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L'abate Ferdinando Galiani, detto "machiavellino"
di Guido Marenco
In Cuori e denari (1), delizioso lavoro di Giorgio Ruffolo dedicato alle microbiografie di alcuni economisti, esiste un profilo di Galiani che sarei tentato di saccheggiare a piene mani per scrivere questa nota. Ma non cedo alla lusinga. Da essa estraggo solo dati indispensabili. Il Ferdinando nacque a Chieti nel 1730 da facoltosi genitori pugliesi. Fu il classico enfant prodige saputello, sfrontato e burlone che a vent'anni ne sapeva una più del diavolo in materie dal diavolo molto stimate quali l'economia, la storia, la politica e, suppongo, anche la filosofia. Nella scienza di Dio, la teologia, era ferratissimo. Un nome su tutti è quello di Vico Giovambattista, anche se non lo troverete nelle pagine del trattato. Galiani o lesse, lo meditò, ne trasse una lezione molto personale che seppe filtrare e liberamente rielaborare, o manipolare, nei suoi scritti.
Costretto all'abito talare, o convinto dai benefici della carriera ecclesiatica, non si sa, il nostro non aveva la vocazione del santo e nemmeno quella del predicatore: è questo che lo rende interessante, come tanti uomini del clero romano attratti più da questo mondo che da quello che si trova nell'altro. Ma non facciamolo ateo e peccatore più di tanto, almeno fino a quando non tornò a Napoli e non fu risucchiato nell'orbita di un potere decadente e corrotto. Il Ferdinando fu, in fondo, un bravuomo dotato di sottile ragione e di qualche difettuccio che pagò amaramente. Inserito in società, avido della compagnia dei salotti e delle belle dame incipriate ma con un po' di cervello sotto la parrucca, quando si trovò a Parigi in qualità di vice-ambasciatore, commise l'imperdonabile errore di svelare il vero motivo della sua missione a chi non doveva e cadde in disgrazia. Era stato mandato a Parigi per "scongiurare" il coinvolgimento di Napoli nel "patto di famiglia" tra i Borboni regnanti a Parigi e quelli spagnoli, perché ciò avrebbe reso il regno di Napoli uno stato vassallo. Suo malgrado, dovette tornare a Napoli., lasciando la compagnia di Helvetius, d'Holbach, Diderot e D'Alembert, i quali lo avevano apprezzato. Marmontel lo aveva battezzato il "più grazioso Arlecchino d'Italia, con la testa di un Machiavelli", da qui il soprannome di "machiavellino".
A Napoli, Galiani ebbe la suprema sfortuna di entrare in confidenza con Maria Carolina, la più vanesia ed intrigante delle figlie di Maria Teresa d'Austria. A Parigi, aveva conosciuto la sorella, la regina Maria Antonietta, ma i due si erano cordialmente detestati fin dal primo momento. Quella era un'oca, di cervello ne aveva davvero poco. Maria Carolina era più dotata, ma anche più potente, essendo il marito poco più che un idiota. Le piaceva bastonarlo, coprirlo di ridicolo, trattarlo come un cane. e quello ci stava, contento lui, perché Maria Carolina faceva figli in quantità industriale.
Il rapporto con la regina di Napoli fu fatale a Galiani perché costretto a compiti cui non era predisposto. Un conto, si sa, è vedere le cose col distacco dello studioso, quand'anche del polemista criticone, un altro è trovarsi a prender decisioni, gestire una politica e farsi consapevolmente dei nemici. Non ne aveva la tempra e, forse, nemmeno la voglia, anche se, a sentirlo criticare Turgot, uno non potrebbe non giudicarlo come dotato di diplomazia e prudenza, quelle che, appunto mancarono al ministro francese.
Fatto sta che come politico, Galiani fallì. Nominato componente del Supremo Consiglio delle Finanze del Regno, anziché distinguersi per saggezza, onestà e rigore, finì con l'avallare la dissenata gestione finanziaria del Regno.
Ruffolo è impietoso: «Per Galiani sarebbe l'occasione di rivelarsi uomo di stato, come Pietro Verri a Milano. Ma come sono lontane le due città! E come è diverso l'abate napoletano dal conte milanese! Galiani soccombe alla prova, politicamente e soprattutto moralmente. E con suo pieno immoralistico compiacimento. C'è tra il suo ostentato cinismo (ho tutti i vizi, dice, alla Talleyrand: bisogna pure finanziarli) e la furia scandalosa della regina una corrente di simpatia. Egli è fierissimo della confidenza della "più bella donna di Napoli", "peccato che sia una regina".» (1)
Invecchiò più precocemente del previsto. Lo ritroviamo sdentato e mezzo cieco, si dice anche corrotto con sontuose tabacchiere d'oro e preziosi orologi intarsiati, finire i suoi giorni in un'opulenta solitudine. Ultimo scherzo del destino: la regina gli scrisse una lettera nella quale (senti da che pulpito!) gli intimava di pentirsi dei suoi peccati.
Eppure non ebbe una vecchiaia del tutto infelice. Amava la musica, soprattutto l'opera buffa napoletana (ma detestava quel lagnoso di Gluck), e per un vecchio non c'è forse di meglio che poetare per un grande musicista come Paisiello, comporre un libretto d'opera, andare regolarmente a teatro.

Della moneta
A vent'anni Galiani compose questo po' po' di trattato che gli diede un grumo di celebrità. Leggerlo fa bene perché consente di capire alcuni elementi fondamentali della mentalità e dell'economia del tempo. Ma, credo faccia bene leggere anche queste poche note per capire il contesto in cui Galiani scrisse.
Ruffolo annota: «La premessa da cui partiva era il punto d'arrivo cui erano giunti altri pensatori del Seicento come l'inglese Petty e l'italiano (calabrese) Antonio Serra: la ricchezza è l'economia reale, i prodotti della terra, delle manifatture, del lavoro e dell'intelligenza, non la moneta. Ma la moneta è il fluido attraverso il quale la ricchezza scorre. Non ha dunque alcun senso l'obiettivo mercantilista di accumulare la massima quantità possibile di moneta: come non avrebbe senso la prescrizione di aumentare al massimo la pressione del sangue nelle vene. Proprio come il sangue nelle vene, ne occorre una certa proporzione ottimale: né di meno né di più (l'immagine è di William Petty).» (1)

In realtà, la voce di Galiani si inseriva in un coro di economisti di non poco conto. Si parla di autori come Geminiano Montanari e Pompeo Neri, Troiano Spinelli duca d'Aquaro, Françoise-Michel-Chrétien Deschamps, l'abate Saint-Pierre, e soprattutto Carlantonio Broggia, che fu il vero bersaglio polemico del lavoro di Galiani.
Broggia, a differenza sua, era uomo probo, tutto d'un pezzo. Nel Ragionamento sopra la moneta del 1743 (titolo esatto: Trattato dei tributi, delle monete e del governo politico della sanità - Ed. Palumbo 1743), aveva cominciato col dire che era ora di finirla con i sofismi. Non si può chiamare aumento e alzamento quel che è una diminuzione del valore di una moneta. Diceva assurdo parlare di bassare e ridurre le monete quando in realtà si trattava di un risarcimento e di una restaurazione del valore precedente.
Al di là della polemica nominalista, Broggia era molto preoccupato dalla tendenza di alcuni governi di coniare monete più leggere, impure, di valore intrinseco più basso di quello nominale.
Sosteneva l'importanza fondamentale di avere una moneta immaginaria quale misura del valore delle monete reali. E definiva questa artificiosa costruzione intellettuale come "un espediente meraviglioso... che toglie tutte le confusioni, le difficoltà e i disordini".
Per correttezza riportiamo la definizione che ne dede Galiani: «Dicesi moneta immaginaria quella che non ha un pezzo di metallo intero che le corrisponda per appunto in valore. Così il ducato romano è divenuto oggi moneta ideale, perché non zeccandosi più moneta che contenga dieci paoli d'argento, il ducato non si trova più in piazza corrente, ma solo da' curiosi si conserva. Tale è la nostra oncia, la lira sterlina inglese, la lira di conto in Francia, il ducato d'oro di Camera, il ducato di banco veneziano, e moltissime altre monete.» (Galiani, libro II)

Per Broggia, in sostanza, occorreva conservare la moneta immaginaria dove ancora esisteva, e ricrearla dove mancava, come a Napoli, dove si erano coniate monete del valore del ducato immaginario col nome di carlini, commettendo così l'errore di deformare la misura in grado di valutare le variazioni ed i deprezzamenti delle monete reali.
Avevano cominciato gli spagnoli, ancora padroni di Napoli nel 1689 e nel 1691. Il risultato fu che il ducato era diminuito di 1/3 del suo valore. Riacquistata l'indipendenza nel 1734, Napoli non mise però fine agli abusi monetari. Secondo Broggia, una politica siffatta danneggiava sia il sovrano che i creditori, ma soprattutto danneggiava coloro che vivevano "con la fatica necessariamente venduta."

Broggia ammetteva un solo caso nel quale la diminuzione (cioè l'alzamento per gli altri, ed anche per Galiani) avrebbe potuto portare un qualche giovamento: quando lo stato era talmente gravato di debiti da non potervi far fronte con i mezzi normali, nemmeno con una tassazione straordinaria. Ma, finita la manovra, per Broggia era indispensabile il ritorno all'onestà.
L'esempio di Venezia era comunque un buon modello: trovandosi in difficoltà, i governanti avevano avuto la forza ed il coraggio di imporre una tassa eccezionale.
Va detto, ad onor suo, che Broggia era del tutto consapevole delle difficoltà di decidere forme di tassazione più pesanti. E responsabilmente precisò che il grosso delle imposte doveva gravare "su ricchi di ricchezze stabili e specchiate".
Con simili idee, si capisce perché il Broggia si trovò isolato, ed anche contestato.

Galiani, nel capo II del primo libro, al titolo Dichiarazione de' princìpi onde nasce il valore delle cose tutte. Dell'utilità e della rarità, princìpi stabili del valore. Si risponde a molte obiezioni, lo accomuna a Locke e Bernardo Davanzati in una contestazione al primo principio d'Aristotele nei discorsi sull'economia, e per la precisione, sull'uguaglianza degli uomini, e quindi sul presunto diritto naturale alla schiavitù. E aggiunge: « Perciò io prima d'ogni altro con ogni mio studio m'ingegnerò dimostrare quello, onde vivo da gran tempo persuaso, che non solo i metalli componenti la moneta, ma ogni altra cosa al mondo, niuna eccettuandone, ha il suo naturale valore, da princìpi certi, generali e costanti derivato; che né il capriccio, né la legge, né il principe e né altra cosa può far violenza a questi princìpi e al loro effetto; e in fine che nella stima gli uomini, come gli Scolastici dicono, passive se habent. Sopra queste basi qualunque edifizio s'inalzerà sarà durevole, e sempiterno. Perdonerà il lettore qualunque lunghezza mia all'importanza della materia; e quando ne volesse incolpare me, ne incolpi con più ragione quell'infinito numero di scrittori che una tanta verità o non ha conosciuto, o non ha voluto, come si conveniva, dimostrare.»
La connessione con quanto evidenziato sopra è evidente: il Broggia è un "idealista" del come dovrebbe essere e non è; il nostro Ferdinando inclina al realismo che potrebbe quasi fare a meno dei principi, tanto i suoi veri principi son quelli del mondo reale, di come vanno le cose.
E le cose, per Galiani, andavano come devono andare.

Schumpeter ha visto in Galiani un precursore delle teorie che fanno risiedere il valore delle merci nell'utilità anziché nel lavoro. L'idea di Schumpeter poggia evidentemente su questo passo: «Già da questo che ho detto si comprende, ch'essendo varie le disposizioni degli animi umani, e vari i bisogni, vario è delle cose il valore. Quindi è, che altre essendo più generalmente gustate e ricercate, hanno un valore, che corrente si chiama; e altre solo dal desiderio di chi le brama avere, e di chi le dà, si valutano. Il valore adunque è una ragione; e questa composta da due ragioni, che con questi nomi l'esprimo di utilità, e rarità. Quel ch'io m'intenda, acciocché sulle voci non si disputi, l'andrò con esempli dichiarando. Egli è evidente che l'aria e l'acqua, che sono elementi utilissimi all'umana vita, non hanno valore alcuno, perché la rarità loro manca: e per contrario un sacchetto d'arena de' lidi del Giappone rara cosa sarebbe, ma posto che ella non avesse utilità particolare, non avrebbe valore. Ma qui già conosco che non mancherà chi mi domandi, qual grande utilità io trovi in molte merci che hanno altissimo prezzo. E perché questa difficoltà e naturale e frequente viene a dichiarare stolti e irragionevoli gli uomini, e distrugge nel tempo istesso que' fondamenti che ha la scienza della moneta, sarà necessario entrare più diffusamente a dire dell'utilità delle cose, e come questa si misuri. Se ella non ha princìpi certi onde dipenda, non gli avrà neppure il prezzo delle cose; e allora non sarà più scienza quella e scienza dove non v' è dimostrazione delle monete, perché non v'è certezza.»
In polemica con Davanzati, aggiunge: «Ma la più gran parte degli uomini insieme con Bernardo Davanzati ragiona così: "Un vitello naturale è più nobile d'un vitel d'oro, ma quanto è pregiato meno?". Rispondo. Se un vitello naturale fosse così raro come uno d'oro, avrebbe tanto maggior prezzo del vitello d'oro, quanto l'utilità e il bisogno di quello è maggiore di questo. Costoro immaginansi che il valore derivi da un principio solo, e non da molti che si congiungono insieme a formare una ragione composta. Altri sento che dicono, Una libbra di pane è più utile d'una libbra d'oro. Rispondo. Questo è un vergognoso paralogismo, derivante dal non sapere che più utile, e meno utile sono voci relative, e che secondo il vario stato delle persone si misurano. Se si parla d'uno che manchi di pane e d'oro, è certamente più utile il pane; ma a questo corrispondono e non son contrari i fatti: perché non si troverà alcuno che lasci il pane, e di fame si muoia, prendendosi l'oro. Coloro che le miniere scavano, non si scordano mai di mangiare e di dormire: ma a chi è sazio, vi è cosa più inutile del pane? Bene è dunque se egli allora altre passioni soddisfa; perciò questi metalli sono compagni del lusso, cioè di quello stato in cui i primi bisogni sono già soddisfatti. Perciò se il Davanzati dice che "un uovo, il quale un mezzo grano d'oro si pregia, valeva a tener vivo dalla fame il conte Ugolino nella torre ancora il decimo giorno, che tutto l'oro del mondo non valeva", egli equivoca bruttamente fra il prezzo che dà all'uovo chi non teme morir di fame se non lo ha, e i bisogni del conte Ugolino. Chi gli ha detto che il conte non avria pagato l'uovo anche mille grani d'oro? L'evidenza di questo errore la manifesta a noi lo stesso Davanzati poco dopo, ma senza avvedersene egli, dicendo, "schifissima cosa è il topo; ma nell'assedio di Casilino uno ne fu venduto duecento fiorini per lo gran caro, e non fu caro, poiché colui che il vendé morio di fame, e l'altro scampò". Ecco che pur una volta, grazie al cielo, ha confessato che caro, e buon mercato sono voci relative.»

Massì, Schumpeter aveva ragione a vedere il Ferdinando precedere Jevons ed i marginalisti. Ma scava nella storia e vedremo se non si trova un precursore anche a Galiani. Ed ora veniamo al contendere: Galiani rispose a Broggia punto su punto. Si vada al libro II , oppure ci si accontenti della citazione: «In secondo luogo anche le doglianze contro l'alzamento non sono tutte vere. La prima, ch'è più generale, è degna di riso, essendo falso che dopo l'alzamento incariscano le robe. Incariscono di voce e non di fatto, perché l'alzamento non è che una mutazione di nomi; e que' nomi che muta la moneta, gli mutano i prezzi delle merci del pari. Si rassomiglia questo a un uomo che dovendo pagar cento ducati fosse obbligato a pagarne duecento mezzi, e si dolesse che ove prima sentiva il suono del numero cento all'orecchio, ora sente l'altro più spaventevole di duecento. In oltre è per evidenza certo che quando si compra caro, si vende anche caro, sicché il lagnarsi de' prezzi alzati era un lagnarsi che le cose si vendeano bene.
Né è vero che i forestieri vi guadagnino (che è il terzo capo di lamento); perché gli stranieri non essendo sovrani negli stati altrui, soggiacciono essi ai prezzi posti da' nazionali ed alla medesima mutazione di nome; e in somma tanto gli uni che gli altri sotto qualunque denominazione lo stesso peso di metallo debbono dare. Ma di questo si dirà in appresso: per ora mi basti per sollevar col riso l'animo di chi legge, il fargli avvertire che l'alzamento de' prezzi va direttamente a distruggere ogni effetto dell'alzamento della moneta; e mantenendo la stessa realità, muta le voci. Quando dunque i Francesi dolevansi d'ogni cosa incarita, si dolevano che l'alzamento tanto aborrito non avesse avuto il suo effetto, onde pare che ne desiderassero un altro: e certamente se le rappresentanze di pochi potessero render colpevole una nazione, in pena l'avrebbero meritato.»

Qualcuno potrà pensare che gli argomenti son validi. Liberissimo di farlo. Io continuo a credere che l'alzamento (cioè la diminuzione del Broggia) sia solo un maledetto imbroglio, un espediente condito dall'olio della disonestà. Come la moderna inflazione, danneggiava soprattutto chi "vende la sua fatica" per avere il necessario. Chi é pagato come se il pane costasse 1 euro al kilo dal 27 del mese prima al 26 del mese dopo, ma si ritrova a pagarlo 1,05 euro già il 1 del mese dopo, ci rimette comunque.
La senzazione di un Galiani difensore d'ufficio di interessi precisi e politiche governative è molto forte.

I dialoghi in francese
I dialoghi sui grani furono composti da Galiani direttamente in francese e volevano inserirsi nel dibattito tra protezionisti ed i fautori della liberalizzazione immediata dei prezzi e dei mercati internazionali con una posizione mediana e prudente. Con molto acume, Galiani evidenziò che entrambe le politiche comportavano svantaggi non indifferenti ed anche vantaggi altrettanto cospicui. La cosa migliore sarebbe stata quella di liberalizzare, ma con giudizio, un poco alla volta, senza esporsi troppo al rischio di carestie devastanti, con il grano che andava all'estero anziché prendere la via di Parigi per sfamare i poveri.
In questa posizione vi era del buon senso, ma affiorava anche un rapporto molto problematico con l'agricoltura, considerata da Galiani un eterno gioco d'azzardo. In sostanza, era contrario alle posizioni dei fisiocratici che avevano concepito l'agricoltura come l'attività fondamentale di ogni economia e la base ineludibile di ogni ricchezza. Galiani preferiva la manifattura, più salda e meno traditrice, fonte costante di reddito. Anche qui, il nostro mostra una decisa autonomia dagli ideologismi del tempo ed uno sguardo più acuto sul futuro, come fiutasse l'imminente esplosione dell'industria che avrebbe non poco sconvolto le carte in mano ai giocatori.

1) Cuori e denari - Giorgio Ruffolo - Einaudi 1999
gm - 28 settembre 2004