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La critica della ragion pura (in versione "light") - 3

La logica trascendentale
di Daniele Lo Giudice

«La nostra conoscenza - scrive Kant - trae origine da due sorgenti fondamentali dell'animo, di cui la prima consiste nel ricevere le rappresentazioni (la ricettività delle impressioni), e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto per mezzo di queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Attraverso la prima, un oggetto ci è dato, attraverso la seconda esso viene pensato in rapporto a quella rappresentazione (come semplice determinazione dell'animo). Intuizione e concetti costituiscono pertanto gli elementi di ogni nostra conoscenza; non ci può dunque essere data la conoscenza né dai concetti senza un'intuizione che corrisponda ad essi in qualche modo, né dall'intuizione senza concetti. Entrambi gli elementi sono puri o empirici.
Sono empirici quando è contenuta in essi una sensazione (che presuppone l'esistenza reale dell'oggetto); sono puri, invece, quando alla rappresentazione non si mescola alcuna sensazione.» (1)
Con ciò siamo subito al cuore del problema, ovvero alla "logica trascendentale", la quale non è più la logica generale di Aristotele, degli scolastici e dei metafisici posteriori, ma qualcosa di diverso.
Infatti, nelle intenzioni di Kant, essa non si limita allo studio degli elementi della conoscenza considerati in se stessi, ma gnoseologicamente fondati su un rispecchiamento realistico, ovvero ciò che è in realtà io ricevo nel mio intelletto, ma studia le forme della conoscenza degli oggetti, determinando insieme la validità della conoscenza a priori. In termini più attuali, potremmo dire che Kant assegna grandissima importanza alla nostra pre-disposizione.
In Kant, inoltre, il rispecchiamento è limitato al fenomeno, a ciò che "appare".

Kant divide la logica trascendentale in analitica trascendentale e dialettica trascendentale. Sostanzialmente, ritiene che la prima sia legittimata, dunque valida, frutto di un atteggiamento scientifico, mentre ritiene che la seconda pretenda troppo, coltivi cioè l'illusione di poter parlare di oggetti che vanno al di là dell'esperienza.
Con ciò, indubbiamente, egli avanza un'accusa precisa a tutta la filosofia antica, da Socrate ad Aristotele, passando per Platone. Di fatto, era questo il luogo di nascita della metafisica e della pretesa dialettica di parlare di quel che non si vede. Ma nel suo mirino stava in primo luogo la metafisica moderna, in particolare, quindi, quella di Wolff.

L'analitica trascendentale
Ristretto così il campo della conoscibilità alle cose esterne che si vedono e si toccano, Kant estende però in modo davvero innovativo il campo delle facoltà interne al soggetto che pensa.
Nell'analitica dei concetti egli parla innanzitutto di quei concetti puri ed a priori che non sono ricavati, come nella scolastica, da un'astrazione delle esperienze, ma precedono l'esperienza stessa.
Sono questi concetti a priori che consentono all'intelletto di formulare giudizi collegando le varie rappresentazioni.
Non solo gli aspetti semplicemente quantitativi, come nella matematica, ma anche entrando in un ordine più complesso, che è quello indagato dalla fisica.
Ciò che consente e "legittima" tale tipo di giudizi fondati sulla connessione sono i concetti puri dell'intelletto.
"Si noti - scrive Enrico Berti - che, unificando tra loro le rappresentazioni per mezzo dei concetti, l'intelletto 'riferisce' tali rappresentazioni ai loro oggetti, cioè alle cose di cui esse sono rappresentazioni, ed in tal modo 'pensa' tali oggetti, che in sé stessi rimangono sconosciuti. L'intelletto, insomma, si comporta come un soggetto che riceva dei messaggi, per esempio delle lettere (le rappresentazioni empiriche) da un corrispondente a lui sconosciuto (la cosa in sé) collegando tra loro tutti i messaggi: in questo senso l'unificare i messaggi, cioè le rappresentazioni, è l'unico modo per riuscire a pensare, cioè a identificare, il loro autore." (2)

Kant, una volta chiarito che i concetti puri sono in funzione dei giudizi, precisa quanti tipi di giudizio possono essere individuati, e muove una critica alle categorie dell'analitica aristotelica, asserendo che esse erano state dedotte in modo "rapsodico", cioè disordinato e non necessario.
Kant, insomma, propone nuove categorie funzionali al suo modo di pensare trascendentale.
Le divide in quattro grandi gruppi: quantità, qualità, relazione e modalità.
La categorie della quantità sono: unità, pluralità, totalità.
Quelle della qualità sono: realtà, negazione, limitazione.
Quelle della relazione sono: sostanza-accidente, causa-effetto, azione reciproca.
Quelle della modalità sono: possibilità, esistenza, necessità.

"Si noti - precisa Berti - che tra le categorie della relazione Kant indica il concetto di sostanza e il concetto di causa, cioè i due concetti che più erano stati contestati nella storia della filosofia moderna, specialmente empiristica, e che tuttavia stanno alla base della scienza della natura, cioè della fisica. Facendone concetti a priori, Kant nega, con Hume, che essi possano essere desunti dall'esperienza, ma non per questo li priva di qualsiasi valore, anzi attribuisce loro precisamente il valore di condizioni universali e necessarie della stessa esperienza. Pertanto, le leggi fisiche, basate sulla relazione di causa ed effetto, lungi dall'essere soltanto l'espressione di un'abitudine psicologica, come sosteneva Hume, hanno un valore universale e necessario, cioè sono autentiche leggi scientifiche, e quindi le categorie sono ciò che rende possibile la fisica come scienza." (2)
Vediamo come lo stesso Kant delucidava la questione: «La deduzione trascendentale di tutti i concetti a priori ha pertanto un principio che deve fare da guida a tutta la ricerca, cioè il seguente: essi debbono esser riconosciuti come condizioni a priori della possibilità dell'esperienza (sia dell'intuizione che si trova in essa, sia del pensiero). I concetti, che apportano il fondamento oggettivo della possibilità dell'esperienza, sono, proprio in quanto tali, necessari. Ma lo svolgimento dell'esperienza, entro cui essi si incontrano, non costituisce la loro deduzione (bensì la loro illustrazione), poiché, in caso contrario, risulterebbero contingenti. Senza questo rapporto originario con l'esperienza possibile, entro cui si incontrano tutti gli oggetti della conoscenza, la connessione di tali concetti con un qualsiasi oggetto non potrebbe in alcun modo essere compresa.» (1)

Chiarito questo punto, Kant osserva che Locke faceva derivare tali concetti puri dall'esperienza, "e tuttavia procedette in modo tanto inconseguente da avventurarsi in tentativi di conoscenze che vanno di gran lunga al di là dei confini dell'esperienza". Al contrario, Hume riconobbe che" per fare qualcosa di simile, è indispensabile che questi concetti abbiano un'origine a priori. Ma non riuscendo per nulla a capacitarsi come sia possibile che l'intelletto pensi concetti che, senza essere connessi per sé nell'intelletto, lo siano tuttavia necessariamente nell'oggetto, e non avendo sospettato che proprio l'intelletto, per mezzo di questi concetti, è l'autore dell'esperienza nella quale si riscontrano i suoi oggetti, si vide nella necessità di farli derivare dall'esperienza (cioè da una necessità soggettiva, traente la sua origine dalla frequente associazione dell'esperienza e scambiata alla fine per oggettiva; ossia dall'abitudine)..."
Così, concludendo il ragionamento, Kant notava: Locke "aprì le porte alla fantasticheria, perché la ragione, quando abbia il diritto dalla sua, non si lascia più trattenere con generiche esortazioni alla moderatezza..." - Hume, dal canto suo, "si arrese completamente allo scetticismo, perché reputò di aver scoperto una volta per sempre come non sia che un'illusione generale della nostra facoltà conoscitiva quella che fino ad allora era stata considerata la ragione."

Giunti a questo punto, Enrico Berti si chiede: « che cosa garantisce il "riferimento" delle categorie all'oggetto che sta oltre l'esperienza, ovvero su cosa si fonda la validità dell'unità che le categorie, attraverso il giudizio, attribuiscono alle rappresentazioni di tale oggetto?
Rispondere a queste domande significa, dice Kant, operare la Deduzione Trascendentale delle categorie, cioè giustificarle nella loro funzione di concetti capaci di riferirsi ad un oggetto che essi non ricavano dall'esperienza.»

Kant afferma che il fondamento, da intendendersi come garanzia di validità, è l'unità del soggetto pensante.
Come già in Cartesio, l"io penso" è il punto di partenza. Ma laddove quello coglieva in primo luogo l'aspetto esistenziale, l'ergo sum, in grado di vincere i dubbi originati da tutti i possibili inganni dei sensi, Kant, che definisce l'"io penso" come "appercezione trascendentale", sottolinea in particolare che esso è la consapevolezza che noi abbiamo di noi stessi come soggetti razionali. Tale distinta percezione non deriva dall'esperienza, perché è la condizione di tutte le nostre esperienze.
«In tal modo - scrive Berti - Kant, ritenendo che l'intelletto non possa attingere direttamente all'oggetto delle varie rappresentazioni, e quindi non possa cogliere direttamente in questo l'unità che di diritto esso possiede, attribuisce al soggetto conoscente il diritto di conferire alle varie rappresentazioni l'unità che esse debbono avere per poter essere legittimamente ritenute rappresentazioni dell'oggetto. » (2)
Vi sarebbe però da chiedersi se questa unità realizzata nel soggetto pensante sia da considerarsi ugualmente in grado di arrivare all'"oggettività", se non vi sia un grave "vizio" di unilateralità che soggiace a tutta l'impostazione kantiana.
«Naturalmente - risponde Berti - l'unità in tal modo fondata ha tutto il diritto di essere considerata "oggettiva" perché è l'unica unità possibile: ma oggettiva non nel senso di appartenere all'oggetto, bensì nel senso di valida universalmente e necessariamente. E' il risultato dell'unificazione in tal modo stabilita, cioè l'oggetto dell'esperienza, ha tutto il diritto di essere considerato l'oggetto tout court dell'intelletto, perché è l'unico oggetto conoscibile. » (2)

Un ulteriore problema, nel quadro della deduzione trascendentale, dato dalla eterogeneità esistente tra i ooncetti puri dell'intelletto e le rappresentazioni empiriche.
Occorre quindi un momento (forse meglio dire, un metodo) di mediazione critica che Kant chiama lo schematismo dei concetti puri, o più brevemente, lo "schema trascendentale".
I passi della Critica che riguardano questo punto sono tra i più difficili, o almeno, io li ho trovati tali, anche perché il problema, una volta posto, non può essere semplificato.
Kant, ad esempio, fa ricorso all'immaginazione, facoltà intermedia tra sensibilità ed intelletto, per spiegare il carattere produttivo del pensiero. Ma, poi, avverte che lo "schema va distinto dall'immagine".
«Così, se dispongo di seguito cinque punti: ....., ho un'immagine del numero cinque. Se invece penso soltanto un numero in generale, non importa se cinque o cento, questo pensiero è più la rappresentazione di un metodo per rappresentare in un'immagine una molteplicità (mille, ad esempio) in base ad un certo concetto, che questa immagine stessa, la quale, nel caso citato, sarebbe difficilmente rappresentabile integralmente e raffrontabile col concetto.
Ordunque, io chiamo schema di un concetto la rappresentazione del procedimento generale mediante cui l'immaginazione appronta al concetto stesso la sua immagine.» (1)

Ma che l'immagine, come prodotto dell'immaginazione, non possa mai essere adeguata al concetto, appare evidente se pensiamo ad un triangolo in generale.
«L'immagine non potrebbe in nessun caso accedere all'universalità per cui il concetto vale per ogni triangolo, sia esso rettangolo o di altro genere... [...] ... Lo schema del triangolo non può mai esistere in alcun luogo che non sia il pensiero e si risolve in una regola della sintesi dell'immaginazione rispetto a figure pure dello spazio. Meno ancora si può affermare che un oggetto dell'esperienza o la relativa immagine adeguino il concetto empirico; tale concetto si riferisce sempre allo schema dell'immaginazione in modo immediato, assumendolo come regola della determinazione della nostra intuizione, in conformità ad un determinato concetto universale.
Il concetto di cane indica una regola in base alla quale la mia immaginazione è posta in grado di delineare in generale la figura di un quadrupede, senza tuttavia chiudersi entro una particolare raffigurazione offertami dall'esperienza in qualsiasi immagine io possa raffigurarmi in concreto.» (1)

Nel prossimo file cercheremo di terminare l'esame dell'Analitica trascendentale, vedendo se per Kant esistano o meno principi supremi dell'intelletto, ovvero giudizi a priori su cui fondare tutti gli altri giudizi formulati per mezzo dei concetti puri.

Note:
(1) Immanuel Kant - Critica della ragion pura -
(2) Enrico Berti - Storia della filosofia /vol. II Dal Quattrocento al Settecento - Editori Laterza