciamo a fare".
Ma l'aspetto più importante, già evidenziato
per altro, è che seguendo Parmenide, noi
siamo nell'impossibilità di un qualsiasi
approccio espistemologico, "scientifico"
alle cose, perchè nel gran mare dell'essere,
tutto si confonde, tutto è indeterminabile,
non individuabile, non studiabile a sè, non
classificabile, non riducibile a oggetto
di studio.
In sostanza il pensiero di Parmenide è un
attacco alla dignità dell'uomo tra i più
formidabili in tutta la storia umana. Egli
pretendeva di negare all'uomo la facoltà
di conoscere e di discernere, di avere coscienza
delle cose, di avere persino una coscienza.
Se ci pensiamo bene persino la storia di
Adamo ed Eva letta alla lettera è una barzelletta
rispetto alla storia che ci racconta Parmenide.
Infatti mentre Dio, secondo l'autore di queste
righe di Genesi, preclude all'uomo solo la
sapienza assoluta del bene e del male (il
che non è del tutto sbagliato), Parmenide
osa precludere la via a qualsiasi forma di
sapienza.
La nozione di "essere" cui perviene
Parmenide, finito, compiuto, simile ad una
sfera che non manca di nulla, statico, è
pertanto una concezione marmorea della vita
che non ha nulla a che vedere col vero "essere"
delle cose che è dinamica ed in continuo
mutamento.
Detto questo, potrebbe essere interessante
vedere anche quali siano per Parmenide le
opinioni più valide, cioè cosa gli abbia
suggerito la notte;-))).
Per Parmenide tutte le cose derivano da due
principi opposti, la luce e le tenebre, dalla
cui unione tutto nascerebbe, a cominciare
dal dio Amore, secondo modalità di tipo sessuale.
Così tutto ciò che vediamo si sarebbe formato
secondo la compenetrazione di questi principi
e sarebbe dunque l'espressione di una dialettica
non dissimile da quella proposta da Eraclìto.
Ma ad essi Parmenide aggiunge qualcosa, ad
esempio una teoria della generazione degli
animali e degli uomini che sosteneva che
i maschi nascono da un seme posto nella partre
destra dell'utero e le femmine provengono
da un seme posto a sinistra.
Aggiunse che i gli individui ben formati
vengono da una buona unione di semi maschili
e femminili in armonia, mentre gli individui
malformati o sofferenti vengono dall'unione
di semi in disaccordo tra loro.
Come si vede da queste osservazioni per nulla
disprezzabili l'uomo non era del tutto impedito
dal ragionare. Per certi aspetti, infatti,
il suo pensiero notturno è persino più "fecondo"
che quello di Eraclìto e l'intuizione che
un individuo malformato sia il risultato
di un unione mal riuscita è persino più avanzata
della stessa biologia aristotelica, la quale
attribuisce la nascita di malformati alla
resistenza della materia alla forma.
Certamente costituisce una curiosità constatare
che i suoi discepoli abbandonarono del tutto
queste teorie notturne (molto più diurne
delle altre, in verità) per seguire quelle
diurne, davvero tenebrose e "sinistre".
Tra questi discepoli indubbiamente il più
importante fu Zenone di Elea, da non confondere
con Zenone lo stoico.
3 agosto 2000