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La filosofia dopo aver fatto yoga. Come si presenta la questione "Parmenide" dodici anni dopo
di Guido Marenco


Il 3 agosto del 2000 pubblicai un testo che si intitolava "Parmenide". Non ho idea di quante persone l'abbiano letto. Ricordo che destò perplessità e reazioni indignate da parte di alcuni collaboratori di "Moses" e si sviluppò una discussione. Sia il testo originale che il dibattito sono tuttora disponibili su questo sito. Negli ultimi mesi ho avuto la tentazione di correggere il file. Mi imbarazzava perché conteneva l'espressione "portaborse del potere" brandita come una clava nei confronti del filosofo di Elea. Un giudizio evidentemente "esagerato". Sono, tuttavia, giunto alla conclusione che sarebbe stato ancora più imbarazzante tentare di cancellare il passato. "Una volta dette, le parole non possono essere ritirate" - disse il saggio cinese, consigliando di avere grande cautela sia nel parlare che, soprattutto nello scrivere. Detto questo, che senso ha tornare sull'argomento dopo tutto questo tempo? Certamente, non solo per porgere le mie sentite e formali scuse al venerabile maestro. Col quale continuo a dissentire radicalmente. Giustifica questo scritto un radicale cambiamento di vista sul problema dell'essere immutabile.

Dodici anni non sono noccioline, non passano invano nella vita di un individuo. Tutto è cambiato attorno a me, nella società, nelle amicizie, nelle mie letture e nelle mie attività. Il 2012 è un altro mondo rispetto a quello del 2000. La percezione dei cambiamenti è accessibile a chiunque. Il giudizio su di essi può variare all'infinito da un individuo all'altro. Dipende, in fondo, dalla perimetrazione che svolgiamo come un filo attorno ad ogni singolo oggetto del discorso e della valutazione. Comunque sia, il divenire non si può negare senza esercitare una sensibile pressione psicologica su chi si ostina a distinguere la sera dal mattino e la primavera dall'autunno, la malattia dalla salute, la fame dalla sazietà e la solitudine dalla compagnia. Sicché, anche in presenza di un dubbio radicale ma, del tutto teorico, come quello avanzato da Descartes, non si dovrebbe parlare di illusione, o di inganno dei sensi, con disinvoltura. Illusione ed inganno sono parole con un "peso specifico" forte. E' lecito parlar d'inganno se qualcuno fa promesse e poi non le mantiene. L'illusione richiama immediatamente la figura del prestigiatore che, mediante trucchi, fa uscire conigli bianchi dal cilindro nero. Naturalmente, è possibile autoilludersi, persino autoingannarsi, arrivando a mentire a se stessi. Ma, non è di questo che voglio parlare. Nel corso degli ultimi dieci anni mi sono occupato soprattutto di questioni concrete come la storia economica e, in senso lato, di antropologia. Poi, nei ritagli di tempo, muovendo giustappunto da una primitiva curiosità antropologica, cominciai ad interessarmi di filosofie orientali, in particolare quella indiana e quella cinese. Soprattutto la prima, a meno che non la si tratti come un espediente per rendersi interessanti e stravaganti, richiede un impegno fisico oltre che intellettuale. Lo yoga è una severa disciplina che reclama rinuncia ed ascesi. La meditazione impegna ore ed ore, a volte intere giornate. Comunque sia, proprio mediante lo yoga e la meditazione, mi sono reso conto che se esiste una "porzione" di essere immutabile, è del tutto assurdo andarla a cercare nel "mondo là fuori". A meno che, appunto, non si vadano a cercare documenti, libri, iscrizioni su pietra, ovvero oggetti fisici che anche invecchiando continuano a porgere lo stesso medesimo messaggio.

Anche l'io è mutevole e instabile. Si fa condizionare dalle situazioni, si eccita, si deprime, reagisce, si arrende, si esalta, si fa persuadere, resiste alle tentazioni, tenta di persuadere gli altri, matura, acquisisce abilità, cerca di farsi una posizione, incontra resistenze ed ostacoli. Eccetera. Potremmo andare avanti per ore ed ore a parlare di quella che non è altro che una fenomenologia degli individui viventi, oggi come nel più remoto passato. Ormai un catalogo infinito. Potremmo specializzarci in ogni sorta di fenomenologia. In ognuna potrebbe esserci qualcosa di vero, come ad esempio nella dinamica del rapporto tra padrone e servo affrontata da Hegel. Ed anche qualcosa di falso, considerato come in genere i padroni trattano gli operai, o molti trattano chi rende loro un servizio. Probabilmente, non è vero che al di là dei fenomeni esista una vera e propria cosa in sé come sostenuto da Kant - in questo molto più vicino a Parmenide di quanto generalmente gli storici del pensiero seppero evidenziare - ma, non credo abbia oggi molto senso impegnarsi in discussioni sulla cosa in sé. Nemmeno richiamando Schopenhauer e la particolarissima intepretazione che ne diede, definendola non già come generico essere annidato in recondite profondità alle spalle dei mutamenti, bensì come volontà. Una forza cosmica che incessantemente spinge a vivere, e che oggi si potrebbe interpretare come la voglia di vivere e di esprimersi che agita tutti gli esseri umani. Schopenhauer scoprì nella musica la forma più alta di espressione della volontà. Altri potrebbero trovarla nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nello spettacolo sportivo, nella produzione di automobili, nel sesso, nel diventare ricchi e potenti. O anche delle " celebrità" venerate da folle di devoti.
Presentata in questo modo, tuttavia, la cosa in sé perde i connotati dell'essere parmenideo, per diventare un che di vivo, un motore pulsante ed irrefrenabile. Tutta la filosofia di Schopenhauer sembra convergere attorno all'insegnamento morale di sottrarsi alla volontà per vivere meglio.

La cosa in sé andrebbe cercata in noi stessi. Al di sotto, al di sopra, dietro tutte le apparenze, gli abiti e le maschere che un individuo riesce ad assumere, e quindi alle possibili fenomenologie cui, volente o nolente, riesce a dar luogo. Se c'è una "porzione di essere" che si mantiene immutabile dalla nascita alla morte, e, potrebbe darsi, anche oltre la morte, è quello che nel linguaggio dello yoga si chiama testimone (in sanscrito drastr - occhio che la grafia è sbagliata perché sotto la "s", la "t" e la "r" si dovrebbe mettere un pallino). Il testimone è l'io dormiente che sta dietro all'io vivente studiato dalle fenomenologie e dalle psicologie. Se si riesce a retrocedere fino al punto nel quale anche la storia del proprio io vivente diventa "spettacolo per lo spettatore, ovvero il testimone", significa che il dormiente si è risvegliato. Questa è l'esperienza decisiva che cambia la vita. Ed in sostanza è il pezzo mancante alla filosofia di Schopenhauer.
Il Maestro indiscusso dello yoga fu Patañjali. (1) I Detti sullo yoga, Yoga-sutra, costituiscono un testo ermetico, comprensibile ed usufruibile solo con un commento, forse più di uno. Secondo Patañjali, mediante lo yoga si può arrivare a rivivere tutte le proprie vite precedenti. Secondo me, si può solo rivivere con molto distacco ed obiettività la propria esistenza attuale. Ma, ad essere sinceri, parlo così perché non ho mai osato spingere la meditazione fino ai limiti estremi dello hatha-yoga con esercizi dolorosi e pericolosi come la sospensione del respiro, ovvero entrare nella condizione di "morte" da almeno un paio di secondi. Secondariamente, non mi interessa granché sapere chi potrei essere stato, se Spartaco, Napoleone o Alessandro Magno :-) Sicuramente non fui un Buddha, altrimenti la banda dei tibetani mi avrebbe scoperto:-)

Dunque, scherzi a parte, ciò che mi premeva evidenziare in questa sede, infine è emerso: se c'è dell'essere immutabile in giro per il mondo, questo va risvegliato dentro se stessi ed eventualmente cercato in altri che hanno ritrovato se stessi. Lo yoga spalanca la mente, oltre che ripulirla dalla boria intellettuale e dalle reazioni più istintive. Non credo renda più intelligenti ma, certamente rende più comprensivi. Diventa possibile immedesimarsi nella vita degli altri, anche gli individui più squallidi e ripugnanti. Lo yogin potrebbe scrivere pagine di storia molto diverse da quelle scritte finora, immedesimandosi nelle vite di coloro che"hanno fatto la storia", ad esempio Bruto e Giulio Cesare, oppure Platone ed Aristotele.
Ciò che non è possibile fare è vivere al posto degli altri. (2) Ognuno è costretto, volente o nolente, a succhiarsi la sua da cima a fondo. E da essa trarre le conclusioni sul senso della propria vita. Decretare cosa debba avere senso universalmente per tutti è probabilmente un atto d'arroganza che lascio volentieri agli illuminati ed alle guide infallibili. Per me, prima di fare yoga, aveva senso battersi per la giustizia e smascherare i cialtroni, promuovere cultura e conoscenza, difendere i diritti umani a partire dai luoghi di lavoro. Dopo qualche anno di yoga, mi ritrovo molto più capace di mantenere la freddezza, nonché consapevole della relativa vanità dell'impegno. E' quasi tutto "maledettamente" inutile, o quantomeno, lo sembra. Ma, in definitiva, continuo a fare le stesse cose di prima. Forse, un po'meglio, a volte decisamente peggio. Questo è il senso della mia vita, e quindi anche il suo destino.

A questo punto, tuttavia, mi sento in dovere di spiegare un po' meglio perché sulla questione del senso della vita bisognerebbe pontificare il meno possibile. Osservando chi mi circonda, ho spesso la netta sensazione che ci siano individui venuti al mondo per mangiare la nutella, altri per scalare le montagne, altri per vedere partite di calcio, altri per trovare l'anima gemella, altri ancora per gemellarsi con tutte le anime coperte di pilu, altri per tentare rivoluzioni e così via. Son davvero una minoranza quelli che tentano di realizzarsi umanamente e integralmente, in una direzione che potremmo dire armoniosa, se la parola non risultasse "usurata" e sospetta.
Non è necessario scomodare Heidegger e la Geworfenheit, che si potrebbe tradurre con "gittatezza", per scoprire che nel "senso comune" la percezione più diffusa che si ha di stessi è quella di essere venuti al mondo non per propria volontà. Gettati nella mischia, appunto, da un Dio creatore, o da una coppia di amanti sprovvisti di preservativo. Anche una delle mie prime fidanzate, che non aveva mai letto Heidegger, diceva frequentemente di non esser venuta al mondo per volontà propria, facendo pesare la propria condizione di frustrazione ed insoddisfazione perenne, pur non mancando di alcun requisito per far innamorare un "bravo" giovane. Ho ancor da capire adesso se lo facesse per rendersi più interessante, o per un sentimento reale. In sostanza, se diceva la "sua" verità in quel particolare momento. Credo di sì ma, potrei sbagliarmi. Lo yogin che non riesca ad entrare nella condizione della Geworfenheit, ed a rivivere quasi fisicamente, ad esempio, il dolore della maternità e del parto, oppure, ancor prima, il terrore che una fanciulla può provare nei confronti del dolore del parto, è uno yogin fallito. Patañjali potrebbe dire che ha raggiunto la consapevolezza del Purusa, del principio maschile, ma non quello della Prakrti. Non è pertanto giunto alla dimensione dell'Isvara, il Signore, il quale è consapevole sia dell'uno che dell'altro.

1) Patañali - Yoga Sutra - a cura di Massimo Vinti e Piera Scarabelli - Edizioni Mimesis 1992
E' l'edizione più scrupolosa ed accurata di quelle che mi è capitato di consultare. In circolazione ce ne sono delle pessime, anche sul web. Su Wikipedia, per ora, le pagine su Patañjali e lo yoga non sono entusiasmanti.

2) Per la verità esiste un passo,[ (3,39), 3,37], che indica esplicitamente una possibilità: «CON L'ALLENTAMENTO DI CIO' CHE LEGA (il corpo sottile a quello fisico) E CON LA PERCEZIONE DEL CAMMINO DELLA COSCIENZA (attraverso il corpo), (si ottiene) LA FACOLTA' DI PENETRARE NEL CORPO ALTRUI.» L'espressione ha lasciato sbigottiti diversi commentatori, sia indiani che occidentali ma, in realtà, non è altro che la presentazione del "demoniaco" della tradizione ebraico-cristiana con in testa il turbante del fakiro. Seguendo la via dello yoga, si arriva al punto in cui, ad esempio, un "vecchio porco" ancora affamato di sesso, potrebbe penetrare nel corpo di un giovane aitante ed affascinante e condizionare pesantemente i suoi pensieri, le sue azioni, e così via. Credo che quando tuttora si parla di possessione demoniaca, ci si riferisca esattamente a questo. Crederci? Bah! Personalmente ho incontrato un sacco di ossessionati ma, di "indemoniati" mai. Tuttavia, leggendo gli studi di Ernesto De Martino, mi sono reso conto che, ad esempio, il fenomeno dei "tarantolati" è sicuramente qualcosa che va oltre la semplice ossessione.

gm - marzo 2012