Siamo tra il 480 e il 400 a.C. Confucio morì
nel 479 a.C. Mozi non lo conobbe ma, ebbe
a che fare con i suoi seguaci e con problemi
sociali e politici più grandi delle dottrine
confuciane e con l'impotenza del retto agire
umano.
Probabilmente, Mozi si guadagnò da vivere
come artigiano oltre che come piccolo funzionario
"errante" alla ricerca di principi
e duchi cui offrire il proprio servizio.
Ancora più probabilmente, fu un artigiano
di tipo "tecnico" più che "artistico".
Costruiva congegni utili e non oggetti per
la contemplazione estetica. Questo tratto
biografico risulta decisivo per capire e
valutare il suo pensiero ed i suoi scritti.
Era il tipo che andava dritto al sodo. Non
gli piacevano i fronzoli e le spese superflue.
Detestava perdere tempo in rituali e smancerie
da cicisbeo. Quando cominciò a scrivere,
prese a bersaglio soprattutto i "mandarini"
del suo tempo: aristocratici, leccapiedi,
ispettori, burocrati e sfaccendati. In una
parola: tutti coloro che approfittavano della
lezione di Confucio per legittimare la propria
posizione di rendita e la propria sfarzosa
(e spesso scostumata) condotta. Venisse in
mente Saint-Simon ed il primo positivismo
politico, non saremmo tanto distanti dalla
verità storica su Mastro Mo. La generosa
inclusione degli scritti intitolati Mozi nel cosiddetto "Canone Taoista",
tuttavia, non si spiega come il tentativo,
che sarebbe stato assai goffo, di costruire
a posteriori un fronte unico degli "anti-mandarini".
In ogni posizione "anti", c'è sempre
un pronunciamento "per". In questo
caso vuol dire "per la vita sobria,
razionale e pacifica" che, come vedremo,
è la lezione finale del Maestro. Bisogna
allora capire che il "non agire"
non significa non lavorare. Mozi finì col costituire la base materiale del
dao. Impara un mestiere e renditi utile. Anche
lo stile di vita più sobrio
richiede un lavoro.
Un individuo con questo atteggiamento rispetto
alla vita, propria e degli altri, rischia
di rovinare la festa ed il lato "gradevole"
dell'esistenza. Ma, sarebbe un gravissimo
errore includerlo nel Canone universale dei
"guastafeste". Al contrario, si
fece latore di un messaggio radicalmente
liberatorio. Quando evidenziò l'irrazionalità
economica dei riti funebri celebrati con
sfarzo e con un lutto prolungato perfino
a venticinque mesi, suonò la sveglia ad uno
stuolo di individui addormentati beatamente
nel non-senso della ritualità. «Nei
riti funebri elaborati, dunque, vengono consumate
molte energie e molte ricchezze; se i riti
del lutto si protraggono a lungo, ci si astiene
per troppo tempo dal lavoro e dalle occupazioni
quotidiane. Ricchezze già prodotte vengono
accantonate e seppellite, [attività] vitali
vengono per troppo tempo vietate. Desiderare
la potenza, grazie a queste pratiche, è come
desiderare un [grande] raccolto grazie all'astensione
dal lavoro. agricolo.» (1) Le donne
interrompono il loro lavoro, non tessono,
non si accoppiano con i mariti, non fanno
figli. Devono fingere di piangere per non
scandalizzare i parenti, gli amici e l'opinione
pubblica. E mentre si occupa il tempo ad
onorare i defunti, il mondo dei vivi va a
rotoli. Nei Vangeli c'è quella frase considerata
scandalosa e, per questo, vagamente rimossa
dai catechisti: "lasciate che i morti
seppelliscano i morti e seguitemi nel regno
dei vivi!". L'aveva già detto Mastro
Mo. Con la differenza significativa che il
mondo di Mozi era, se possibile, persino più superstizioso
di quello di Gesù di Nazareth. Non onorare
i defunti come prescritto, per i cinesi "concreti"
del tempo, voleva dire andarsi a cercare
delle grane con gli spiriti degli antenati.
Mozi, intervenendo pesantemente con la sua razionalità
pragmatica sull'irrazionalità
delle credenze,
si attirò l'ira funesta
dei becchini e dei
maestri di cerimonie. La
leggenda dice che
scomparve in circostanze
misteriose. Assassinato,
o semplicemente in grado
di far perdere le
proprie tracce dopo aver
compiuto la missione?
Resta che si può attualmente accedere ad
un gruppo di 15 libri articolato in 71 capitoli,
18 dei quali sembrano andati perduti. Un'opera
imponente, con tutta probabilità redatta
da discepoli, dato che è difficile che un
tizio scriva: "Mozi disse", parlando
di se stesso. Il problema è che in lingua
italiana, che io sappia, non ci sono che
stralci che bisogna raccattare qua e là.
D'altra parte, accantonata la libidine intellettuale
per i libri più antichi e i misteri gloriosi,
la questione Mozi si riduce a ben poco. In
primo luogo, serve a sbarazzarsi dell'idea
che il pensiero cinese manchi intrinsecamente
di logica e razionalità, sia essenzialmente
poetico e tendenzialmente mistico. Mozi dimostra il contrario. Sono dunque esistiti
pensatori cinesi in grado
di imbastire un
sistema razionale e, quantomeno,
pragmatico.
Un sistema che ricorreva
all'argomentazione
esplicita, mirante ad evidenziare
i principi.
«Il maestro Mo disse: "I criteri
di giudizio devono assolutamente essere stabiliti.
Esporre una dottrina senza rifarsi a criteri
di giudizio è come determinare la direzione
dell'alba e del tramonto servendosi della
ruota di un vasaio. La distinzione tra giusto
e sbagliato, tra profitto e danno, non può
essere effettuata, né conosciuta [su queste
basi]. Per questo una dottrina deve avere
tre fondamenti."
"Cosa significa tre fondamenti?"
Maestro Mo disse: "Significa
che devono
esserci una base, una verificabilità
e un'applicazione
pratica. Su cosa ci si
dovrebbe basare? Sulle
azioni compiute dai re
saggi dell'antichità.
Con quale mezzo si dovrebbe
effettuare la
verificabilità? Si dovrebbe
effettuare la
verificabilità [d'una dottrina]
prendendo
in esame le autentiche
[percezioni] visive
ed auditive dei cento cognomi
[ossia: della
gente comune]. A che cosa
dovrebbe essere
applicata una dottrina?
Dovrebbe essere applicata
alla sfera politica e giuridica,
per vedere
se va a vantaggio del regno
di Mezzo, della
dinastia e dei cento cognomi.
Questo è ciò
che intendo, dicendo che
"per una dottrina
esistono tre fondamenti".»
Su tali basi, Mozi opera un altro feroce
attacco all'irrazionalità dei comportamenti
e delle spese dei sovrani, prendendo a bersaglio
la musica, ovvero una delle attività esaltate
e canonizzate da Confucio. Mozi comincia
col porre una domanda: "Per quale motivo
si fa musica?" Il devoto confuciano
rispose: "Per amore della musica."
Questa non è una risposta per Mozi. «Se
ora ti chiedo: qual'è il motivo per cui si
costruiscono case? Tu mi rispondi: Per allontanare
il freddo in inverno e il caldo in estate;
si costruiscono case [anche] per separare
gli uomini dalle donne. Rispondendo così
mi hai detto qual è il motivo per cui si
costruiscono le case. Se io ora ti chiedo:
qual è il motivo per cui si fa musica? e
tu mi rispondi: si fa musica per amore della
musica, ciò equivale a dire [...] che le
case si costruiscono per amore delle case.»
(2)
Da ciò si deduce che Mozi ha in testa quasi
esclusivamente un principio di utilità e
necessità. Non prende nemmeno in considerazione
che si possano fare case più belle per amore
delle case più belle. L'autore finge un dialogo
ma, è un monologo, anzi un Mo-no- logo :-)
Ora, nessun dubbio che in momenti di ristrettezze
si debba tirare la cinghia e rinunciare al
superfluo, tanto più che il superfluo "viene
dal maligno" ma, ci sarebbe allora da
chiedersi se anche il culto dell'utile e
del necessario non comporti il rischio di
una malignità particolare, ancora più esiziale.
In fondo, nei Vangeli è anche detto che Gesù
si fece lavare e profumare i piedi da un'estetista
che ebbe pietà di lui, e delle sue penose
condizioni. Bisogna addolcire la vita, di
tanto in tanto. E a satanasso che lo tentava,
in condizioni di sfinimento e di fame, rispose
paradossalmente che "non di solo pane
vive l'uomo." Il furore "talebano"
di Mastro Mo è comprensibile alla luce di
una situazione storica penosa: lo sfarzo
in cui vivono i ricchi e i sovrani, la povertà
delle masse contadine, carestie e guerre.
Eserciti in perenne stato di mobilitazione
da mantenere in continua efficienza. A che
scopo si fa musica? Potremmo rispondere:
anche per tenere alto il morale della truppa
e della trippa. E forse per dimenticare le
sofferenze altrui, o per annegare la propria
impotenza di fronte alle sofferenze altrui.
Tutto ciò è troppo complicato per essere
"ridotto" all'utile e al necessario.
Ciò non toglie che da questo abisso di esasperata
riduzione all'osso, non possa non venire
una lezione.
Non voglio privare il lettore
del piacere
di soffrire, come ho sofferto
io, nel leggere
le pesanti argomentazioni
di Mastro Mo. Oppure
di condividerle! Chi l'ha
detto che io abbia
ragione e Mozi torto marcio?
«Le navi devono essere
usate sull'acqua
e le carrozze sulla terraferma,
in modo che
i signori riposino i piedi
e il popolo minuto
riposi le spalle e il dorso.
Perché il popolo
produce la ricchezza, e
pagando [le tasse]
si garantisce e non osa
lamentarsi? Perché
torna a sua vantaggio.
Stando così le cose,
se anche gli strumenti
musicali tornassero
a vantaggio del popolo,
neanche io oserei
vietarli. E, inoltre, se
gli strumenti musicali
fossero altrettanto utili
delle navi e delle
carrozze dei re saggi,
neanche io oserei
vietarli.
Il popolo nutre tre preoccupazioni:
che l'affamato
non possa essere saziato;
che chi ha freddo
non possa essere coperto
a dovere, e che
chi è stanco non ottenga
di riposarsi. Queste
tre cose sono le grandi
preoccupazioni del
popolo. Stando così le
cose, se si suona
una grande campana, se
si percuote un tamburo,
se si pizzicano le corde
del ch'in e dello
she, si soffia nello yü
e nello sheng,
in che modo, ci si può
procurare la ricchezza
provvedere al cibo e ai
vestiti del popolo?
Io penso che non ci sia
alcun modo di farlo,
con tali premesse. Lo scopo
si trova al di
là della musica.
Al giorno d'oggi i grandi stati attaccano
i piccoli e le grandi famiglie disturbano
le piccole. Il forte depreda il debole, la
moltitudine opprime la minoranza, l'intelligenza
inganna lo stupido e il nobile disprezza
il misero. Ladri e banditi insorgono contemporaneamente
a provocare scompigli, senza che li si possa
fermare. Stando così le cose, in che modo
suonando una grande campana, percuotendo
un tamburo, pizzicando le corde del ch'in
e dello she, o soffiando nello yü e
nello sheng sarebbe in grado di eliminare
la confusione del mondo ed attuare il buon
governo? Io penso che non ci sia assolutamente
alcun modo di farlo, con queste premesse.
Per questo il maestro Mo disse: "Imporre
pesanti tasse pesanti al popolo per suonare
la grande campana, il tambuto, il ch'in,
lo she, lo yö e lo sheng, non è d'alcun
aiuto [a quanti] cercano di ottenere l'utile
nel mondo e vogliono eliminare ciò che è
dannoso." Per questo mastro Mo diceva:
"Fare musica è un errore."»
Il presupposto di questa posizione non è
utilitaristico in senso meschinamente egoistico, mira all'utilità
ed al benessere generale. Concettualmente.
mastro Mo finisce col contrappore l'amore
universale indifferenziato che egli coltiva
in se stesso al senso di umanità (ren) insegnato da Confucio. Secondo Mo, Confucio
era stato troppo indulgente con le proprie
debolezze e le debolezze di una particolare
categoria di individui. «Praticare
la virtù dell'umanità (ren) verso gli uomini consiste nel dedicarsi
a promuovere l'interesse generale e a sopprimere
ciò che nuoce all'interesse generale. Ordunque,
nel mondo attuale, che cosa nuoce maggiormente
all'interesse generale?
E' il fatto che i grandi stati attaccano
i piccoli stati, che le grandi famiglie molestano
le piccole famiglie, che i forti spogliano
i deboli, che il gran numero opprime il piccolo
numero, che i furbi imbrogliano gli ingenui,
che i potenti trattano con arroganza gli
umili: ecco cosa nuoce all'interesse generale.
E ancora, che i principi siano senza benevolenza,
i sudditi senza lealtà, i padri senza bontà,
i figli senza pietà: ecco cosa nuoce ancora
all'interesse generale. E ancora, c'è il
disprezzo dell'uomo mostrato dagli uomini
del giorno d'oggi, che usano le armi ed il
veleno, l'acqua e il fuoco per recarsi danno
e massacrarsi a vicenda: ecco cosa ancora
nuoce all'interesse generale.
Ordunque, consideriamo
da quale principio
sembrano provenire tali
mali. Provengono
forse dall''amore degli
uomini, dalla sollecitudine
per l'interesse degli uomini?
Certamente
si dovrà rispondere di
no, e dire che certamente
provengono dall'odio degli
uomini, dalla
ricerca della spoliazione
degli uomini. Quale
nome daremo al fatto che
dappertutto nel
mondo si odiano gli uomini
e si cerca di
spogliarli? Quello dell'assimilazione,
o
quello della distinzione?
Di certo quello
della distinzione.»
(3)
Questo punto si può spiegare così: per assimilazione
(jiuan) Mo, molto probabilmente, intendeva quello
che si potrebbe definire un sentimento razionale, ovvero un senso di equità e giustizia trascendente
le distinzioni tra amici e nemici, belli
e brutti, ricchi e poveri, buoni e cattivi,
acculturati e ignoranti, eccetera. E considerava
le distinzioni operate da Confucio, tra le
quali spiccava quella del temperamento dell'uomo
superiore e dell'uomo infimo e di strette
vedute. Mozi, insomma, vide con lucidità
che una distinzione operata in base al senso
di umanità presente in ogni individuo di
"larghe vedute umanitarie" promosso
dalla meritocrazia confuciana, degenerava
facilmente nell'indulgenza, e perfino in
una sistematica dell'indulgenza. Ciò, comportava
"promuovere" il male, sia pure
indirettamente e involontariamente nel modo
denunciato da Mozi. La giusta traduzione
di "distinzione" (bie), allora, potrebbe essere quella presentata
da Leonardo Vittorio Arena nella sua versione
di questo passo: "discriminazione".
Il seguace di Confucio è portato a preferire
l'uomo di cultura e di valore al povero analfabeta
che sgobba.
«Stando così le cose - proseguiva Mozi
nella versione di Arena - poiché l'origine
delle maggiori calamità del mondo consiste
nella discriminazione tra gli uomini [come
dovremmo considerarla]? Dovremmo considerare
la discriminazione come qualcosa di profondamente
negativo. [...] Colui che considera qualcosa
come negativo deve avere qualcos'altro con
cui sostituirlo. [...] Per questo il Maestro
Mo disse: "L'universalità [ossia, la
non discriminazione] deve sostituire la discriminazione
[negli affetti]. In che modo si può sostituire
la discriminazione con l'universalità [degli
affetti]? Io dico che quando qualcuno considera
uno Stato straniero come considera il proprio
chi metterebbe [le forze] del proprio per
attaccarlo? Gli altri dovrebbero essere considerati
come noi consideriamo noi stessi.»
La conclusione di Mozi è che l'assimilazione è positiva. Uno spot
per l'attuale globalizzazione ante-litteram, non c'è dubbio.
Anne Cheng, in proposito, scrisse: «La
"sollecitudine per assimilazione",
che si riassume nella formula più volte ripetuta
"trattare gli altri come si tratta se
stessi", evidentemente non manca di
richiamare la mansuetudine (shu) confuciana, che consente di giudicare dei
sentimenti altrui facendo riferimento ai
propri. Ma, significativamente, Mozi sceglie
di marcare la propria differenza ricorrendo
ad un altro termine, jian (assimilare, equiparare gli altri a se stessi),
in opposizione a bie (attuare delle distinzioni). E precisamente
quest'aspetto di uniformazione, di livellamento
a costituire la prima demarcazione rispetto
al ren confuciano che è invece orientato a distinguere
i gradi di prossimità per cerchi concentrici
(io, la mia famiglia, il mio paese, l'universo).
»
Queste osservazioni sono indubbiamente utili
alla ricerca culturale come la si interpreta
ancora dalle nostre parti ma, non colgono,
anzi, fraitendono completamente il significato
di "cerchi concentrici". Confucio
non disse "tu devi". Disse: "solo
se metto ordine in me stesso, posso mettere
ordine nella mia famiglia (ed è già difficile,
avendo a che fare con una moglie e quattro
concubine!), nella mia città, nel mio stato
e persino nel mondo". Mozi osò passare
al "si deve", e in taluni passaggi
particolarmente pesanti, si potrebbe scoprire
un fastidioso "tu devi". Devo rinunciare
alla musica? Devo rinunciare al 25 aprile
ed al 1 maggio, a Pasqua e a Natale? Fosse
per me, festeggerei anche la presa della
Bastiglia ed il giorno in cui il gesuita
Matteo Ricci mise piede in Cina!
Comunque sia, come vedremo, anche sul "tu
devi" non si possono fare considerazioni
solo negative. Il discorso su Mozi non ha
ancora toccato la parte più interessante.
(continua)
1) Da Antologia della filosofia cinese - a cura di Leonardo Vittorio Arena - Mondadori
1991
2) è da cogliere che le parole "musica"
(yue) e "piacere" (le) si rendono per iscritto con un medesimo
ideogramma. Ciò che dà
loro preciso signficato
è il contesto della frase.
3) Da Anne Cheng - Storia del pensiero cinese - volume I Dalle origini allo «studio del mistero» - Einaudi 2000
gm - febbraio 2012 |
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