Profilo di Claude Lévi-Strauss 1
(Bruxelles, 28 novembre 1908 – Parigi, 30
ottobre 2009)
di Carmine Laganà
Premetto che questa prima parte del Profilo di Lévi-Strauss non è propriamente un saggio originale,
ma solo un sostanzioso riassunto della fondamentale
monografia di Francesco Remotti, Lévi-Strauss. Struttura e storia (1), integrato dalla mia lettura di alcune opere,
specie quelle successive al lavoro di Remotti,
e da qualche riflessione di natura rispetto
ad altre correnti del pensiero antropologico.
Il primo contatto di Claude
Lévi-Straus con
l'etnografia fu casuale.
Si verificò con
la lettura di Primitive Society di Robert Lowie (2) tra il 1933 e il 1934,
evento che provocò nel giovane studioso inquietudine,
smania di evasione e desiderio di viaggiare,
motivati anche dalla stanchezza e dal senso
di frustrazione derivanti dallo studio della
filosofia accademica.
Intravvide nell'etnografia un'«ancora
di salvezza», oltre
che una via d'uscita
dal falso dilemma di scegliere
tra due atteggiamenti
contrapposti presenti nelle
sue amicizie
e frequentazioni: quello
degli studenti di diritto e medicina, orientati
verso l'estrema destra,
i quali pensavano
solo ad integrarsi nel sistema
sociale, e
quello degli
studenti di lettere e scienze, generalmente
di sinistra, che opponevano
all'integrazione
ed alla subalternita ideologica
«una
specie di rifiuto»
L'etnologia sembrava a Lévi-Strauss «la
forma più estrema che si potesse concepire»
dell'atteggiamento degli studenti di sinistra,
dato che le stesse condizioni in cui si esercitava
tale attività costringevano ad un «disancoramento
cronico» dal proprio gruppo sociale.
Più intensi rapporti con intellettuali come Nizan, Sartre,
Merleau-Ponty, critici
nei confronti dell'accademia
filosofica da un lato e
la diversa attenzione
alla nuova
generazione di antropologi come Griaule,
Bastide, Leiris, Leenhardt
dall'altro, aiutarono
e stimolarono Lévi-Strauss
a confrontarsi
con
personalità come Gide, Malraux, Valéry, le
quali, a loro volta, esprimevano in modalità
per altro peculiari la stessa esigenza di
evasione dalla civiltà europea. Fu soprattutto
nell'incontro con Paul Nizan che il rifuto per la filosofia accademica e l'evasione
dalla civiltà presero corpo nel modo più
consistente.
Eppure, tra i due correvano più differenze
che vere e proprie analogie.
Infatti in Lévi-Strauss si salvò un elemento
teorico.
Se anche la filosofia «inaridiva lo
spirito». la sua
colpa non stava nell'allontanarsi
dalla realtà, ma dalla
scienza.
In questa considerazione, si avvicinava alla
nozione di impegno enunciata da Bachelard,
il quale aveva scorto nel razionalismo applicato
una forma autentica di engagement, e dall'altra parte nei
dégagements le condizioni preliminari di ogni impegno.
Tuttavia, mentre Nizan si ribellava alla
società, Lévi Strauss se ne allontanava,
mediante il ricorso a tre discipline: geologia,
psicoanalisi e marxismo. Da esse Lévi- Strauss
ricavò quanto riteneva sufficiente a delineare
il modello epistemologico adatto ad una nuova
etnologia. In particolare, attraverso il
rifiuto di un approccio esclusivamente storico-empirico (e quindi consapevole dell'esigenza di superare
il "vissuto" e il "concreto"),
l'opporre la "realtà vera" all'apparenza
sensibile, la convinzione di poter risalire
e quindi determinare verità e leggi «fuori del tempo».
La lunga permanenza in Brasile, al seguito
di una commissione incaricata di seguire
l'organizzazione dell'università di San Paulo,
consentì a Lévi-Strauss di effettuare, tra il 1935 e il '39, due spedizioni nel Mato Grosso e nell'Amazzonia
meridionale, le quali lo portarono alla conoscenza
delle etnie Caduvei, Nambikwara, Tupi Kawahib. Dieci anni dopo uscì l'unico libro interamente
etnografico: La vie familiale et sociale des Indiens Nambikwara. Georges Gurvitch notò che, in questo caso,
Lévi-Strauss non aveva applicato gli strumenti della
metodologia strutturalista. In realtà, essa comparve solo nello studio
dei sistemi di parentela e delle regole matrimoniali
adottate da due gruppi di parentele orientati
a perseguire la fusione consanguinea. Al
più elementare livello dello studio etnografico,
ovvero quanto più si scende nel "concreto",
come sottolineato da Lévi-Strauss, tanto
più numerosi sono gli ostacoli al ricorso di modelli strutturali. La ricerca
etnografica, pertanto,
non può costituire
il campo d'applicazione
di modelli strutturali.
Per questo, Lévi-Strauss
ha sempre tenuta
disitnta l'indagine etnografica
da quella
etnologica vera e propria.
L'etnografia consiste nell'osservazione e nella
descrizione di gruppi umani considerati nella
loro individualità, si realizza nel lavoro
su campo, il quale
ha un specifico valore euristico, un valore
di scoperta. L'analisi strutturale non è
quindi esclusa del tutto, ma essa, grosso
modo, si limita a riprodurre il ruolo che
Marcel Mauss aveva attribuito alla teoria
del lavoro sul campo. Lévi-Strauss rimase quindi profondamente
convinto dell'esigenza insopprimibile di
uno studio del "concreto", prestando
attenzione ai dettagli più futili. Accanto
a Mauss si collocò quindi, inevitabilmente,
la figura di Bronislav Malinowski, rispetto
al quale, Lévi-Strauss non lesinò un atteggiamento
critico, in special modo nei confronti del
rifiuto di ogni indagine storica. Proprio
studiando i Nambikwara, Lévi-Strauss negò
la possibilità di trattare esaurientemente
le culture come se fossero un sistema chiuso.
Si propose di indagare quali fossero gli
elementi che connettevano la loro cultura
e il loro sistema di credenze ad altre culture:
l'indagine monografica terminè infatti con
l'enunciazione del problema del posto che
occorre assegnare alla cultura Nambikwara
nel contesto delle culture sudamericane.
Per questa ragione si rese necessario rifiutare
l'atteggiamento del funzionalista malinowskiano che si chiude in un «dialogo
fuori del tempo con la piccola tribù».
Lévi -Strauss ha sempre attribuito alla problematica dell'etnografia
un carattere prevalentemente storico, sostenendo
che la ricerca etnografica risponde a esigenze
che sono identiche a quelle della storia.
La "sua" prospettiva antropologica
è quindi molto più vasta, e la ricerca etnografica
è solo un punto di partenza.
«In fondo - diceva a Paolo Caruso in
un intervista (3) - quel che ho fatto come
lavoro "sul terreno" ha scarsa
importanza. Il "terreno" ha soprattutto
rappresentato per me quel che una psicoanalisi
didattica può rappresentare per uno psicoanalista:
l'obbligo di "mettere le mani in pasta",
di vivere l'esperienza da soli, in modo da
poter utilizzare legittimamente le ricerche
sul "terreno" svolte da altri.»
Resta l'esperienza vissuta, ovvero momento cruciale dell'educazione dell'antropologo. E' proprio in virtù del
lavoro sul terreno che
gli antropologi «acquisteranno
di colpo un senso che anteriormente
mancava
loro». Come iniziazione preliminare, la ricerca sul campo è necessaria e indispensabile,
ma l'etnografia va superata con il passaggio
all'analisi strutturale propria dell'etnologia. Tuttavia, è l'etnografia che fornisce materiali
all'etnologia. Per lo studioso di antropologia,
si rende necessario un passaggio dallo storico
e dall'empirico della ricerca su campo alla
dimensione teorica e scientifica. Tale transizione
richiede una rinuncia, ovvero l'abbandono
di tre caratteri fondamentali dell'etnografia:
1) la regola del concreto; 2) l'interesse storico;
3) la dimensione dell'esperienza vissuta.
Il passaggio dalla sfera etnografica alla
teoria antropologica strutturale, fu accompagnato
dal trasferimento a New York, dove Lévi-Strauss
ebbe modo di conoscere la New School for Social Research e la Fondazione Rockfeller. In questi due
istituti lavoravano i luminari dell'antropologia
americana: Robert Lowie, Alfred Kroeber, Ralph Linton
e il linguista russo Roman Jakobson, il quale
stava diffondendo le concezioni strutturalistiche
della scuola di Praga. Il "passaggio"
dalla dimensione empirica a quella della
teoria avviene mediante: 1) un procedimento di astrazione;
2) cercando l'indipendenza dai condizionamenti
storici e dalla refrattarietà ad ogni tentazione
di valutazioni soggettive;
3) dal rifiuto della soggettività come metodo
di indagine.
Lévi-Strauss sembrò consapevole
della eterogeneità dei due livelli. In un nota pubblicata su
""Diogéne" n 2 del 1953, scrisse:
«Le costanti non possono essere raggiunte
al livello dell'osservazione concreta». In tale prospettiva, Lévi-Strauss
aveva però già cominciato a lavorare. Nella
sua prima opera fondamentale, Les structure élémentaires de la parenté, pubblicata nel 1949, era già presente un approccio strutturale , con tutte le
sue caratteristiche, i suoi presupposti e
le sue implicazioni. Al centro della riflessione
non erano più gli individui, le famiglie
e le tribù considerati nelle loro concrete
relazioni sociali, ma i modelli strutturali
e i gruppi di traformazione. Ed è qui che
emerge l'aspetto probabilmente più sconcertante
dell'approccio strutturalista: la teoria
non è al servizio dello studio del concreto;
al contrario, lo studio del concreto è in
funzione dell'elaborazione teorica. In quest'opera
divenne chiaro che l'analisi strutturale
è un'alternativa, forse l'unica, alla filosofia
accademica per la sua evidente mancanza di
rigore scientifico. Idealismo e spiritualismo
dominanti in Francia in quel periodo erano
il suo bersaglio polemico. Era ormai sua
convinzione che la filosofia stessa dovesse
riagganciarsi alla scienza, sfuggendo alla
tentazione di godere di una vera e propria
autonomia. L'affermazione più clamorosa venne
rilasciata in Tristi Tropici, dove comparve la definizione di «ancilla scientiarum, serva ed ausiliaria dell'esplorazione scientifica.» Ovviamente, si darà sempre un pensiero filosofico
- d'altra parte tutta l'opera di Lévi-Strauss
è filosofica - ma il suo dominio sarà sempre
più circoscritto a quei problemi che la scienza
non è riuscita a risolvere.
Sicché, il legame tra filosofia e scienza
sembra consistere in un ininterrotto lascito
di problemi: il filosofo è delegato a scoprirli,
lo scienziato a risolverli;
occorre pertanto che la problematica filosofica
abbia un carattere prescientifico, ma non
ascientifico, cioè che sia suscettibile di
essere trattata prima o poi in termini scientifici.
Da queste osservazioni risulta pure che un
ineliminabile orizzonte filosofico si dispiega
sempre tutt'intorno alla scienza e che i
margini estremi di quest'ultima coincidono
con quelli della filosofia, pur essendo gli
uni e gli altri in continuo movimento. Ciò
significa che le avanguardie scientifiche
sono sempre a stretto contatto con la filosofia,
nel cui territorio si spingono costantemente
per impadronirsi di sempre nuovi problemi.
Filosofo o scienziato, allora? Entrambe le
parti non furono certamente estranee a Lévi-Strauss.
Quando in Triste Tropiques si chiese se la sua vocazione etnologica
non fosse dovuta ad una specie di affinità
fra la struttura mentale della civiltà studiata
dall'etnologo e quella del suo pensiero,
affermò di possedere un'intelligenza di tipo
neolitico, in quanto «come i fuochi
della boscaglia indigena, essa brucia distese
a volte inesplorate.» Sia questa dichiarazione
personale sia le precedenti considerazioni
sui rapporti tra scienza e filosofia possono
rendere conto del carattere ambiguo di molte opere di Lévi-Strauss: volevano
essere scientifiche pur conservando caratteristiche
tipicamente filosofiche. D'altra parte lo stesso Lévi-Strauss riconobbe
un forte senso filosofico all'attività etnologica.
Essa assumeva infatti ai suoi occhi un aspetto
privilegiato sia perché avendo per oggetto
l'uomo totale, sia in quanto disponendo di
metodi e strumenti (forniti soprattutto dall'analisi
strutturale) che le consentono di «cogliere
l'essenziale»: l'etnologia contemporanea
- secondo quanto ritenuto dallo studioso
- possedeva ormai «les maîtresseses clefs du mystère humain». In realtà, a suo modo di vedere,
la situazione era tale che l'etnologia poteva
impadronirsi di problemi tradizionali della
filosofia, problemi spesso presentati come «uomo
totale» o «mistero umano»
nel linguaggio solenne dei filosofi. Ciò era dovuto al potenziamento dei metodi
rigorosamente scientifici
, o meglio: 'scientifici'
in quanto al metodo e 'filosofici'
in rapporto
all'oggetto di studio.
Con questo avremmo
che i due significati fondamentali del termine
«antropologia», quello scientifico
della tradizione anglosassone e quello filosofico
della tradizione tedesca potrebbero convergere
proprio nel pensiero di Lévi-Strauss.
Infatti, situando il proprio punto di partenza
su una solida base scientifica, costitutiva
dell'insieme delle osservazioni etnografiche
e delle generalizzazioni etnologiche, Lévi-Strauss
cercò di stabilire «un certo numero
di proposizioni che [fosse] sia applicabile
in forma generale e a un certo livello propriamente
filosofico dell'interpretazione del fenomemo
umano in quanto tale». Nutrendo questa
ambizione filosofica, Lévi-Strauss distinse
la propria antropologia dal lavoro meramente
descrittivo, analitico e classificatorio
del mondo anglosassone, rimanendo così fedele
alla scuola antropologica francese. Senza
dimenticare, per altro, che alcuni 'inconvenienti'
della scuola francese erano derivati dalla
sociologia transalpina, colpevole di aver
fatto ricorso all'uso di nozioni e pregiudizi filosofici
con eccessiva leggerezza.
Rientra così in gioco la 'ricerca sul terreno'
come indispensabile punto di partenza. Essa,
infatti, è matrice del dubbio, ovvero dell'atteggiamento
filosofico fondamenrale. Il dubbio antropologico mette in discussione l'assolutezza dei valori
della propria cultura.
Quindi concorre a
liberarsi dell'etnocentrismo,
che Lévi-Strauss
considera l'ostacolo maggiore
che incontra
l'antropologo sulla sua
strada. Proprio l'assenza del dubbio antropologico condiziona
negativamente la sociologia
nelle ricerche
empiriche sulla propria
società e la società
umana nella sua totalità.
Questa critica si può estendere alla stessa
filosofia: se è vero che il dubbio è filosofico, è anche
vero che il dubbio antropologico non può
essere generato da una mera riflessione filosofica.
All'antropologia filosofica è mancata una
solida base scientifica, ma si è anche privata
del dubbio antropologico. In realtà,
il disancoramento dai valori occidentali
è la condizione essenziale per l'impiego
antropologicamente corretto degli strumenti
scientifici. Si potrebbe dire che i due elementi sono strettamente
connessi e concorrono ad
un unico scopo:
accedere ad un punto di
vista assoluto. Infatti,
Lévi Strauss scriveva:
«Pur ritenendosi umano l'etnologo cerca
di conoscere e giudicare
l'uomo da un punto
di vista sufficientemente
elevato e distaccato
per astrarlo dalle contingenze
particolari
a una data società o una
data civiltà.»
Giungendo ad affermare:
«Sono un teologo in quanto ritengo
che l'importante non sia il punto di vista
dell'uomo ma quello di Dio, ovvero cerco
di capire gli uomini e il mondo come se fossi
completamente fuori gioco, come se fossi
un osservatore d'un altro pianeta ed avessi
una prospettiva assolutamente oggettiva e
completa.» Si può capire, a questo punto, che tale
ambizione a raggiungere il punto di vista
assoluto risponda prevalentemente all'esigenza
di uscire dalle pastoie del relativismo culturale.
Ma, come notava Remotti, il tentativo entrava
in chiaro contrasto con le con le reali ed
effettive prassi scientifiche e con le teorizzazioni
metodologiche. Lévi Strauss, così, manifestò
una mentalità filosofica estranea ai più
importanti dibattiti teorici del '900. Non
solo pretese di conseguire con i mezzi dell'antropologia
'scientifica' i risultati che si proponeva
l'antropologia filosofica, ma pensò, per
l'appunto, di dover assumere il punto di
vista di un'antropologia 'teologica'. Credo
si possa vedere in questa posizione una relativa
influenza del "vecchio" positivismo
francese, in particolare di Comte.
Tuttavia, dovrebbe esser chiaro che alle
stesse conclusioni si può giungere considerando
il modo peculiare di Lévi-Strauss di considerare
il rapporto tra pensiero e realtà. Una teoria
che si rispetti deve trovare un fondamento
e giustica la legittimità del punto di vista
assoluto. Scriveva in proposito: «le
leggi del pensiero [...] sono quelle stesse
che si esprimono nella realtà fisica e nella
realtà sociale»; la conoscenza «non
consiste in una rinuncia o in un baratto,
ma in una selezione degli aspetti "veri",
di quelli cioè, che coincidono con le particolarità
del mio pensiero.» Rifiutando la concezione neokantiana,
la quale, partendo dall'eterogeneità tra
pensiero e realtà, intende la conoscenza
come "inevitabile pressione" del
pensiero stesso sulla realtà, Lèvi-Strauss
sembrò così finire in una specie di paradosso
spazio-temporale, un ritorno all'ingenuo
oggettivismo degli antichi ed una concezione
della filosofia che presupponeva Hegel e
le ultime pagine della Fenomenologia dello Spirito. D'altro canto, Sergio Moravia si chiese
se fosse lecito riportare
Lévi-Strauss a
Spinoza. (4)
Eppure, sosteneva Lèvi-Strauss, se c'è identità
tra pensiero e realtà, non è dovuta al fatto
che le cose siano una forma di pensiero,
ma il pensiero stesso «una cosa tra
le cose»; lo stesso esercizio del pensiero,
depurato dalle deformazioni della soggettività,
è rivelatore della realtà
e il criterio della verità è fornito dal
pensiero stesso.
Dunque basta scegliere quelle determinazioni
del reale che si uniformino alle leggi del
pensiero, e tali determinazioni si possono
ritenere vere. Giustamente, ci si è chiesti
quali possano essere i rischi di mistificazione
che una tale gnoseologia comporta? A me è sempre sembrato più conveniente una
moderata prudenza. Rimane che l'antropologo «teologo», sottraendosi
così alla contingenza, si libera dagli schemi
mentali relativi di particolari società e
potrebbe realizzarsi nell'assoluta oggettività
dei modelli.
Lévi-Strauss non esitò a dire che l'antropologo
capace di astrarsi è l'astronomo delle scienze sociali.
Il cuore del problema, se così si può dire,
andrebbe cercato a monte del suo sorgere.
Già in un dei suoi primi scritti, L'analisi strutturale in linguistica e in
antropologia (5), Lévi-Strauss, ispirandosi alla lezione
di de Sausurre, e soprattutto al metodo fonologico
di N. Troubetzkoj e R. Jakobson, formulava
così la sostanza dell'approccio strutturale:
studiare non più i fenomeni coscienti ma
la loro infrastruttura incosciente. Attribuire
agli elementi di un sistema non un senso
di entità indipendenti , ma un valore di
posizione nel contesto strutturato. Come
a dire che nessuno è indipendente dalla sua
cultura e dalla sua tradizione, e che tutti
sono 'funzioni e funzionali alla struttura
tramandata'. Ciò che decide sono dunque le
relazioni nelle quali ogni entità umana è
costretta e dalle quali trae vantaggi e svantaggi.
Queste relazioni individuate dall'etnografo
hanno un senso solo all'interno del sistema.
Ovviamente possono essere individuate e comprese
dall'esterno, ma a condizione che l'osservatore
abbia lo sguardo del teologo e non quello
dell'ultimo arrivato. Una sfida considerevole
che può lasciare perplessi.
Note:
1) Francesco Remotti -
Lévi-Strauss. Struttura e storia - Einaudi, Torino, 1971 (In appendice una
esauriente bibliografia su Lévy-Strauss fino
al 1970).
2) Robert Lowie fu un'importante figura dell'antropologia
nordamericana. Si autodefinì un "eclettico",
critico del "funzionalismo" di
A. R. Radcliffe-Brown ed anche dello storicismo
di A. L. Kroeber, accettò l'idea di evoluzione,
ma rifiutò quella di un finalismo evoluzionista.
3) intervista a Claude
Lévi-Strauss a cura
di Paolo Caruso in "Aut
Aut" n
77 1963
4) Sergio Moravia - La ragione nascosta. Scienza e filosofia
in C. Lévi-Strauss - Sansoni - Firenze, 1969
5) saggio citato da J. Pouillon alla voce
"Lévi-Strauss" nel Dizionario di Antropologia e Etnologia - Einaudi -Torino 2000 e 2009
CL 10 settembre 2012
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