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Il manifesto degli intellettuali fascisti e la risposta di Croce
«A un mese dalla fine della guerra - scriveva Norberto Bobbio - apparvero quasi contemporaneamente il documento approvato dalla direzione del partito socialista nella riunione di Roma (7-11 dicembre), in cui si enunciava il programma eversivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio e la distribuzione collettiva dei prodotti, oltre l'abolizione della coscrizione obbligatoria e la municipalizzazione delle abitazioni civili e la democratizzazione della burocrazia, e il Manifesto della nuova rivista nazionalista "Politica", che squarciando il velo dell'imbelle ideologia democratica ("ideologia della sconfitta"), che aveva interpretato il grande conflitto, ipocritamente, come urto di ideologie anziché come lotta di imperi, enunciava il programma, non meno eversivo, del nuovo imperialismo italiano.
La lotta politica in Italia sarebbe stata determinata e rapidamente bruciata in pochi anni dallo scontro di questi due programmi antagonistici che avrebbero eliso, a volta a volta, ogni tentativo di mediazione da parte di vecchi e nuovi credenti nella virtù del metodo democratico, sino alla loro totale sconfitta. Sulla sinistra i socialisti riformisti, nonostante il loro coraggio morale, rimasero inchiodati dalla presenza di un'agguerrita maggioranza massimalista alla loro tradizione di non collaborazione; sulla destra, i liberali conservatori non perdettero mai la speranza di potersi valere del sovversivismo reazionario per domare l'opposizione.» (1)
Questa lettura, senz'altro corretta, rischia però di privilegiare la dimensione "politica" su quella "sociale". Gli eventi precipitarono, fino alla sbocco pressochè inevitabile di un'alternativa tra rivoluzione rossa o reazione nera, non solo, e nemmeno fondamentalmente, perché i politici operarono, più o meno consapevolmente per una radicalizzazione dello scontro, ma perché la situazione sociale, con le sue dinamiche, le sue grandi ingiustizie, la sua insopportabilità umana, premeva per una radicalizzazione. Le fabbriche vennero occupate. A Torino Agnelli chiamò in soccorso Giolitti e l'esercito. Giolitti arrivò a Torino ed in risposta ad Agnelli che chiedeva misure drastiche di ordine e pulizia, propose "provocatoriamente" di usare un reggimento di artiglieria di stanza nella città. Forse si potevano bombardare gli uomini, ma guai a distruggere la fabbrica! Agnelli, pertanto, rifiutò, e Giolitti tirò un sospiro di sollievo. Credeva che il problema si sarebbe risolto con la resa degli operai alla fame ed al buon senso antico piemontese. Forse non aveva torto. Ma ormai, gli eventi precipitavano e il partito dell'ordine prese ad usare sistematicamente l'illegalità, la violenza e il disordine. Non poteva che finire così. Anche se, tutto sommato, il 28 ottobre del 1922, quella barzelletta vivente che si faceva chiamare Re d'Italia, avrebbe potuto anche dichiarare lo stato d'assedio proposto dal capo del governo. Ci sarebbe stata ugualmente una svolta reazionaria, ma non avremmo vissuto l'onta di un ventennio di isolamento dal resto del mondo civile.
E anche Gentile, il filosofo puro, concluse che non c'era scelta.
Non si poteva fare altrimenti. Proprio perché "religioso" e portatore di un'idea, il fascismo doveva abbattere lo stato costituzionale, uno stato antifascista in quanto stato di una maggioranza e non stato di tutto un popolo, e quindi stato espressione di quel liberalismo "abdicatario" e agnostico, che non conosce altra libertà che quella esteriore ed apparente. Si doveva mandare in pensione Giolitti e quelli come lui. Unica erede della Giovane Italia di Mazzini, l'ideologia fascista è dunque la portatrice della nuova libertà, incarnata da "Giovani risoluti , armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente", che violarono la legge "per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato. Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici dello Stato per fondare il nuovo Stato." Erano queste le tesi fondamentali di Gentile e non erano filosoficamente superiori a quelle politiche avanzate da Benito Mussolini. La trasformazione - continuava Gentile - ha luogo gradualmente in mezzo ad un perfetto ordine pubblico, "quantunque non sian mancate e non manchino oscillazioni dell'opinione pubblica agitata violentemente da una pubblica stampa che [...] profitta di ogni errore e di ogni incidente per sobillare il popolo contro la tenace e dura opera costruttiva del nuovo Governo." Era l'eufemismo necessario a superare dialetticamente lo scandalo provocato dall'assassinio di Giacomo Matteotti, parlamentare socialista, attuato da sicari del regime. Per Gentile, "la Patria", rigenerata dal fascismo, diventava così "scuola di subordinazione di ciò che è particolare e inferiore a ciò che è universale ed immortale". I cafoni e gli intellettuali recalcitranti alle lezioni dello spirito potevano così essere educati a manganellate e buone dosi di olio di ricino coi suoi benefici effetti. Anche a forza, poteva così nascere il nuovo Stato Etico, che è "concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori da questo mondo, dove intanto si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita." False sono le accuse al Fascismo, che non è reazionario, illiberale e antioperaio. Falso che il Fascismo abbia ridotto la libertà di stampa, "questioni di fatto più che di principio", questioni che lasciano indifferenti la maggioranza straripante del popolo italiano, la quale, sottolinea Gentile, "rimane estranea e sente che la materia del contrasto, scelto dalle opposizioni, non ha consistenza politica apprezzabile ed atta ad interessare l'animo popolare." C'è di tutto in questo "disinvolto" Gentile, dagli echi nietzscheani di critica alla religione dei tschandala, cioè il cristianesimo visto come religione degli schiavi, come sopportazione del male senza speranza di bene in "questo mondo", a tutta la retorica più torbida sul Risorgimento da parte degli irrazionalisti e dei nazionalisti.
Croce reagì in pochi giorni, trovando ospitalità sulle pagine del "Mondo" diretto da Giovanni Amendola, che pure era stato interventista. La critica al fraintendimento storico del liberalismo, lo Stato Etico, l'abuso della parola "religione" sono le scintille di un attacco rovente. «Chiamare contrasto di religione l'odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere di italiani ..., nobilitare col nome di religione il sospetto e l'animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto persino ai giovani delle Università l'antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali ..., è cosa che suona a dir vero, come un'assai lugubre facezia.»
A Croce è insopportabile la rivendicazione di continuità tra Risorgimento, opera di una minoranza, e fascismo, opera di tutt'altra minoranza. Mai i liberali si compiacquero di ciò. E se i fascisti vedono in se stessi una continuità coi liberali dell'Ottocento, sbagliavano gravemente sapendo di sbagliare.
Stava, insomma, nascendo un nuovo Benedetto Croce, persino un nuovo filosofo che, per molti aspetti importanti, correggeva il vecchio. Non altrettanto poteva dirsi di Gentile, ormai invischiato in una spirale infernale. C'era per lui, in agguato, un ben più terribile avversario del povero Don Benedetto, ridotto ad oppositore di comodo nel senso del "guardate a quale nemico lasciamo il diritto di critica!". Vedremo così nel prossimo file i cattolici all'attacco di Gentile.
(1) Norberto Bobbio - Profilo ideologico del Novecento - Garzanti 1990