Tra i gravi e sensibili mali che i poeti
e gli altri eloquenti scrittori hanno agli
uomini arrecati, gravissimo è stato senza
dubbio quello d'aver falsificate e guaste
le idee della nostra mente da quelle della
moltitudine distaccandosi, le quali, perché
dalla natura sono prodotte, hanno per ordinario
in sé giustizia e verità. Essi sono stati
coloro che lo stato infelicissimo di natura,
secolo d'oro hanno denominato: e quasi l'esser
l'uomo simile in tutto ai bruti fosse il
punto della sua perfezione, tutti gli ordini
della civile società, che dalla vita ferina
e dalle naturali perverse inclinazioni alla
maleficenza, crudeltà, odio, invidia e rapacità
ci ritraggono, quasi corruttele d'una ideata
innocenza e semplicità, hanno, non so perché,
biasimate. Essi sono quelli che dell'argento
e dell'oro, ch'e' non aveano, si fecero imprima
veementissimi disprezzatori; e forse che
così credettero vendicarsi di quelle ricchezze
che non potettero, né meritavano guadagnare.
E perché le loro composizioni sono d'ogni
ornamento d'eloquenza ripiene, e da ognuno
lette ed apprese, n'è nato che in ogni secolo
anche gli stessi savi conformemente alle
parole de' poeti hanno parlato. Ma non han
potuto queste parole sulle operazioni delle
nazioni influire, essendo per esperienza
conosciuto che gli uomini operano per lo
più secondo che la natura rischiaratrice
del vero ispira loro che si debba vivere,
e sieguono poi tranquillamente a ripetere
quelle sentenze che altri eloquentemente
ha dette ed essi hanno mandate a memoria,
sia che alla condotta della loro vita si
accordino, o che ne discordino grandemente.
Perciò la moneta, che tutti biasimano come
origine d' ogni colpa, e fomentatrice delle
cattive inclinazioni, si siegue senza interrompimento
ad usare; e così per tutti i secoli si seguirà.
Ma io, che non sono avvezzo ad essere ammiratore
e seguace delle opinioni di pochi, e credo
che il distaccarsi da' più non sia sempre
sicuro cammino alla verità, ho voluto riguardare
se la moneta sia veramente una dannosa introduzione,
o anzi una perfezione degli ordini della
società civile, che a ben vivere ci conducesse;
e meditando ho trovato che ella è grande
ed utilissima invenzione, e tale che, non
dovendosi i sommi beni ad opera umana attribuire,
noi dobbiamo di lei, non altrimenti che del
vitto facciamo, rendere umilissime grazie
alla Divinità. Al qual conoscimento come
io sia pervenuto piacemi in questo capo dichiarare;
ed in tutto il presente libro dell'utilità
e comodità della moneta andrò ragionando.
CAPO PRIMO
Dimostrazione della natura della moneta e
della sua utilità.
La necessità del commercio al sostentamento
della vita ed all'acquisto della terrena
felicità è cosa troppo conosciuta; essendo
il commercio figliuolo del bisogno scambievole
che ha ciascuno, e potendosi definire "Una
comunicazione che gli uomini fanno tra loro
delle proprie faticlie per riparare alle
comuni necessità": tutto quel che giova
al commercio perciò è utilissimo anch'egli.
Or niente è più evidente, quanto l'incommodo
dell'antico e primo costume di commerciare
con baratto di cose a cose: perché è troppo
malagevole sapere a chi la cosa a me soverchia
manchi, o chi la mancante a me possegga,
né tutte le cose si possono trasportare,
né per lungo tempo serbare, né pareggiare
o dividere secondo forse richiede il presente
e comune bisogno. A voler dunque riparar
questo incommodo io pensai se si potesse
vivere in comune; poiché essendo per esperienza
noto che le piccole società, quali sono molti
ordini religiosi, felicemente e meglio degli
altri vivono in comunanza, mi pareva che
anche i corpi grandi e le città e i regni
potessero in comune vivere beatamente. Ed
io trovai che non si può in questi, che non
sono ripieni di gente scelta e virtuosa,
ordinare che ciascuno lavori e si affatichi,
e la sua opera riponga in magazzini aperti
e comnni, ne' quali possa trovar riposto
da altri artefici tutto quello che a lui
bisogna, e prenderselo a suo piacere: mentre
il poltrone allora, defraudando il pubblico
della sua opera, viverebbe inginstamente
delle altrni fatiche; e in oltre non vi sarebbe
modo d'arricchire, né impoverire: onde l'industrioso,
non movendolo lo sprone del guadagno, meno
faticherebbe; il pigro, sperando negli altrui
sudori, o poco o nulla affatto; e finalmente
anche i virtuosi vorrebbero vivere con maggior
lautezza che alla condizione della loro arte
non conviene. Perché noi vediamo che per
la diversa eccellenza dell'esercizio, diversamente
guadagna il mercatante e il contadino, e
perciò l'uno lautamente, l'altro parcamente
vive: ma in quest'ordine di vita comune tutti
vorriano viver bene del pari, e perciò quest'ordine
non si può mantenere. Per emendar questo
adunque io pensai che si potea far così.
Potrebbe tenersi conto di quanto ciascuno
fatica, e poi secondo ch'egli coll'industria
sua alla società giova, dovrebbe delle altrui
partecipare, e non più. Quindi si dovrebbe
costituire che ognuno che porta i suoi lavori
al magazzino ne ricevesse un bullettino concepito
in questi termini: Che il tale ha immessa
ne' magazzini pubblici tanta quantità di
tale roba, diciamo per esempio 100 paia di
scarpe, per lo valore delle quali resta creditore
sulla società. Si dovria indi stabilire che
niuno potesse toccar nulla da' magazzini
senza presentare qualche bullettino di suoi
crediti, e niente più prendere di quel che
importi il valore e la quantità di questo
suo credito, pareggiato il quale con aver
presa roba equivalente, dovria lasciare o
lacerare il bullettino. In oltre conoscendo
quanto incommodo saria se nel bullettino
si esprimesse solamente il dritto che uno
ha acquistato di provvedersi di uno solo
genere di cose, dicendo per esempio che colui
che ha immesse le 100 paia di scarpe meriti
perciò di esiggere 1.000 libbre di pane,
e non altro, sicché questo bullettino solo
al magazzino del pane fosse accettato, vidi
che bisognava che sulle porte di tutti i
magazzini si ricevessero liberamente i biglietti,
sicché ognuno si potesse di quanto mai gli
può bisognare, provvedere. Per ciò fare era
necessario che il principe costituisse una
valuta a tutte le cose, o sia su d'una comune
misura la valuta d'ogni cosa costituisse:
dichiarando per esempio che lo staio del
grano a tanto vino, tanta carne, olio, vesti,
cacio etc. corrisponde; secondo la quale
misura e tariffa si saprebbe poi quanto si
appartiene ad ognuno di ricevere per quel
che egli ha fatto, e quando è che il suo
credito è pareggiato. In fine s'avria da
dare al principe inun certo numero di bullettini,
i quali da lui alle persone che all' tiero
corpo servono si distribuissero; acciocché
questi secondo quella lautezza che è proporzionata
all'importanza e merito del loro impiego,
vivessero. E perché, come ognuno vede, è
necessario in questo sistema che i magazzini
non abbiano maggior debito in bullettini
di quella quantità di roba che eglino hanno
veramente, io trovai esser necessario che
si obbligassero tutti i cittadini a portar
gratis, cioè senza riceverne riscontro di
bullettino, tanta quantità di merci ne' fondachi,
quanta è la somma di tutto quel che si dà
al principe a distribuire ai ministri della
società. Credo che sia evidente la verità
di quanto ho detto, e a quanto disordine
si verrebbe così a riparare.
Or su questo meditando più, io compresi che
il principale, anzi l'unico inconveniente
che in questo stato potea intromettersi erano
le frodi su' bullettini. La quantità de'
diversi caratteri de' custodi de' fondachi
non faria ben distinguere tutti i veri da'
falsi; e quel che è più, mancando la fede
e la virtù poteano i custodi per giovare
agli amici ed ai congiunti talora fargli
creditori sul pubblico d'un prezzo maggiore
delle mercanzie da loro intromesse; dichiarando
per esempio taluno, che ha immesse solo dieci
scarpe, creditore di 1.000 libbre di pane,
quasi egli non dieci ma cento ne avesse arrecate:
che sarebbe lo stesso che fare apparire i
fondachi più del vero doviziosi. E così divenendo
poi debitori di maggior quantità di robe
che non hanno in loro, presto sarebbero non
senza ingiustizia vuotati con questa frode.
Or per assicurarsi da ciò, benché in molte
maniere vi si potesse riparare, mi parve
che la migliore sarebbe se il solo principe
segnasse una determinata quantità di bullettini,
tutti d'uno stesso prezzo, come a dire del
prezzo d'una libbra di pane; e di questi,
che in carta o in cuoio potrebbero segnarsi,
se ne distribuissero le convenienti somme
ai custodi delle robe, i quali a chi immette
gli dessero, ripigliandogli da chi estrae.
Allora non più si esprimerebbe su d'un solo
bullettino tutto il prezzo, ma colui che
porta roba di più valuta d'una libbra di
pane, prenderebbe tanti bullettini quanti
eguagliassero il valore di quella. Così si
dà rimedio alla confusione de' vari caratteri,
alla falsificazione, alla formazione continua
di nuove carte; i custodi potrebbero dare
esattamente i loro conti; ed in fine, se
fosse certo che i bullettini non fossero
ricusati da alcuno per timor di frode, pare
che con questi ordini una società si potrebbe
reggere e conservare. Così veramente pareva
a me quando fui meditando a questo termine
pervenuto: ma frattanto che io mi rivolgea
ricercando se nuova difficoltà restasse a
superare, o per contrario se gli storici
o i viaggiatori narrassero di qualche nazione
la quale con l'esempio desse conferma alle
mie idee; ecco che quasi cadendomi un velo
dagli occhi m'accorsi che inavvedutamente
io era al mondo presente giunto, e sul suolo
paterno camminava, donde credea essere tanto
lontano: e così spero che a' miei lettori
interverrà.
Vidi, ed ognuno può ora vederlo, che il commercio,
e la moneta prima motrice di esso, dal misero
stato di natura in cui ognuno pensa a sé
ci hanno condotti al felicissimo della vita
comune, in cui ognuno pensa per tutti e fatica:
ed in questo stato non per principio della
sola virtù e pietà, che ove si tratti d'intere
nazioni sono legami che soli non bastano,
ma per fine di privato interesse e di comodità
di ciascuno ci manteniamo. Vidi le monete
essere i bullettini, le quali in somma sono
una rappresentanza di credito che uno ha
sulla società, per cagione di fatiche per
essa sostenute o da lui, o da altri che a
lui le ha donate. Non vi sono, è vero, fra
noi que' magazzini comuni, ma ad essi corrispondono
le private botteghe, e con assai miglior
consiglio i bullettini, cioè le monete, non
si danno e prendono da' generali custodi,
ma ognuno delle sue fatiche ha cura; e per
empir la sua bottega dà la moneta con cui
negozia, e ripigliasela vendendo. Così non
v'è bisogno della virtù o fede de' fondachieri,
né della vigilanza del principe, perché non
si dissipino i bullettini; ma ognuno si astiene
dal dargli disponendo solo del suo, e donando
la moneta i suoi sudori dona: e così quell'inconveniente
che non è abbastanza frenato dalla virtù
nel primo stato supposto, lo è in questo
presente perfettamente emendato dall'interesse
proprio, la forza del quale è sempre negli
animi umani anche viziosi inespugnabile.
E certamente siccome le società ristrette
e scelte in cui gli uomini non nascono, ma
si ricevono adulti, sono felicissime, se
si fondano sulla sola virtù, così le nazioni
e i regni avranno governo ruinoso e vacillante,
se la virtù che lo sostiene non sarà coll'interesse
mondano congiunta; non potendosi i vasti
corpi da' cattivi germi che vi nascono purgar
pienamente.
Io m'accorsi ancora che que' bullettini dati
al principe, per cui conveniva a tutti lasciar
qualche porzione di fatiche gratis, erano
i dazi e i tributi: non essendo questi altro
che una parte delle fatiche di tutti messa
in comune e ridotta in moneta, la quale il
principe distribuisce, e questi sono i salari
e le spese ch'egli fa. In fine ogn'incommodo
che i bullettini di qualunque materia si
facessero aveano, gli ha la moneta di metallo
emendati. In lei la qualità, conio e struttura
assicura dalla frode de' privati, e la intrinseca
valuta dall'abuso che mai ne potesse fare
il principe; essendocché se la materia non
contenesse tutto il valore che ha la moneta,
il principe potria stampare un numero eccessivo
di bullettini; e questo solo dubbio ch'egli
potesse farlo basta a toglierne o diminuirne
il prezzo, e troncarne il corso. Ma la materia
della moneta altri che Dio non può moltiplicarla,
ed a volerla scavare o far venire d'altronde
vi corre tanta spesa, quanto ella poi vale,
e così non v'è guadagno ad accrescerla: e
questa è la grandissima importanza che la
moneta sia fatta d'un genere che tutto il
valore lo abbia naturale ed intrinseco, e
non ideale.
Frattanto, senza ch'io più mi allunghi, sviluppino
i miei lettori queste considerazioni, e vi
troveranno entro una bellissima cognizione
della costituzione delle società, de' contratti
e delle monete; e rovesciando in sintetico
questo metodo analitico, si avrà la migliore
dimostrazione de' vantaggi della moneta,
la quale essendo stata da molti autori esaltata,
e da infinitamente più ingiuriata con atroci
villanie, da niuno ho veduto che fosse in
maniera comprensibile dimostrata qual ella
è utile ed eccellente. Riserbo ora al seguente
capo parlare della comune misura delle cose,
l'utilità della quale in questo capo si è
dimostrata: ma resta a far conoscere quali
difetti abbia con sé l'esser ella situata
nella moneta.
CAPO SECONDO
Della natura della moneta in quanto ella
è comune misura de' prezzi; e delle monete
immaginarie e di conto.
Avendo dimostrata quale sia e quale uso naturalmente
presti la moneta allor ch'ella compra, ed
equivale a tutte le altre cose, vengo a dire
di lei "come d'una regola della proporzione
che hanno le cose tutte a' bisogni della
vita", che è quel che dicesi, con una
voce sola, prezzo delle cose; e perché più
ordinariamente si apprezzano le merci con
monete immaginarie, o di conto, dirò di queste
ancora.
Dicesi moneta immaginaria quella che non
ha un pezzo di metallo intero che le corrisponda
per appunto in valore. Così il ducato romano
è divenuto oggi moneta ideale, perché non
zeccandosi più moneta che contenga dieci
paoli d'argento, il ducato non si trova più
in piazza corrente, ma solo da' curiosi si
conserva. Tale è la nostra oncia, la lira
sterlina inglese, la lira di conto in Francia,
il ducato d'oro di Camera, il ducato di banco
veneziano, e moltissime altre monete. Per
ordinario questa istessa moneta ideale suol
essere di conto, cioè a dire con essa si
stipula, si contrae e si valuta ogni cosa:
il che è nato da una medesima cagione, che
le monete le quali oggi sono ideali, sono
le più antiche d'ogni nazione, e tutte furono
un tempo reali; e perché reali erano, con
esse si contava: ma avendo i principi variata
la mole e la forma delle monete, sono divenute
quelle immaginarie, e solo nel conto si sono
ritenute per maggiore facilità. In alcuni
paesi, come in Francia, con editti severi
de' sovrani è stato varie volte regolato
che solo con alcune monete si potesse stipulare
e contrarre, e non con altre; e questa cosa
è stata ivi creduta importantissima: ma quasi
tutte le nazioni, come è fra noi, non hanno
legge che le costringa: l'uso sì bene ha
introdotto che si computi con tre monete
diverse, delle quali l'una contenga l'altra
un numero di volte intero, e senza frazione;
e sono questi numeri quasi da per tutto il
venti, e il dodici. Così noi computiamo in
ducati, e tarì, che sono la quinta parte
di essi, ed ambedue sono monete d'argento
reali; e grana che sono la ventesima parte
del tarì, e sono di rame, che poi dividiamo
in dodici parti, dette cavalli dall'antico
impronto che ebbe questa moneta de' re aragonesi,
ed oggi è divenuta immaginaria, non battendosene
più per l'eccessiva piccolezza.
Ora per ragionare più minutamente sulle monete
di conto e sulle ideali, e della loro utilità,
dico come egli è da' stabilirsi per assioma
che, quando il prezzo d'una cosa, o sia la
sua proporzione con le altre si cambia proporzionatamente
con tutte, è segno evidente che il valore
di questa sola, e non di tutte le altre si
è cambiato. Dunque se un'oncia d'oro puro
valendo, o sia essendo eguale a dieci tumoli
di grano, a quindici barili di vino, e a
dodici staia d'olio, si cambiasse poi questa
proporzione, sicché un'oncia d' oro valesse
venti tumoli di grano, cinquanta barili di
vino, ventiquattro staia d'olio, è certo
che l'oro solo è alzato di prezzo, e non
si sono gli altri generi sbassati: perché
se fosse il solo grano sbassato, si vedrebbe
sì valere venti tumoli un' oncia d'oro, ma
il vino e l'olio non avrebbero cambiato il
loro prezzo. Né si può dire che tutti tre
siano sbassati; perché una così generale
abbondanza in tutto è cosa tanto rara, che
si può avere per impossibile. Dunque bisogna
concludere che quando tutto incarisce, e
non è questo un momentaneo alzamento, né
diseguale (perché le guerre, le carestie
e le calamità è vero che producono incarimento,
ma questo non è di molti anni, né proporzionale
in tutte le cose), la moneta è quella che
è avvilita; e quando ogni cosa avvilisce,
è la moneta incarita.
Questa conseguenza la reca necessariamente
con sé l'essere la moneta la comune misura
di tutto; e certamente non è questo senza
incommodo, ed è anzi come io dimostrerò di
gravi abbagli cagione; ma a volergli evitare
bisognerebbe trovare una comune misura che
non soffrisse movimento nessuno: però questa
è più facile desiderare, che poterla fralle
umane cose rinvenire. Niente è da sperar
meno in questo mondo che una perpetua stabilità
e fermezza; perché questa ripugna intieramente
agli ordini tutti e al genio istesso della
natura, siccome per contrario niente è più
uniforme all'indole di lei che quel costante
ritorno de' medesimi accidenti. che in un
perpetuo circolo ora più, ora meno tardo
si ravvolgono infra certi limiti in sé medesimi,
e quell'infinito che non hanno nella progressione,
lo hanno nel giro: perciò una misura costante
ed immutabile non occorre sperarla, né ricercarla.
A lei si è sostituita una lenta mutazione,
e meno sensibile. Or questa disparità corre
tra la moneta e il grano, ché il grano soffre
mutazioni grandissime nel suo prezzo in assai
corto spazio di tempo; ma per lo costante
periodo delle naturali vicende si può quasi
con certezza affirmare che prendendo il termine
medio di venti anni di raccolte d'oggi dì,
e quello di altrettanti anni al tempo di
Augusto (data la medesima popolazione e coltivazione
del grano), nel nostro Regno il valore del
grano in tempi così remoti sia per appunto
lo stesso. Il metallo al contrario in questo
tempo ha sofferta grandissima varietà, talché
una libbra d'oro a' tempi d'Augusto non eguagliavasi
a tanto grano quanto ora, ma ad assai maggior
quantità; sicché, siccome il prezzo del grano
si misura sull'oro, così il prezzo di questo
bisogna rettificarlo nelle grandi distanze
de' secoli sul grano. Il suo periodo l'oro
l'avrà, perché tutto quel che è in natura,
lo ha, ma quale, e quanto e' sia, per la
vasta distanza di secoli che forse richiede
né si sa, né giova il volerlo sapere. Adunque,
come io ho detto di sopra, una comune misura,
che ha lenta variazione, si può usare quasi
egualmente bene che la stabile, dappoiché
questa non v'è. Sono però certuni, anzi essi
sono molti e savi uomini, i quali sonosi
persuasi che la moneta immaginaria sia una
stabile e ferma misura, e perciò la esaltano
e glorificano, e di lei sola vorrebbero che
si facesse uso ne' conti. Altri forse più
sensatamente credono che il rame sia quello
che di tutti i metalli, siccome è il più
basso, così soggiaccia a minori vicende,
non crescendone mai l'avidità o il lusso,
né la premura di scavarlo: le quali materie
sono degne della nostra riflessione. Io cercherò
adunque sapere se vi sia maggiore stabilità
nella moneta immaginaria o nella reale: poi
se vi sia utilità in usare solo certe monete
nel conto, e se debbano esser queste reali
o immaginarie: finalmente sarà giovevolissimo
scoprire quali e quanti inganni e ingiuste
doglianze produca la falsa opinione del popolo,
che crede la moneta una misura immutabile,
e i movimenti suoi non sente.
Se la moneta immaginaria fosse un nome assoluto
di un numero, esprimente un'idea di prezzo,
e questa idea fosse fissa nelle menti nostre,
e tanto da ogni cosa distaccata che a' movimenti
di nessuna non si turbasse, certamente sarebbe
invariabile e costante: ma tale ella non
è per essere giammai; perocché, per esempio,
l'oncia nostra è moneta immaginaria, ma essendo
ella determinata a valere sei ducati, ed
il ducato essendo moneta reale e mutabile,
secondo si muta il ducato, si muta anche
il prezzo dell' oncia, e così veramente è
avvenuto. Noi leggiamo che Tommaso degli
Aquini dell'ordine de' Predicatori, poi per
le sue virtuose opere e per la sovrumana
dottrina dichiarato santo e d'angelica sapienza,
avea dal re di Napoli per lo suo mantenimento
alle pubbliche scuole qui un'oncia il mese;
e questa mercede era allora riputata grande:
e pure sei ducati oggidì il mese è un povero
salario e proprio solo ad uno staffiere,
sicché non sei, ma appena settanta ducati
nostri corrispondono in verità al prezzo
dell'antica oncia. Né alle monete immaginarie
giova che non si mutino nell'alterarsi il
prezzo alle reali, o nel cambiarsene la lega
e il peso nella nuova zecca. Questo è il
comune inganno di moltissimi, i quali credono
che, non essendo soggetta la moneta immaginaria
a queste vicende, resti perciò immutabile:
ma siccome è falso che queste sole cose mutino
il prezzo alla moneta, così è erronea questa
opinione. La vera e principale mutazione
ha origine dall'abbondanza maggiore o minore
del metallo che corre in un paese. Vero è
che questo cambiamento non apparisce in sulle
monete, perché se i principi non le mutano,
esse non si mutano mai; ma appare su i prezzi
delle robe tutte, e questo torna allo stesso.
Il prezzo è una ragione; la ragione per mutarsi
non richiede se non che uno de' termini si
cambi; se non si cambia la moneta, basta
cambiarsi il prezzo di quel ch'ella misura.
Così se un principe volesse mutare le misure
delle lunghezze che usansi nel suo regno
senza farlo sentire, basterebbe ch'egli ordinasse
che la statura de' suoi soldati, la quale
era fissa ai sei palmi, sia detta e riputata
di dodici palmi, e così proporzionatamente
ogni altra misura si aggiustasse; egli avrebbe
diminuito per metà il palmo senza mostrar
d'averlo toccato. Quel che non fa il principe
su i prezzi delle merci, lo fa la moltitudine,
e con giustizia; essendo il prezzo una misura
de' sudori della gente, a lei si conviene
il disporne; e se ad alcuna cosa pone il
prezzo il principe, egli è obbligato, se
vuole esser ubbidito, ad uniformarsi alle
misure del popolo, altrimenti o non si sta
a quel prezzo, o si dismette l'industria,
e nell'un modo o nell'altro il principe non
consegue il suo fine. Dunque per conchiudere,
questa moneta invariabile è un sogno, una
frenesia: ogni nuova miniera che si scuopre
più ricca, senz'altro indugio varia tutte
le misure, non mostrando di toccar queste,
ma mutando il prezzo alle cose misurate.
Qui forse taluno dirà che, se il metallo
ha l'incommodo d'aver un prezzo variabile,
si dovrebbe usare un altro genere meno incostante.
E per verità molte volte ho pensato s'e'
vi sia o no, e veggo che nella natura non
evvi alcuna produzione e materia, tolti i
quattro elementi, che sia così necessaria
all'uomo, che non si trovino generazioni
intere di popoli privi dell'uso e della cognizione
ancora di loro: e appunto gli elementi soli
per la loro abbondanza non hanno prezzo.
Vero è che ogni nazione ha un certo genere
di comestibile che forma il suo primario
vitto, ed è, come noi diciamo, il suo grano.
Così il riso in Oriente, il maitz in America,
il pesce secco presso al Polo; e su questo
cibo pare che si possa prendendo il termine
mezzo delle raccolte formare una stabile
misura; ma riguardando poi che il prezzo
di essi si regge sulla varia coltivazione,
e questa dal vario popolo deriva, ognun vede
che non si può. Veramente nel nostro secolo,
in cui il mondo ha proceduto tanto innanzi
nel cammino della luce e della verità, che
pare che a qualche gran termine s'accosti
e non ne sia lontano, i fisici sono pervenuti
a trovare l'immutabile misura e la maravigliosa
unione fra il tempo, lo spazio e il moto,
le tre grandi misure del tutto; avendo ragguagliato
il tempo del corso del sole, e trovato modo
di dividerlo in particelle uguali, le quali
fanno misurare dalle oscillazioni del pendolo,
e dalla lunghezza di esso già ne' vari siti
della terra determinata; e dalla velocità
delle oscillazioni ritrovata sonosi queste
tre grandi misure con perpetuo vincolo congiunte
insieme: ma il prezzo delle cose, cioè a
dire la proporzione loro al nostro bisogno,
non ha ancora misura fissa. Forse si troverà.
Io per me credo che ella sia l'uomo istesso;
perciocché non vi è cosa dopo gli elementi
più necessaria all'uomo che l'uomo. e dalla
varia quantità degli uomini dipende il prezzo
di tutto. È ben vero che quasi infinita distanza
è tra uomo ed uomo; ma se il calcolo giungerà
a trovarvi un termine mezzo, questo sarà
certo la misura vera, mentre l'uomo fu, è,
e sarà sempre e in ogni parte il medesimo.
Questa io credo sia la vera cagione per cui
i popoli della costa della Guinea si crede
che abbiano una misura costante ed ideale.
Essi numerano colle macute, che vagliono
dieci unità, e il cento; e per apprezzare
costumano far così. Fissano il prezzo della
loro mercanzia, che suol essere un uomo negro,
a un dato numero di macute; per esempio uno
schiavo di sotto a trent'anni, sano e perfetto,
che si dice pièce d'Inde, a 305 macute: poi
cominciano ad apprezzare quel che in cambio
desiderano da' nostri, dicendo che un coltello
vale due macute, uno schioppo trenta, dieci
libbre di polvere trenta, e così fin tanto
che giungano a 305 macute; ed allora se il
mercante europeo si contenta siegue il cambio.
Così si conta a Loango sulla costa d'Angola;
a Malimbo e Cabindo usansi nel modo istesso
le pezze, ognuna delle quali corrisponde
a 30 macute. Credono i nostri mercanti che
queste voci sieno puri numeri astratti, e
perciò comodissimi; e così pensa il Savary,
e l'autore del libro dello Spirito delle
leggi: ma a me pare impossibile l'introduzione
presso un popolo di questo numero astratto,
e credo fermamente che da per tutto la moneta
con cui si paga è quella con cui si conta.
Il vero è, dunque, ch'essendo la principal
loro mercanzia gli schiavi, la loro moneta
è l'uomo: moneta invariabile e di facile
computo, quando in lui si valutino, come
essi fanno, le sole qualità del corpo. L'uomo
è colle macute apprezzato quasi fossero suddivisioni
del suo prezzo: ed ivi si vede per esperienza
la più costante valuta esser quella dell'uomo.
Può essere che in un popolo cessi il costume
d'aver servi, ma fin ch'ei l'abbia, il prezzo
loro sarà il meno mutabile.
Ora ripigliando il nostro istituto, e discendendo
a ragionare sulle monete di conto, posso
credere d'aver rischiarito quanto sia inutile
(per la mancanza di moneta stabile) determinare
con legge le monete di conto. E veramente
se in ogni stato ben regolato tutte le monete
sono d'una eguale bontà, e la proporzione
fra i tre metalli è giustamente stabilita,
a nulla monta come e con che si conti. Se
le monete sono diseguali, ma tutte hanno
libero corso, si stipulerà con le buone,
ma ognuno procurerà pagare con le cattive,
e così le buone escono fuori dello stato;
e se si ordina che con quelle istesse monete
si commerci con cui si stipula, questo è
lo stesso che supprimer le monete cattive;
ed allora non battendosi le nuove, resta
lo stato senza moneta: e sempre questo stabilir
le monete di conto resta inutile e vano.
Che se il legislatore fa questo statuto per
aver comodità di cambiar le valute alle monete
che non son di conto, egli si prepara male
ad una malissima operazione e calamitosa;
mentre siccome si può dar caso in cui l'alzar
tutta la moneta, o tutta quella d'uno stesso
metallo, non sia dannoso, così non vi è mai
caso in cui il mutarlo ad una parte sola
delle monete d'un metallo possa non nuocere,
nonché giovare. Vero è che la moneta d'oro
non essendo quasi presso nessuna nazione
adoperata nel conto, si crederà che questo
metallo tutto si possa alzare, senza toccare
il conto; ma a ciò fare (oltrecché l'oro
sopra ogni altra moneta non si dee mai toccare)
non occorre far legge, perché quando l'autorità
suprema alza la moneta, se ella vuol trar
profitto da quel ch'ha fatto, conviene che
sia la prima a violarla. Ella dee essersi
obbligata nella moneta istessa in cui ha
imposto a' Suoi sudditi che contassero, e
queste non le avendo toccate, dovrà coll'altre
alzate di prezzo o rifuse pagare, e così
quella legge, ch'ella la prima ha infranta,
da niuno sarà eseguita; e que' mali ne seguiranno
che, ove dell'alzamento si parlerà, saranno
a lungo dichiarati.
La verità di questo si conosce meditando
sugli accidenti della Francia. Nella celebre
adunanza degli Stati a Blois il 1577 da Errico
III fu proibito l'antico conto in lire, soldi
e denari, e sostituito quello dello scudo
d'oro. I motivi dell'editto erano stati in
una rappresentanza della Corte delle monete
esposti, ed approvati dal re, e sono i seguenti:
I. Che si era eccessivamente accresciuto
il prezzo delle mercanzie. II. Che si ricevea
meno moneta da' forestieri che compravano
i generi prodotti dalla Francia. III. Che
alcune monete, di cui non era alzato il prezzo
nell'alzamento fatto, erano state da' negozianti
stranieri aumentate. IV. Che negli affitti
e censi stipulati in moneta, si perdea molto
della vera rendita. V. Che il re perdea molto
sulle sue rendite.
Quello che un uomo savio può su questo editto
riflettere dà lume all'intiera scienza della
moneta. In I si vede che questa rappresentanza
espone i danni fatti dall'alzamento: ma questo
non ha né può avere connessione veruna colla
moneta di conto, ed era più ragionevole domandare
uno sbassamento, e non quel che nell'editto
s'impose. Né è da dire che si chiese il computo
in moneta invariabile, e così a' danni dell'alzamento
si chiedea quasi tacitamente riparo; perché
se questa moneta costante non v'è, si domandò
una chimera; e la nuova legge d'Errico IV
che abolì questa, mostra che l'intento non
si era ottenuto. In oltre tutti credono che
la immaginaria sia più stabile della moneta
reale; e pure la Corte delle monete domandò
una legge da trasportare il conto di lire
immaginarie in ducati reali per averlo così
invariabile. Cosa stravagante al certo. Né
è meno strano che si cerchi aver stabilità
e sicurezza per mezzo di editti ed ordinanze,
che sono appunto quelle che la tolgono: se
ella si volea cercare, si potea rinvenire
nella natura delle cose, e non altrove.
In secondo luogo anche le doglianze contro
l'alzamento non sono tutte vere. La prima,
ch'è più generale, è degna di riso, essendo
falso che dopo l'alzamento incariscano le
robe. Incariscono di voce e non di fatto,
perché l'alzamento non è che una mutazione
di nomi; e que' nomi che muta la moneta,
gli mutano i prezzi delle merci del pari.
Si rassomiglia questo a un uomo che dovendo
pagar cento ducati fosse obbligato a pagarne
duecento mezzi, e si dolesse che ove prima
sentiva il suono del numero cento all'orecchio,
ora sente l'altro più spaventevole di duecento.
In oltre è per evidenza certo che quando
si compra caro, si vende anche caro, sicché
il lagnarsi de' prezzi alzati era un lagnarsi
che le cose si vendeano bene.
Né è vero che i forestieri vi guadagnino
(che è il terzo capo di lamento); perché
gli stranieri non essendo sovrani negli stati
altrui, soggiacciono essi ai prezzi posti
da' nazionali ed alla medesima mutazione
di nome; e in somma tanto gli uni che gli
altri sotto qualunque denominazione lo stesso
peso di metallo debbono dare. Ma di questo
si dirà in appresso: per ora mi basti per
sollevar col riso l'animo di chi legge, il
fargli avvertire che l'alzamento de' prezzi
va direttamente a distruggere ogni effetto
dell'alzamento della moneta; e mantenendo
la stessa realità, muta le voci. Quando dunque
i Francesi dolevansi d'ogni cosa incarita,
si dolevano che l'alzamento tanto aborrito
non avesse avuto il suo effetto, onde pare
che ne desiderassero un altro: e certamente
se le rappresentanze di pochi potessero render
colpevole una nazione, in pena l'avrebbero
meritato.
Neppure in quarto luogo era giusto motivo
di lamento che alcune monete, lasciate dalle
leggi non alterate, lo erano state dal popolo.
I. Perché è impossibile che questo provenisse
da' forestieri, i quali in Francia, regno
per natura opulentissimo, hanno assai piccolo
commercio. II. Perché, se così si era fatto,
bisogna che così la natura il chiedesse;
essendo vera massima, e dall'esperienza di
tutti i secoli confirmata, che le operazioni
de' popoli sono sempre rivolte a seguire
il corso naturale e giusto, o a discostarsene
il meno che sia possibile; siccome per contrario
le costituzioni di chi dee ben governare
alle volte lo angustiano e lo violentano;
e se elleno avessero tanta forza in sé, quanto
hanno di nocumento, sarebbero capaci di disordinare
uno stato. Ma la Provvidenza ha data alla
natura nelle sue stesse leggi una forza infinita
di conservarsi, che distrugge ogni opera
che se le opponga contro, e la disfà: e questa
forza nella società si potrebbe ben chiamare
una elasticità morale, di cui altrove parlerò;
dove anche si vedrà se sia vero quel che
in ultimo luogo la rappresentanza contiene;
e si vedrà che o non è vero, o non produce
danno all'intiero stato. Frattanto si può
conchiudere che de' mali in essa esposti,
falsi o veri che sieno, niuno ve n'è che
col fissar la moneta di conto si possa sanare.
Passiamo ora all'editto di Errico IV del
1602 in cui quello del 1577 si annullò, e
si restituirono le lire, i soldi e i danari.
La ragione di tal cambiamento fu perché quell'altro
conto ((era cagione della spesa e superfluità
che si osservava in ogni cosa, e del loro
incarimento)): queste sono le parole dell'editto;
e perciò con termini d'imprecazione e d'abborrimento
si scaccia e si maledice il conto in ducati
sostituendovi l'antico. Questa ordinanza
veramente altro non dimostra se non che coloro
i quali erano allora in Francia da su, non
erano tutti da più degli altri. Quanto in
essa si dice non può venire che da chi intorno
all'arte del governo viva nelle tenebre della
maggiore oscurità. La superflnità e la spesa
sontuosa sono le fedeli compagne della pace
e del prospero stato, e l'incarir le merci
è il segno infallibile del fiorire d'una
nazione; e tutto questo era dovuto alla sapienza
di quel virtuosissimo re. Dunque per dir
tutto in uno, la Corte delle monete fece
fare ad Errico IV un editto contro il suo
buon governo; e le voci inconsiderate della
moltitudine lo spinsero a dar rimedio al
bene infinito ch'egli facea alla Francia,
la quale perciò come suo restauratore e padre
meritamente l'onora. Buono è che non fu meno
frivolo il rimedio di quel che fosse sognato
il male: e che così fosse si conobbe, perché
la Francia crescendo sempre in ricchezze
vide ognora più crescere la perseguitata
superfluità delle spese.
Che se alcuno mi chiede qual mai potesse
essere l'apparente ragione di questo editto,
io gli risponderò che dopo avervi meditato
appena la trovo; ma certo fu una di queste.
In primo io osservo che quando uno si duole,
rare volte ne indovina la cagione e sempre
ne incolpa quell'ultimo avvenimento che gli
è più fresco nella memoria. Forse così i
Francesi, sovvenendosi ancora dell'antico
conto in lire, e della premura grandissima
con cui Errico III l'avea proibito, né sentendosi
del presente stato contenti (come è la natura
de' popoli, pronta a sperare più di quel
che si debba, ed a soffrire meno di quanto
è necessario), attribuirono al contol ogni
colpa; ed in tanto ardore di vederlo annullato
si accesero, che il re fu costretto a render
sazie le loro brame con una mutazione che
in sé non conteneva niente d'utile, né di
danno. Può essere in secondo luogo che allora
si credesse quel che da molti savi ho udito
anche io replicare, che sia un indizio delle
ricchezze d'una nazione la grande valuta
della moneta in cui numera. E questo io credo
derivi dall'essere al nostro tempo gl'Inglesi
ricchissimi: e poiché essi numerano con lire
sterline, che è la maggior moneta di conto
che usisi da alcuna nazione, da questo incontro
accidentale se n'è fatta una massima generale;
per conoscer la falsità della quale basta
rivolgersi agli esempli della storia, e si
vedrà che la Francia, regno potentissimo,
ha sempre contato con lire, ch'è moneta assai
bassa; e così Genova e Venezia: l'Olanda
con fiorini, ma quel che è più la Spagna,
in quel tempo istesso che era come la maggiore
così la più ricca potenza, contava co' piccolissimi
maravedis. Né questa piccolezza di moneta
contribuisce punto alla parsimonia; perché
ove bisognino prezzi grandi, il Francese
anche oggi usa i luigi d'oro, la Spagna le
pezze e le doble, Firenze i fiorini, Genova
e Venezia i zecchini, la Germania i tallari
e gli ungheri, la Moscovia i rubli. E questo
si conosce anche più da quello che avvenne
all'antica Roma. Ella usò la bassissima moneta
de' sesterzi al conto, né mai la cambiò;
ma dappoiché salì in tanta potenza e ricchezze,
che sempre le migliaia de' sesterzi si sentivano,
si tacque la voce mille, e si trovò in un
tratto in uso la più grossa moneta di conto
che mai altrove siasi usata, e che quasi
corrisponde a venticinque ducati nostri.
Basti questo della moneta immaginaria e di
conto: dirò ora degli errori che produce
l'insensibile mutazione della misura delle
cose, o sia del denaro.
Di grandissima riflessione è degno quello
che io son ora per dire; e se alla vastità
del soggetto non potessi corrispondere, e
sotto al peso di lui vacillassi, mi lusingo
almeno che i miei lettori potranno, dal luogo
ove io mi arresto, con breve cammino avanzarlo
fino al termine suo.
Un grande inimico delle buone operazioni
del principe sono le grida del suo popolo;
non perché sieno sempre ingiuste, ma perché
non sono sempre da ascoltare: non altrimenti
che i gemiti dell'infermo non debbono sempre
esser di regola a chi lo cura, essendo che
alle volte non è il male là ove duole, alle
volte il rimedio stesso è doloroso. Perciò
le supreme potestà, alle quali è commessa
la medicina de' corpi politici, debbono diligentemente
investigare quale origine abbiano le querele
de' sudditi, e quale ne sia la cura opportuna.
Ed acciocché in quelle che s'appartengono
alla moneta non prendano errore, giova dimostrare
quel che l'esperienza ci fa spesso conoscere,
che non sapendosi da tutti che le monete
non sono invariabile misura, nascono inconsiderati
discorsi ne' popoli, a' quali dando orecchio
i magistrati, si promulgano leggi e statuti,
che quanto sono poco pesati, tanto restano
(perché alla natura s'oppongono) conculcati
o scherniti. A quattro si riducono i principali
abbagli: I. Mentre un paese s'arricchisce,
s'odono lagnanze di carestia e di miseria
(le quali cose però non si veggono). II.
S'invidiano le nazioni vicine, i tempi antichi,
i quali in confronto meritano disprezzo e
compassione. III. Si stima che il principe
accresca dazi quando alle volte egli altro
non fa che pareggiargli agli antichi diminuiti.
IV. Si biasima quel lusso, quella pigrizia,
quelle ignobili arti che si dovrebbero chiamare
opulenza, mansuetu dine, industria.
Siccome molti savi hanno avvertito, l'uomo
è per natura animale insaziabile; e perciò
querulo sempre e fastidioso. Da questo viene
che delle cose prende sempre a guardare il
cattivo aspetto, ed ora la Provvidenza, ora
i suoi simili, ora sé stesso incolpa e biasima,
e sempre del suo stato, qualunque siesi,
si dimostra scontento. Vero è che i suoi
fatti non corrispondono alle sue voci, e
che bisogna conoscerlo da' fatti, e non dalle
parole: perciò io stabilisco questa massima
fondamentale, che l'uomo quanto è spesso
ingiusto, irragionevole ed inconsiderato
nel dire, tanto è regolato ed accorto nelle
operazioni, le quali, quasi non se ne avvedendo
egli stesso, rare volte si discostano dalla
ragione e dalla verità. Per conoscere ora
quale sia il miglior paese per vivere, non
bisogna attender punto alle voci d'alcuno,
ma guardar dove gli uomini vanno, lasciando
la patria, a stabilirsi, e dove più prole
generano, e quello è desso. E sebbene questi
ospiti piangessero le terre lasciate (come
fra noi molti se n'odono), i padri deplorassero
la povertà de' loro figliuoli; sin tanto
che non si veggano ritornarsene, o starsi
senza moglie, non bisogna prestar loro fede.
Nemmeno bisogna prestarla alle querele di
miseria. Quando in un paese cresce l'industria,
egli diviene più creditore che debitore a'
paesi convicini; onde è che dopo essersi
provveduto delle loro merci, tira a sé per
le soprappiù il loro denaro. Cresciuto questo,
e variata la proporzione, tutto appare incarito;
ma se incariscono le merci, crescono del
pari le mercedi ed ogni altro guadagno. Di
questo incarire tutti si lagnano come di
carestia, né dell'aumento e maggior facilità
degli acquisti (per esser l'uomo d'avidità
incontentabile) mostrano d'accorgersi o rallegrarsi;
solo della spesa si dolgono, quasi ella pervenisse
a' forestieri e non agli stessi concittadini.
E queste voci, che veramente non sono di
tutto il popolo, ma di que' soli che credendo
saper più degli altri, più parlano, ed a
coloro che non sanno, a parlar come essi
insegnano, spesso hanno potuto tanto sugli
animi di chi governa, che ne vengono fuori
editti e leggi contro la prosperità, per
promuovere la miseria.
Mi sovviene d'avere spesso udita gente che,
volendo esaltar Roma sopra Napoli, tutto
lo scopo del suo discorso lo rivolgea a dimostrare
che i prezzi d'ogni cosa erano minori ivi
che qui (nel che non entro a vedere s'avessero
ragione o no), né s'avvedeano che avrebbero,
ciò dimostrato, l'inferiorità di Roma discoperta.
Si possono costoro far restar muti chiedendo
loro se sappiano, che nelle città della Marca
e degli Abruzzi ogni genere di cose è assai
più mercatol che nelle due capitali; e se
da questo si può argumentando conchiudere
che sieno da anteporsi le ville di quelle
regioni a Napoli e a Roma; poiché comunque
si dica, resta sempre Roma mezza proporzionale
tra Napoli e gli Abruzzi. E pure l'errore
di costoro è diffuso tanto, che anche negli
animi de' più intendenti si nutre; non diverso
molto da quello d'ammirare in Roma l'abbondanza
de' latticini, de' carcioffi e della cacciagione,
quasi i prati inculti, i frutti delle spine
e gli animali delle boscaglie facessero onore
alle campagne d'una capitale.
Bisogna dunque conchiudere per contrario,
che il maggior valore delle cose è la scorta
più sicura per conoscere ove sieno le maggiori
ricchezze: e poiché queste le recano gli
uomini secoloro, e gli uomini vanno ove meglio
si vive, così si può riconoscere ove sia
il miglior governo e la di lui figliuola,
la felicità. È pregio adunque per Londra
e Parigi, che ivi tutto vada più caro, e
queste città non diminuiscono perciò: è pregio
questo che dimostra il nostro secolo migliore
de' passati.
Ma a voler discoprire onde provenga questo
comune inganno, riguardisi che ogni calamità
fa incarire il prezzo alle cose; ma con questa
differenza, che l'uno incarimento asciuga
il denaro tutto d'un luogo, l'altro l'accresce.
La ragione è che nelle calamità (le quali
tutte non sono altro che la mancanza delle
produzioni natie) un paese più prende che
non dà, e il denaro perciò va via; nelle
prosperità la maggiore industria fa entrar
danaro, ed è utile allora il prezzo caro,
perché più danaro viene. Così le manifatture
d'Inghilterra, per la loro perfezione essendo
da tutti a gara comprate, tirano in Inghilterra
il danaro. Or se là si vivesse con meno spesa,
elleno valerebbero meno, e meno danaro attirerebbero.
Dunque è bene che in Inghilterra si viva
caro.
A voler ora discernere l'incarire delle calamità
da quello della prosperità, che è conoscenza
utilissima a chi governa, eccone i segni.
L'incarimento prodotto dalla carestia è di
corta durata, e vien seguito da un grande
avvilimento; quello della prosperità va aumentando
sempre, e dura.l La ragione di questo è,
che negli anni in cui la guerra, o la peste,
o l'intemperie delle stagioni toglie la raccolta,
il numero de' venditori scema in paragone
de' compratori: dunque i prezzi crescono,
e molti s'impoveriscono. Impoveriti che sono
diviene loro impossibile comprar caro alcuna
cosa e, o se ne stanno di senza, o partono
dal paese, e in ogni modo si scemano i compratori;
e così i venditori, che hanno anche essi
bisogno e talora grandissimo di vendere,
vendono a quel prezzo che trovano, ed ecco
che sbassano i prezzi; ma la povertà e la
miseria dura. In oltre quando un paese non
raccoglie frutti propri, vi si hanno a portar
da fuori, e questa spesa s'ha da pagar con
danaro che va via; dopo di che ogni cosa
avvilisce, essendo per la sua rarità incarita
la moneta.
Ma nella prosperità l'alzarsi i prezzi nasce
dal corso maggiore del denaro; e questo non
essendo disgiunto dall'abbondanza, non solo
dura, ma trae da fuori per la speranza del
guadagno la gente: questa reca con sé nuove
ricchezze, e vieppiù cresce il prezzo per
l'abbondanza della moneta. E qui pare che
cada in acconcio spiegare la cagione di due
avvenimenti, che non sono rari, benché sembrino
strani. Il primo è quello che si osservò
non è molti anni fra noi. Erasi raccolto
poco grano quell'anno, e tutti n'attendeano
il prezzo altissimo: ma essendosi disgraziatamente
guaste le ulive, il grano in vece di più
incarire sbassò il suo prezzo e sempre così
si mantenne, mentre udivansi gemiti e querele
in ogni lato di carestia. La ragione di così
inopinato accidente era che, mancato un principal
capo d'industria, infinito numero di gente
non trovò da lavorare sugli ulivi, e restò
poverissima: il povero non può, quando anche
il volesse, pagar care le cose; onde fu d'uopo
a' venditori del grano, che non erano men
bisognosi, adattarsi al potere de' compratori,
non alla scarsa ricolta. Un contrario accidente
si è sperimentato in questo anno, che è stato
straordinariamente ubertoso in tutto. Si
aspettavano prezzi vilissimi, ma non si sono
ancora veduti: e questo proviene dalla stessa
abbondanza, che ha cacciato via il bisogno,
provvedendo tutti. Chi non ha bisogno non
vende, e serba a miglior tempo, e quando
non v'è folla di vendere, i prezzi non vanno
giù. E così la carestia talvolta mena seco
il prezzo basso, e l'abbondanza il caro.
Ora per terminare io prego i miei concittadini
che, uniformandosi alla verità, non all'inganno
delle voci, si consuolino che la presenza
del proprio re abbia fra noi fatte incarire
stabilmente le cose, e quella sontuosità
di spese introdotta, che della opulenza e
del giro velocissimo del denaro è figliuola:
che riguardino non con invidia, ma con occhio
di disprezzo quel tempo infelice di provincia,
in cui i commestibili erano più vili perché
il denaro era assorbito dalla Corte lontana.
Prego poi istantemente coloro che curano
la nostra annona a non lasciarsi condurre
in errore dalle voci inconsiderate della
plebe, che contro sé medesima e i suoi pari
stolidamente freme, chiedendo una chimerica
grascia, che altro non è che povertà: né
vogliano, mettendo i prezzi bassi più del
convenevole, opprimere una innocente parte
del popolo a nutrirci impiegata, e i loro
moderati guadagni distruggendo ricondurci
la povertà e la fame col fare agli avari
risparmiar quel denaro, che ad altro non
è buono che a spendersi in discacciarla.
Il terzo errore è di questi già detti anche
più pernizioso, facendo ingiustamente accusare
il principe di tirannia. Si sente che ogni
dì egli accresce i dazi, e questo pare al
volgo oppressione e servitù, ma molte volte
è falso questo aumento. Ecco perché. L'imposizione
suol essere determinata in certa quantità
di denaro, proporzionata sempre al prezzo
della mercanzia e a i bisogni dello stato:
questi bisogni sono le mercedi che il sovrano
dà. Quando la moneta aumenta, si conviene
accrescere queste mercedi; e crescendo i
prezzi delle merci, non resta la medesima
proporzione fra il valor della roba e la
dogana di questa; e questo costringe il principe
ad accrescere sulla proporzione nuova i dazi,
s'egli non vuol fallire: ma questo non è
vero accrescere, è pareggiare. In tempo d'Alfonso
furono tutti i nostri antichi dazi aboliti,
e ridotti a 15 carlini a fuoco: oggi oltre
le gabelle pagansi 52 carlini a fuoco. Gli
sciocchi invidiano que' tempi, e del presente
si dolgono. Miseri che essi sono. Si può
dimostrare con evidenza che la moneta sia
oggi almeno sette volte di minor prezzo d'allora:
dunque que' 15 carlini sono sopra 100 d'oggi.
Or che meraviglia se a' dazi del fuoco si
sono aggiunte le dogane; senza questo, il
Regno non potrebbe sostenere le spese necessarie.
Tanto può l'insensibile mutazione del valore
intrinseco. E pure quanto fosse disteso nelle
menti di molti questo inganno, si conobbe
nel furioso tumulto della plebe del 1647
quando la moltitudine inconsideratamente
chiese che le imposizioni nuove s'abolissero;
e solo restassero quelle d'Alfonso I da Carlo
V confirmate. Né erano men colpevoli che
matti in una richiesta che conteneva il danno
e la ruina di que' medesimi che la domandavano.
Certamente le disavventure lacrimevoli di
questo misero Regno non nascevano allora
da' dazi, che a' veri bisogni della monarchia
spagnuola si somministravano, ma da troppo
diverse cagioni, e che ora non è tempo d'andare
enumerando. Ma poiché insensibilmente a dir
de' dazi sono pervenuto, benché questa parte
siasi da me in altra opera, che L'arte del
governo tutta comprende, appieno disputata;
pure non voglio ora trapassare senza dirne
quello che alla presente materia si confà.
Digressione su' dazi, loro natura, e perché
sieno alle volte dannosi.
Dazio è, una porzione degli averi de' privati,
che il principe prende, e poi torna a dare.
Or se questa si restituisse a que' medesimi
che la danno, quando anche fosse uguale a
tutto l'avere de' privati non nuocerebbe,
né gioverebbe ad alcuno: dunque il dazio
per sua natura né nuoce, né giova: ma se
il dazio non è renduto a coloro che l'hanno
pagato, ad alcuni nuoce, ad altri giova.
Or se coloro a cui si dà fossero la gente
dabbene d'un paese, resterebbero coil'uso
fatto de' dazi puniti tutti i cattivi, premiati
i buoni: dunque l'uso de' dazi può avere
in sé utilità somma ed infinita. Né la gravezza
interrompe questo vantaggio, ma anzi lo accresce:
perocché tanto diviene maggiore il premio
de' laboriosi e degli onesti, tanto più aspra
la pena degli oziosi, turbolenti ed indegni:
dunque non hanno male per grandezza i tributi.
Tutto il male loro sta in tre punti: o che
non sono universali, o che sono mal posti,
o male usati e distribuiti. Nel primo caso
non restano tutti gl'infingardi aggravati,
e manca il bastante premio a tutti i meritevoli,
e lo stato con maggiore incommodo porta minor
peso; non altrimenti che se ad un cavallo
voi sospendete la metà del suo giusto carico
sulle orecchie, e' si fermerà e caderà giù
per l'impotenza. Questa disparità è la più
frequente ne' dazi mal regolati, e fu ne'
governi de' secoli barbari comune. Possono
esser talora mal situati, ed interrompere
le industrie: e questo di quanto male sia
origine non si può esprimere con parole;
poiché ognuno vede che se un principe prende
la metà degli averi, e dà libertà e comodo
d'acquistare, meno impoverisce i sudditi
di chi una picciolissima parte prendendone
togliesse loro i mezzi di potere acquistare
alcuna cosa; siccome se ad un cavallo che
tira grave peso con facilità colla fune che
gli cinge il petto, voi glie la ravvolgeste
fra le gambe, non solo ogni piccolo peso,
ma la stessa fune lo rende immobile o l'atterra.
Finalmente la ruina d'uno stato nasce dall'uso
de' dazi, quando s'impiegano dal principe
a premiare i rei, gl'immeritevoli e gli oziosi;
o pure se questi si lasciano immuni, mentre
l'onesta gente è costretta a pagargli; così
parimente se si consumano fuori dello stato,
o se si danno agli stranieri. Io chiamo stranieri
coloro che dimorano fuori, o che vengono
in un paese ad arricchirsi per andare altrove;
ma coloro che, fuori del paese nati, in esso
vengono a stabilirsi, meritano più de' nazionali
stessi amore e carezze; e quel paese che
più ne tirerà a sé, sarà più degli altri
potente e felice. A questi forestieri dee
tutta la sua potenza l'Olanda, un tempo miserabile
e paludosa; a questi le sue forze la Prussia,
le arti e la cultura la Moscovia; ed essi
sono la cagione primaria dell'opulenza che
oggi Napoli sperimenta; essendosi veduto
che ove prima pochi forestieri l'impoverivano,
oggi molti che d'ogni parte vi vengono la
fanno prosperare. Quelli, quasi tanti scoli,
le loro ricchezze, ancorché bene acquistate,
conducendosele altrove, ce le toglievano;
questi oltre a' propri guadagni, quasi tanti
fiumi, derivano anche di lontano le paterne
e le avite sustanze, e qui spendendole, le
fanno sgorgare.
Da questo che de' dazi ho detto si conosce
che l'esser essi grandi o piccoli non produce
bene né male; ma può sibbene far l'uno o
l'altro effetto; onde sempre più si conosce
che ingiuste sono le querele de' dazi accresciuti,
essendocché o sono falsi questi accrescimenti,
o se son veri, in sé soli considerati non
saranno per essere dannosi giammai.
Ora è bene che innanzi di finire si dica
come e per quali mezzi decade e rovina uno
stato; acciocché così si distinguano i veri
segni del male dagl'ingannevoli. Le ricchezze
d'uno stato sono le terre, le case, il denaro:
perché gli animali sotto il genere de' frutti
della terra vanno numerati, non producendo
i pascoli altro frutto che gli animali. Tutte
queste ricchezze le fa sorgere e le consuma
l' uomo, il quale è quello che ricchezze
le rende: sicché non parrà strano se da me
sarà l'uomo istesso come una delle ricchezze
riguardato; anzi che egli è l'unica e vera
ricchezza. Or di queste cose, che quattro
in tutto sono, le due prime sono immobili,
le altre due mobili. Però è più facile al
danaro l'andar fuori, che all'uomo. perché
il danaro uscendo, fa entrare nel luogo ch'ei
lascia altre ricchezze in tante mercanzie
utili allo stato che s'impoverisce: ma gli
uomini partendo perdono sempre parte del
loro, perché lasciano e le terre e le case
e i parenti e gli onori e la patria tutta;
e solo il danaro possono recar seco. Né quando
molti insieme bramano abbandonare un paese,
si possono le case e le terre lasciate, vendendole,
convertire in equivalente danaro: è adunque
meno mobile l'uomo del danaro. Le terre e
gli edifizi sono del tutto immobili quanto
al trapassare; ma questi si edificano e cadono;
quelle si coltivano e si steriliscono, e
questo è il solo movimento che hanno. Perde
ogni sua ricchezza uno stato quando il danaro
(sotto il qual nome comprendo tutti i mobili
preziosi) va via, gli uomini o se ne partono
o si lasciano dalla morte estinguere non
generando più prole, le fabriche ruinano,
le terre s'inselvatichiscono. L'ordine che
queste cose tengono nell'avvenire è per appunto
il sopraddetto; e tale la natura richiede
che sia, secondo la diversa mobilità loro.
Di tutta questa decadenza è cagione la carestia.
La carestia nasce talora dall'intemperie
delle stagioni, e questa è la minore: perciocché,
tolti alcuni esempli rarissimi, le male annate
non durano maì più di tre anni consecutivi;
e se mostrano durar più, è perché le passate
calamità impoverendo i coloni, non fanno
seminar molto, e quando non si semina è certo
che non si raccoglie. Viene la carestia anche
dalla pestilenza degli uomini; ma questo
castigo, come per esperienza si è conosciuto,
non è meno da attribuirsi all'ira divina
che all'incuria umana; e i buoni regolamenti
giungono a renderlo più raro. Anche la pestilenza
degli animali bovini fa carestia, e questa,
quasi in compenso della peste che s'è giunta
a frenare, è venuta in questo secolo frequentemente,
senza sapervisi oppor riparo, a ritrovarci.
Ma la guerra è quella che, essendo la maggiore
di tutte le calamità, anzi sotto il suo nome
raggruppandole tutte, è l'ordinaria cagione
della carestia e della ruina d'un paese.
E perché dagli uomini in tutto deriva, è
male che non ha rimedio, niente sapendo medicare
gli uomini meno delle passioni loro medesime.
Fin tanto ch'esce il denaro da un luogo,
gli uomini non si partono, perché il bisogno
non si prova: ma quando è in gran parte uscito,
e la patria non presenta altro aspetto che
luttuoso e misero, si partono; e i primi
sono coloro che meno lasciano, cioè i mercanti
e gli artisti; poi gli altri di mano in mano.
Coloro che restano, essendo impediti dalla
povertà a prender moglie, accelerano colla
morte la spopolazione. La poca prolificazione
oltre alle già dette, può aver per cagione
o la crudeltà del governo, come in Oriente,
o la sproporzione delle ricchezze, come in
Polonia, o la superstizione, come nell'Affrica
e ovunque le mogli accompagnano barbaramente
la morte del marito colla propria, o il costume
barbaro, come è ne' paesi di serragli e d'eunuchi
ripieni. Quando gli uomini sono diminuiti,
non ha rimedio alcuno uno stato a non ruinare;
e solo può la schiavitudine e l'invasione
renderne più subitanea la distruzione.
Ora de' segni della miseria, come si vede,
niuno rassomiglia a que' dello stato prospero,
tolto questo, che nel principio delle calamità
il denaro sgorga in maggior copia dalle borse
ove era racchiuso, e perciò tutto incarisce,
egualmente come nell'aumento, quando la moneta
entra con piena maggiore. Ma dopo questo
ogni segno cambia, e nell'avversità sieguono
que' che ho descritti di sopra, nella felicità
gli opposti; i quali quando alcuno gli volesse
vedere sul vero, non ha che a riguardare
sul nostro Regno, che oggi gli ha tutti in
sé. Ed è questo non alla virtù del popolo,
ma al principe dovuto, non essendo mai i
sudditi in merito della industria ch'essi
hanno, né in colpa dell'infingardaggine ed
oziosità loro. Né è da seguire la comune
espressione che taccia talora le nazioni
di viziose, neghittose e cattive. La colpa
non è loro: perché è natura de' sudditi,
dopo che al cattivo governo hanno colla disubbidienza
inutilmente resistito, armarsi di stupidità:
ed è questa rocca, siccome l'ultima, così
la più sicura ed inespugnabile, rendendo
i sudditi non meno inutili al principe, che
se ribelli fossero, ed il principe non meno
debole, che se sudditi non avesse. L'esperienza
ha fatto conoscere che l'uomo è più forte
nel patire che nell'agire, e che di chi opprime
e di chi tollera, cede prima quello, e poi
questo, avendo l'inerzia anche i suoi conquistatori:
della quale sentenza, oltre ad essere le
antiche storie ripiene, si è conosciuta la
verità negli Americani, che colla loro brutale
insensibilità, diversa dall'antica loro prudenza,
hanno fiaccata e doma ogni arte degli Europei;
e così si sono in certo modo a quel giogo
sottratti che la loro inerme virtù non avea
potuto spezzare. Da questo poi procede che
una nazione oppressa teme per le frequenti
battiture avute e il bene e il male; e diviene
cotanio irragionevole, che bisogna fargli
utile per forza; come a forza si medica quel
cane che dalle ferite del bastone è spaurito.
E questo basti aver detto dell'inganno che
produce l'ignoranza de' movimenti della moneta:
ora è tempo che di lei più particolarmente
si ragioni, e delle monete secondo i vari
metalli onde sono faite si dica.
CAPO TERZO
Della moneta di rame, d'argento e d'oro.
Quanto conferisca ad accrescere la comodità
della moneta l'usar più metalli di disuguale
valore è così facile a comprendere, che non
richiede che si dimostri: perché misurando
essi colla sola quantità della materia, il
metallo prezioso non può misurare i piccoli
prezzi per l'eccessiva piccolezza delle parti
della sua suddivisione, il metallo basso
non può comodamente uguagliare i prezzi grandi
per la mole disadatta e pesante. Quindi ottimo
mezzo prese Licurgo al suo disegno, qualunque
egli si fosse, o Savio o falso, quando volendo
poveri i suoi Spartani, lasciò loro la sola
moneta di rame. E per contrario io credo
che se gli Americani non usarono moneta,
fu perché non conobbero altri metalli che
i preziosi. Ma se è vero che questa diversità
è tanto giovevole, vero è ancora che spesso
(come sono le umane cose miste di buono e
di male) di grave danno è cagione. Il determinare
inconsideratamente la proporzione tra questi
metalli può impoverire uno stato, d'uno o
di due metalli senza riparo alcuno privandolo,
e lasciandone un solo; il quale, come io
dissi, diviene di così molesto uso, che inutile
si può dire. Ma di questa sproporzione sarà
ripieno il terzo libro: ora su i pregi di
ciascuna delle tre classi di metalli io mi
prefiggo discorrere; e delle monete di due
metalli, che billon si dicono, nel VI capo,
come in luogo più acconcio, ragionerò.
Il rame puro corre oggi fra noi in sei monete
diverse, il tre cavalli (nome preso dalla
moneta cavallo, che al terzo di questa corrispondeva,
e dall'impronto postovi da Alfonso I d'Aragona
prendea la denominazione), il quattro cavalli,
il sei cavalli, o sia tornese (così detto
dalla città di Tours, la cui zecca dette
il nome alle lire ed ai soldi, e dagli Angioini
fu tra noi introdotto), il nove cavalli,
il grano, e la publica, che vale un grano
e mezzo, ed ha questo nome dalla leggenda
che ha, Publica Commoditas.
L'utilità del rame (sotto il qual nome comprendo
tutti i quattro metalli inferiori, perciocché
questo ch'io dirò del rame, si può dir del
ferro fra que' popoli che l'usano per moneta)
è sopra gli altri grandissima; e quando altra
pruova nol convincesse basterebbe questa,
che vi sono state nazioni intere che non
hanno usato altro, siccome fu Roma e Sparta
e le popolazioni de' Sassoni e de' Franchi
antichi; ma non si troverà nazione alcuna
che non avendo metalli bassi abbia conosciuta
moneta. Né mi si può opporre che i Turchi
non hanno moneta più bassa dell'aspro, il
qual pure è d'argento, perché il colore dato
da poca mistura d'argento al rame non ne
converte la natura. Né la moneta di billon
merita d'esser distinta dal rame. È adunque
il rame siccome la più vile, così la più
utile moneta; e quel che l'esperienza addita,
la ragione lo confirma e lo dimostra.
Perciocché essendo certo che si trovano molte
cose che non hanno maggior prezzo d'un quattrino,
o sia d'un tornese, niuno mi contrasterà
che sia affatto impossibile esprimer questo
prezzo in oro, dovendosi prendere un granello
d'oro quanto un grano d'arena. Né giova dire
che questo grano si può, ligandolo con altro
metallo, far divenire di mole più sensibile
ed atta alla mano; perché così dicendo, si
dà per concessa la necessità de' metalli
bassi. Né giova framischiar quest'oro, quando
il metallo basso ha proprio valore, e da
per sé basta a servir per moneta. Se si potesse
mescolare e fonder l'oro con cosa di niun
valore, come i sassi e le terre, gioverebbe
questa unione; ma oltre al non potersi, questa
operazione d'estrarre l'acino d'oro, valendo
assai più della materia istessa, fa che la
cosa sia impossibile per ogni verso: lo stesso
si convien dire dell'argento. Ma per contrario
non v'è valore espresso dall' oro, che non
lo possa esprimere il rame. Un milione come
si può aver d'oro, così anche di rame, s'uno
vuole, l'avrà. Non nego che ciò sarà con
maggiore imbarazzo: ma in somma quanta disparità
è tra la molta difficoltà e l'impossibile
assoluto, tanta n'è tra l'utilità del rame
e dell'oro. Questo pregio è il maggiore che
ha il rame.
L'altro non molto minore è ch'egli soggiace
meno alle frodi ed alle arti che sulla moneta
si usano, e con più buona fede si traffica.
Gli uomini non amano i guadagni piccioli
e penosi, quando da' pericoli grandi sono
circondati. I sovrani nelle grandi somme
che danno e che ricevono, non usando altro
che i metalli preziosi, al rame non pensano
neppure: né coloro che amministrano la zecca
inganneranno mai il loro principe con por
lega al rame, che, per poter dar loro qualche
profitto, fa d'uopo che sia grandissima e
manifesta. In fine i popoli ai difetti di
questa moneta non avverto no, né del suo
valore intrinseco hanno alcuna sollecitudine;
perché quando non si teme di fraude, gli
effetti del consumo e del tempo non si stimano.
Così non v'è chi s'imbarazzi se le monete
di rame, con cui è pagato, sieno intere o
scarse; né mette da canto le giuste, e dà
via le logore o guaste, come dell'oro e talora
dell'argento si fa. E questa incuria giunge
a tanto che fra noi si vede una moneta di
maggior peso valere la metà d'una che n'ha
meno; tantocché a monete rappresentanti,
quali quelle del cuoio furono, pare che siensi
ridotte. E bisogna ben dire che i disordini
nel nostro Regno fossero ad incredibile grandezza
pervenuti, giacché con tante prammatiche
particolari si dovette nel secolo passato
dar riparo alla falsificazione del rame.
Per fare un così meschino guadagno conveniva
che liberi anche da ogni timore fossero gli
scellerati: e che tali veramente erauo e
lo narra la storia, e lo palesa il numero
grande delle leggi fatte loro contra; la
moltitudine delle quali è sempre una pruova
della loro inefficacia.
Da questa qualità del rame molti deducono
ch'e' sarebbe utile ad averlo per moneta
numeraria: e certamente meglio pensano costoro,
che quelli i quali della moneta immaginaria
d'argento, come d'usanza utilissima, sono
ingiustamente ammiratori: ma io non so se
neppure dal rame questo potrebbe ottenersi.
Via, poniamo che noi, come gli Spagnuoli
co' maravedis contano, contassimo con grana
e tornesi: di grazia che ne verrebbe egli
mai di buono? In prima io domando: sarebbe
fisso per legge quante grana vale un ducato,
o no? Se si risponde che sì, egli è evidente
che questo conto in moneta invariabile è
svanito; perché sempre che un ducato vale
cento grana, lo stesso è contare con grana,
che con centinaia di grana: né so in che
nuocerebbe usare una voce sola ad esprimere
questo centinaio. Questa voce ducato è di
bel suono, non aspra, non difficile a ritener
a mente: dunque perché non s'ha egli da usare?
Or volendo la legge che il ducato vaglia
sempre cento grana, l'argento divien moneta
di conto, e non più il rame. Ma io ho dimostrato
che l'argento è di valor variabile: dunque
finché il rame è avvinto e legato dalla legge
all'argento, sarà da esso tratto dietro in
tutte le sue mutazioni. Né si può dire che
il rame, non avendo cagione di mutare valore
per non esserne cresciute le miniere o l'uso,
non seguirà gli urti e le vicende dell'argento;
il quale o per nuove miniere, o per novello
lusso, o per statuto di principe ha variato;
mentre ove la legge l'ordina, bisogna ch'ei
vi soggiaccia pure, o si disubbidisca a lei:
ed in questo stato di cose che corrisponde
all'alzamento, o l'uno de' due metalli anderà
via, o la legge s'ha da mutare; e questo
è contro quel che da prima mi si era accordato,
cioè che fosse determinata la proporzione
tra l'argento ed il rame. Lo stesso si ha
da dire del rame rispetto all'oro. Ed ecco
resta conosciuto che l'usare nel conto il
rame, finché il suo valore sta tenuto fisso
con quel degli altri metalli, non giova.
Ora voglio supporre che non fossero queste
proporzioni tra' metalli stabilite. Questa
cosa sebbene non abbia esempio presso alcuna
nazione, tolti i Cinesi (che si può dire
che battano solo moneta di rame, l'argento
e l'oro, come le altre mercanzie, il vendano
e lo comprino), pure merita d'essere riguardato,
s'ella abbia utilità in sé che la renda degna
di commendazione. Io veggo che infiniti errano
in credere il valore una qualità interna
delle cose, e non già, come egli è, una relazione
estrinseca che in ogni luogo, tempo e persona
si muta: perciò essi parlano di valore d'argento,
di rame e d'oro, come di cosa stabile in
questi metalli, né dicono rispetto a chi
ed a qual cosa sia cotesto valore; non altrimenti
che chi d'alto e basso parli, senza esprimere
il punto onde misura. Per discoprire ora
l'origine di questo abbaglio, io voglio che
s'avverta come l'aver gli uomini misurato
l'un metallo coll'altro, e coll'autorità
venerabile della legge stabilitolo, fa parlare
del valore quasi di cosa determinata e nota,
e perciò assoluta, non relativa. In fatti
quando uno chiede quanto vale un ducato,
non se gli risponde già, val tanto grano,
o vino; perché questa sebbene congrua risposta
non si può dare per non esser fissa una tal
proporzione; ma si dice val cento grana;
e questa risposta, che non è migliore della
prima, esprimendo la sola proporzione tra
il rame e l'argento, perché ella è fissa,
pare al volgo ch'esprima il valore de' metalli,
e perciò d'esse parlano come di cosa nota
ed universale.
Ora nel caso che la legge non determinasse
una tale proporzione, essi non avrebbero
diversa natura fra loro, che il grano ed
il vino coll'argento. Allora non solo non
sarebbe comodo, ma più incommodo d'ora il
contare in rame; perciocché dopo tirato il
conto resterebbe a sapere quante grana di
rame vale un ducato, e questa sarebbe proporzione
sempre ondeggiante e varia; ed essendo necessario
che i grossi pagamenti facciansi in argento,
o in oro, inutile sarebbe il conto in rame,
ed insensibilmente, per la forza della natura
delle cose, quello in argento e in oro si
vedrebbe ritornare. In somma il conto in
rame sarebbe il medesimo che se si facesse
col formento o col vino: e per dir tutto
in uno, questa cura sulla moneta di conto
non merita esser tale e tanta, quanto ella
si vuole: e sempre si troverà che quello
in che si paga è quel medesimo in cui si
conta, sia merce, o metallo.
Penso ora che taluno potrebbe dire ch'essendo
il rame più sicuro dalle frodi de' falsatori,
e dagl'inopportuni alzamenti, meglio è su
di esso sempre il computare. Al che io rispondo
che le frodi non variano il computo, il quale
più sull'immaginario che sul reale si fa:
gli alzamenti è falso che il rame non gli
abbia, e quando fosse vero, sarebbe appunto
perché al conto non si usa. Ed è ben ridicolo
voler con costumanze arbitrarie impedire
quelle determinazioni delle supreme potestà
che la natura istessa, quando a lei sono
contrarie, elude, ma non reprime. Quando
piaccia al principe l'alzamento, o ch'ei
sia necessario, e questo dal conto in rame
venisse impedito, il primo ch'ei farà, sarà
mutare il conto: ed ecco i frivoìi argini
che il torrente ne porta via.
Ma egli è falsissimo che il rame non abbia
alzamenti, o abbassamenti; ed io mi meraviglio
come questa erronea opinione sia in tanti,
quando ella è così patente. Alzare ed abbassare
sono termini relativi: dunque quando s'alza
il prezzo all'argento, a qual cosa s'abbassa?
Non ai commestibili, né agli altri generi,
il prezzo de' quali è lasciato in libertà
di chi vende: dunque al rame e all' oro.
Sicché sempre che s'alza l'argento, s'abbassa
il rame. Ma di questo si dirà meglio altrove.
Ora è cosa giovevole entrare a scrutinare
quali mali abbia la moneta di rame fra noi,
e quali ordini le sieno per essere utili
o necessari.
La moneta di rame è la prima di cui s'è intermessol
il conio fra noi, non essendosene battuta
alcuna dal regno di Filippo V in poi; quanto
è a dire da quasi 50 anni. E pure quelle
di questo re sono per la maggior parte passabilmente
ben conservate, o solo dall'uso sfigurate;
ma quelle di Filippo IV, ed alcune di Carlo
II sono state tutte così mostruosamente tosate
e guaste ne' calamitosi tempi in cui questo
Regno di gente scellerata era ripieno, che
molte appena hanno la metà del valor antico
che nella impronta dimostrano. Sonovene in
oltre alcune di non meno memorabile esempio
di delitti e di sciagure, che son dette del
Popolo, e nella sollevazione del 1647 dal
duca di Guisa furono fatte coniare, e sono
grana, e publiche, che hanno per impronto
da una parte le armi della libertà napoletana,
dal rovescio l'abbondanza: non men delirio
l'una che l'altra. Queste sono la metà più
piccole dell'altre, e mostrano bene che in
cambio d'abbondanza e di libertà, si dava
al popolo, per quanto si poteva, fraude e
violenza.
La meraviglia di molti è, come indifferentemente
monete sì diseguali, guaste e mancanti abbiano
potuto correre ed accettarsi; e questa meraviglia,
che non è senza ragione, merita d'esser dileguata
colla dichiarazione di questo perché. Il
metallo basso non è soggetto a i colpi di
difetti, che non sieno grossissimi. In oltre
quando un paese ha cattiva moneta di rame,
comunque ella si sia, conviene usarla, né
può nascondersi, o liquefarsi, o andar via
tutta, come all'oro e all'argento interviene:
perché essendo più necessaria al commercio
per pagare quelle spese minute che sono il
sostegno d'ogni più grande manifattura, mai
un uomo per fare un piccolo guadagno nella
moneta di rame non se ne disfarà, mandando
male tutta un'industria e lavorio. E noi
vediamo che il somministrare questa moneta
dà da vivere a una professione d'uomini che
chiamansi cagna cavalli. Dippiù il rame non
passa d'uno in un altro stato; e quanto è
più gravoso e vile, tanto è più pigro a fuggire.
In fine la velocità del giro suo, essendo
almeno quattro volte maggiore di quel dell'argento,
e sei più dell'oro, fa che ognuno lo prende
perché è sicuro sempre di potersene disfare.
Ed egli è cosa non meno evidente, che dalla
storia confirmata, che può una cosa da tutti
tenuta per cattiva aver quel medesimo corso
che s'ella si tenesse per buona, fin tanto
che dura un comune inganno, per cui ognuno
speri che il suo vicino non la ricuserà;
e dura questo corso finché un avvenimento
nuovo scoprendo a ciascuno il viso dell'
altro, non gli disinganni tutti in un tempo,
e loro dia più timore del cattivo che prendono,
che speranza di poterlo tramandare. I biglietti
di stato, e poi que' del Banco reale di Francia,
e le azioni in Inghilterra furono non ha
molti anni un esempio chiaro di questo: sicché
non è strano che corrano fra noi sì fatte
monete di rame. Ora a voler discorrere se
si convenga o no batterie della nuova, e
come, e in che quantità, io porto opinione
che gioverebbe batterne, e darle un prezzo
qualche poco maggiore dell'intrinseco suo:
ma di questa nuova moneta se n'avrebbe a
coniare un poco per volta, e non più.
Mi si farebbe torto a dirmi che sia cosa
animosa trattare di queUa materia di cui
non mostro far professione; poiché non può
essere di nocumento allo stato occupare colle
parole un grado che molti meno di me esperti
potrebbero coll'opere occupare: e gli errori
ch'io facessi scrivendo possono essere senza
danno corretti; ma quelli i quali son fatti
operando, non possono essere se non colla
rovina dello stato conosciuti. Venendo dunque
a dimostrare quello che ho profferito, quanto
al primo, ognuno che sa che le cose mortali
altra stabilità non hanno che nel rinnovarsi,
conoscerà benissimo che perdendosi ogni dì
per molti accidenti le monete, ed altre struggendosi
troppo con l'uso, per non restarne senza,
conviene che si rinnuovino. Né è men chiaro
che non si abbia da attendere il bisogno
preciso, mentre quel male che si può riparare
non bisogna lasciarlo venire per medicarlo:
ed è troppo gran differenza tra 'l sostenere
una spesa annua di diecimila ducati, per
esempio, e il doverne fare in un solo anno
una d'un mezzo milione.
Ma quanto alla seconda parte parmi già di
sentir molti che, ripieni ed ubbriachi d'una
certa fede e giustizia, mi grideranno ch'io
ho mal consigliato il principe a volergli
far dare un valore estrinseco diverso dall'intrinseco
alla moneta di rame, e che questo suo guadagno
torna in danno dello stato. A' quali io che
non credo essere meno religioso ammiratore
della fede pubblica, e che non mi sento nell'
animo alcuno stimolo d'adulazione, esporrò
brevemente la causa di questo consiglio mio.
Due mali ha da temere ogni classe di moneta.
Uno è, ch'ella non sia dopo zeccata liquefatta
di nuovo da' privati per servirsene in utensili,
o mandarla fuori, e così manchi. L'altro
è che, oltre a quella dal principe battuta
non ne sia coniata altra da' sudditi, o dagli
stranieri, e così ve ne sia troppa. Quanto
danno arrechi o l'uno avvenimento o l'altro
è manifesto. Avviene il primo quando il principe
zecca moneta troppo buona: cioè I. S'ella
avesse minor valore estrinseco che intrinseco.
II. S' ella in confronto delle monete degli
stati convicini, o delle antiche del paese
avesse più valore intrinseco, o come si suol
dire, fosse più forte. Ognuno vede che, se
un principe coniasse oggi ducati che avessero
undici carlini d'argento puro, appena uscirebbe
questa moneta, che subito saria nascosta
ed appiattata da tutti, i quali seguendo
a pagare in carlini, liquefarebbero questi
ducati, o gli darebbero agli orefici e ai
mercatanti, che hanno gli affitti delle zecche
straniere: essendo regola invariabile che
la moneta debole caccia via la forte dello
stesso e equilibrio di forze. Perciocché
metallo, sempre che tra le due v' se, per
esempio, il re ritirasse a sé tutta la moneta
d'argento del Regno, e poi zeccasse la nuova,
e in questa desse al ducato undici carlini
d'argento, questa nuova moneta non anderebbe
via; mentre allora non sarebbe altro che
aver mutato il significato alla voce ducato,
il quale suonerebbe quel che oggi suonano
undici carlini, e solo ne dovria seguire
un apparente sbassamento de' prezzi da quel
degli antichi ducati. Né può la moneta d'argento
uscire, non essendovi forza per cacciarla;
giacché della vecchia non ve n'è, o così
poca che non basta a far pagamenti grandi
con essa. Qui non parlo della forza d'un
metallo sull'altro, che per altro procede
nel modo istesso, quando la proporzione stabilita
tra due metalli non è la naturale.
Venendo adunque al mio primo discorso: la
moneta delle grana, che noi usiamo, fu imprima
di dodici trappesi il grano, ma questa oggi
è tutta tosata e guasta. Le grana che sonosi
poi battute, quali sono quelle di Carlo II
e quelle di Filippo V del 1703, furono fatte
di dieci trappesi, o sia del terzo d'un'oncia,
per dar loro qualche proporzione ed egualità
alle antiche, che per la fraude eransi impiccolite.
Or la libbra di rame non lavorato vale presso
di noi oggi in circa venti grana, e il lavorarla
corrisponde a poco più del terzo; onde è
che trentadue grana dovrebbero aversi da
una libbra di rame. Ma dalla libbra se ne
tagliano alla zecca trentasei: v'è adunque
un guadagno di quattro grana sopra una libbra,
o sia d'un undici per cento. Se poi a questa
valuta estrinseca maggiore dell'intrinseca
si aggiunge la corrosione, ed il consumo
che è grandissimo, si troverà che le monete
di rame, prendendosene una gran somma d'ogni
qualità, hanno un 25 per 100 meno di valor
vero di quel che corrono. Ora se il principe
battesse la nuova intera, e secondo il suo
intrinseco, oltre ch'egli vi perderebbe quel
che s'avria da rifondere alle mozze, che
si ritirerebbero, la nuova sarebbe troppo
disegualmente buona in confronto all'antica;
e o si fonderebbe, o l'antica sarebbe ricusata;
e sempre questa spesa sarebbe senza necessità,
né profitto alcuno. Dunque è bene che il
principe, mettendovi un poco di valore estrinseco,
l'equilibri in alcun modo colla vecchia,
che n'ha tanto. Ma questo soprappiù non credo
dovrebbe essere altro che quelle quattro
grana a libbra, le quali si è veduto già
coll'esperienza che non hanno nociuto, anzi
io credo ch'abbiano giovato.
Inutile timore sarebbe poi quello, che l'aver
questa moneta meno metallo di quel ch'ella
vale, le potesse arrecar nocumento; mentre
si vede che la corrente, a cui ne manca tanto,
non ha patito mai incommodo né d'esser fusa,
né d'esser battuta: e quando ella fu contrafatta,
la colpa non era della non buona moneta,
ma della non buona esecuzione di leggi spossate
d'ogni autorità. In oltre un 11 per 100 è
cosa insensibile nel rame, e da non potere
invogliare molti a fare a traverso al timore
d'atroci pene questo guadagno. Gli stranieri
non sono in istato di farlo, perché è piccolo
guadagno; è difficile ad introdurre moneta
di rame in un regno che n'è provveduto, poiché
nelle grandi somme questa si ricusa, e nelle
piccole gli uomini non hanno la sofferenza
d'attendere a così stentato emolumento. In
uno, la moneta di rame è meglio che pecchi
di esser debole che forte, perocché, quando
è soverchio buona, è cacciata via dall'argento,
e questo è male grandissimo; quando è soverchio
cattiva, resta, ma non ha forza di cacciar
l'argento contro cui non può luttare; e quando
anche il cacciasse è minor male. Il commercio
ha più bisogno del rame che d' ogni altra
moneta, poi l'ha dell'oro, in ultimo dell'argento.
Questo m'ha fatto credere che noi che abbiamo
debolissima la moneta di rame, rinnovandola
non l'abbiamo a far tanto forte.
Passo ora a dire perché se ne debba batter
un poco per anno e non più. Quando uno stato
è tormentato da' tosatori che impunemente,
diminuisc0no le monete, è necessario prima
sbarbicargli e distruggergli, e poi raccorre
la moneta vecchia e supprimere il corso,
dando fuori la nuova: perché se voi ne date
fuori un poco per volta, secondo ch'ella
esce, si ritaglia e non si emenda il male;
come l'acque de' fiumi non raddolciscono
il mare. Ma quando uno stato per la vigilanza
del g0verno ha estinti gli autori del male,
e che solo gli effetti ne rimangono, che
è appunto il nostro caso, non giova rifar
tutta la moneta offesa per la grande spesa,
né nuoce a poco a poco ritirar le peggio
ridotte e sostituirvi le nuove. Dannoso sarebbe
poi il consiglio mezzo di volerne rifar molta
in un tratto, quanto è a dire la metà della
corrente: perciocché può la moltitudine,
quasi svegliandosi dal suo torpore, avvedersi
della disparità tra la vecchia e la nuova,
ed acquistare disprezzo dell'una, avidità
dell'altra, e far così restare lo stato privo
della metà di quella classe di moneta che
rimane nascosta o traviata.
Questo procede assai più sensibilmente ne'
metalli preziosi; nel rame, perché si disprezza,
non così; e quando si seguisse il mio primo
avvertimento, di non fare la moneta nuova
migliore d'un 25 per 100, ma solo d'un 10,
ogni verisimilitudine è che non vi s'avvertirà.
Pure non è mai buona regola correre questo
pericolo, al quale siccome non v'è altro
rimedio che subito rifare la restante moneta,
non so se una così grave spesa, che giunga
improvvisa allo stato, sarà per essergli
innocente. E forse allora con nuovi mezzi
consigli e deboli espedienti si farà incancrenire
quella piaga che i soli cattivi consigli
aveano generata. Sicché dunque quando si
vuol rifare una classe di moneta tosata,
e gli ordini del governo ci rassicurano'
conviene o batterla tutta insieme, o a poco
a poco: e questo mi pare miglior consiglio.
La nuova esce insensibilmente, né produce
altro che un lampo di letizia per la sua
bellezza e bontà; ma l'esser poca non permette
che si disusi la vecchia, ancorché fosse
aborrita: in tanto la nuova si comincia a
consumare, ed il popolo vi s'avvezza.
È tempo ch'io ragioni dell'argento, il quale
io stimo presso di noi essere in buonissimo
stato ed ordine. La prudenza di chi oggi
ci governa ha conosciuto questo vero, ed
ha battute le nuove monete imitando le antiche;
quanto è a dire in 12 once mettendone 11
di puro metallo, ed il resto riservandolo
per la lega, fattura e dritto di zecca; e
valutandole secondo l'alzamento fatto alle
monete del Carpio del 32 per 100. Prego ìl
supremo Autore del tutto, e i Santi tutelari
di questo Regno, che vogliano, poiché a sì
felice età e sotto così giusti principi ci
hanno condotti, lungamente conservare a noi
non meno la loro preziosa vita che le massime
istesse di governo savie e generose, le quali,
come alla pietà del principe, così alla virtù
de' suoi ministri ancora sono dovute.
Molti dicono che si convenga alzare il valore
all'argento, o sia mutare la proporzione
tra questo e gli altri metalli; il che io
non credo sia vero; ma quando lo fusse, sarebbe
miglior consiglio mutare il valor del rame
e dell'oro. Trattandosi di proporzione la
cosa è la medesima, ma non gli effetti. Mutato
il rame, il commercio soffre minor disturbo
nella mutazione de' prezzi; mutato l'oro,
che è tutto straniero fra noi, non ne prenderanno
i sudditi timore: ma questa mutazione, lo
replico di nuovo, non è necessaria, né sarebbe
utile a cosa alcuna. Altri credono esservi
difetto nelle monete d'argento, vedendo spariti
i ducatoni e mezzi ducatoni, dal marchese
del Carpio, uomo d'immortale e gloriosa memoria,
battuti: ma costoro non avvertono che questo
non può nascere dalla miglior qualità del
loro argento, perché le 13 grana e le 26,
che sono suddivisioni loro, sono abbondantissime;
e pure non solo esse sono della stessissima
qualità, ma hanno minor valore estrinseco,
perché, per evitar le frazioni, in vece del
32 per 100 furono alzate solo del 30. La
causa adunque di questo sparimento egli è,
ch'essendo la più antica, per molti accidenti
il tempo l'ha consumata. Secondo, le monete
grosse si consumano meno delle piccole, onde
si liquefanno con minor perdita: e di questa
perdita non è da accorarsene più dell'essersi
disusate le monete de' re aragonesi ed angioini.
L'oro appresso di noi era tutto forestiero,
ma in questo anno se n'è battuto un poco
in tre differenti grandezze di 2, 4, e 6
ducati nostri, chiamati zecchini, doppie,
ed once napoletane.l Delle monete forestiere
che corrono in un regno, io ragionerò in
altro luogo: qui dirò solamente che l'oro
è metallo così prezioso e necessario, e gli
errori in esso sono tanto gravi, che si converrebbe
trattarlo del tutto come mercanzia e gemma,
anche se nella zecca propria fosse coniato.
L'esperienza ha fatto conoscere a' sovrani
ch'era bene lasciarlo correre a peso, e non
sull'autorità del conio, e perciò da per
tutto s'usa pesarlo, e l'impronta assicura
solo il prezzo al peso; sicché in parte già
si tratta come mercanzia. Io desidero, e
prego il Cielo che faccia anche conoscere
a chi regge quest'altra verità, che siccome
il peso è lasciato al libero esame di ciascuno,
così si avrebbe a lasciare anche il valore;
e l'impronta riserbarla solo ad autorizare
la bontà della lega. Così facendosi avrebbe
perfettisSimo regolamento la moneta, e non
si richiederebbe tanta arte e studio a medicare
i mali che in quel caso non potrebbero generarsi
in lei. So bene che la cognizione delle verità
appartenenti al governo è lentissima, e più
lenta ancora è l'introduzione di que' miglioramenti
che da gran tempo sono già conosciuti; onde
sembra più da desiderare che da sperar questa
cosa: ma io non ne dispero ancora, fidato
sulla virtù del principe che ci governa.
Nelle cose della politica non è come nell'altre
scienze, che sempre si vanno di dì in dì
migliorando: esse non hanno continuata progressione.
Quando la Divinità fa agli uomini il maggiore
de' suoi doni, dando loro un principe di
straordinaria sapienza e fortezza, si ordina
uno stato.. morto lui, siccome passano molti
secoli prima ch'egli abbia un degno successore,
le cose non migliorano più, e appena s'ottiene
che lentamente, e non a precipizio si vadano
corrompendo. Né da' ministri inferiori, ancorché
virtuosi, è da sperar cosa alcuna. Sono essi
troppo distratti dal timore, e dal desio
di loro privata grandezza: e le grandi imprese,
se non sono sostenute da chi è superiore
all'invidia e alla malignità, rare volte
riescono; e sempre che si sbagliano, sono
funeste a quell'onorato ministro che le avea
promosse o consigliate.
CAPO QUARTO
Della giusta stima de' metalli preziosi e
della moneta; e quanto noccia più la soverchia
che la poca. Vera ricchezza è l'uomo.
Siccome è il volgare proverbio che il giusto
è sempre in mezzo al troppo e al poco, così
la moneta ha, ed in ogni tempo ha avuti,
e ingiusti disprezzatori e vili idolatri.
Ma non sono queste due classi d'uomini egualmente
numerose; perciocché l'una di pochi sapienti,
e di altri non molti, che sotto un così augusto
vestimento stannosi mascherati, è composta;
l'altra comprende quasi tutto il restante
della specie umana, e spesso anche que' che
se ne mostrano palesemente disprezzatori.
Similmente non sono del pari da temere le
conseguenze di queste non giuste opinioni;
perché la prima non potendosi alla moltitudine
comunicare non produce nocumento; l'altra
per contrario è di gravi mali cagione, e
d'errori che seco portano la ruina degli
stati, col quale avvenimento solo, ch'è peggio,
si lasciano percepire. Perciò io mi propongo
d'entrare a disputare dell'utilità e necessità
della moneta, e prefiggere i giusti limiti
alla stima di lei; acciocché gli uomini ritraendosi
da quell'errore ordinario, per cui scambiano
le immagini colle cose, gl'istromenti con
l'opra, conoscano che il metallo delle monete
è mercanzia di lusso, e non di necessità;
la moneta non è ricchezza, ma immagine sua
ed istrumento da raggirarla: dal quale rigiro,
sebbene accada alcuna volta che la vera ricchezza
s'accresca, infinite volte più pare che così
avvenga, e non è vero. Non diversamente da
quello di chi movendo velocemente un carbone
acceso in giro, farà credere all'occhio che
una ruota intera di fuoco egli s'abbia nelle
mani, mentre la veloce mutazione pare agli
uomini duplicata presenza.
Che la moltitudine chiami il denaro nerbo
della guerra, fondamento d'ogni potenza,
secondo sangue dell'uomo, e principal sostegno
della vita e della felicità, si potrebbe
perdonare all'ignoranza sua ed alla connessione
delle idee fra l'immagine e la cosa; ma che
si lasci cadere in questo errore chi governa,
non è in alcun modo da trasCurare per lo
danno che ne può provenire. Le ricchezze
di Sardanapalo, di Creso, di Dario e di Perseo
furono per cagione di questo inganno accumulate;
e perché questi non si ricordarono che la
guerra si fa cogli uomini e col ferro, e
non con l'oro, e vi si riposarono sopra,
furono più avidamente spogliati per quella
cosa istessa ch'essi aveano per difesa accumulata.
Ora per dimostrare la grandezza di questo
volgare errore, basta definire che sia la
ricchezza, e si vedrà se il possessore delle
monete si possa così chiamare. Ricchezza
è ((il possesso d'alcuna cosa che sia più
desiderata da altri che dal possessore)).
Dico così, perché molte cose sarebbero ad
alcuno utili assai, ma avendo quegli la sventura
di non conoscerle, non se ne può dir povero,
né chi le possiede rispetto a lui è ricco;
e così per contrario molte sono o inutili
o dannose, ma essendo per errore richieste
molto, rendono ricco chi le ha.
Da questa definizione si comprende che la
ricchezza è una ragione tra due persone;
e riguardo ad ogni uomo uno è disegualmente
ricco. In oltre non la sola quantità delle
cose desiderate, ma la varia qualità loro
con ragione composta, è misura delle ricchezze:
e chi ha le cose più utili, è più ricco di
chi possiede le meno utili. Or nella serie
delle cose utili le prime sono gli elementi;
indi è l'uomo, che di tutte le cose è la
più utile all'altro uomo; poi sono i generi
atti al vitto, indi al vestito, appresso
all'abitazione; e in ultimo alle comodità
meno grandi, ed all'appagamento de' piaceri
secondari dell'uomo. In questa classe sono
i metalli non discosti dalle gemme: sono
dunque utili anche essi, ma meno dell'uomo.
Dunque se Ciro, se Roma, se Alessandro aveano
più uomini, o per meglio dire migliori, che
Creso e Perseo e Dario, erano più ricchi
assai; e non fu fortuna il vincere, o cosa
strana, se il più forte restò superiore.
È errore chiamar più forte chi ha più denaro.
Non ebbero adunque costante fortuna i Romani,
ma costante superiorità di potere. Caso e
fortuna sono voci nate dall'ignoranza nostra,
e nella natura non sono. Diciamo noi mêschini
caso quell'ordine di leggi che non sappiamo
sviluppare, ed ella è voce relativa al diverso
intendimento nostro; onde il savio dallo
sciocco è chiamato sempre fortunato. Né credo
io perciò che vi sia voce di questa più vergognosa
per noi, e più ingiuriosa alla Provvidenza
che ci governa.
Non è vero adunque che l'oro e l'argento
sieno inutili affatto, ma non sono nemmeno
degni d'esser dichiarati sovrani del tutto
ed arbitri della felicità; come l'olio e
il vino, sebbene non inutili, non sono mai
così chiamati. I metalli sono merci di lusso:
il lusso nasce in quello stato prospero,
in cui i primi bisogni sono agevolmente soddisfatti;
e quando le calamità tornano il lusso muore.
Or se la ricchezza non è per altro prezzabile,
se non come ricovero delle sventure, come
mai si potrà dir ricchezza quella che lo
è solo nelle felicità, inutilissima poi nella
miseria? Qual fondamento si potrà fare in
lei?
E pure molte nazioni ve lo fanno. I Portoghesi
godono vedere le sagrestie delle loro chiese
fatte quasi magazzini d'argento; e in questo
argento riguardano un rimedio ad ogni bisogno.
Se lo avranno (il che prego il Cielo, che
mai non sia) s'accorgeranno che vaglia quel
metallo. Credono poterlo convertire in moneta.
Non so se avran tempo da farlo: ma quando
l'avessero, non so se potranno, così come
hanno convertiti i vasellami in moneta, convertir
la moneta in uomini e in pane; e se non lo
potranno, la calamità non avrà il rimedio
suo. I privati uomini possono ben fondarsi
sulla moneta, perché le loro disgrazie non
sono congiunte con quelle di tutti gli altri
per lo più: ma gli stati no. I mali piccoli
gli sana il denaro, i grandi d'uno stato
gli aumenta, perché lo fa predare più presto
e da' nemici e dagli ausiliari suoi. I Veneziani
nella battaglia di Ghiera d'Adda avendo ancora
l'erario loro pieno di tesoro perderono tutto
lo stato senza poter essere difesi da quello;
e quel danno ch'un esercito ben pagato avea
prodotto, fu riparato dal valore di que'
gentiluomini che difesero Padova, e non costarono
stipendio alla republica.
Io dubiterei d'annoiare in cosa così evidente
i miei lettori, s'io non vedessi una innumerabile
quantità d'errori commessi per la falsa persuasione
del contrario, e non sentissi infinita gente
chiamare il denaro nerbo della guerra. Certamente
è cosa meravigliosa ed incredibile che, non
leggendosi nella storia di duemila anni esempio
alcuno di nazione denarosa, che ne abbia
distrutta una povera ma numerosa, molti che
i poveri abbiano depredati i ricchi, non
si sia svelta ancora questa sentenza dagli
animi umani. Le ricchezze di Babilonia furono
preda della povera Media e della selvaggia
Persia. Queste nell'arricchirsi di tante
spoglie perdettero ogni forza e virtù; onde
i Traci e i Greci, poverissima gente, fiaccarono
le arme di Dario e di Serse. Né avrebbero
i loro successori avuto mai vantaggio sulla
Grecia, se non avessero riempiute le città
dell'Asia Minore d'oro e di tiranni, corrotta
Sparta, e quasi comprata Atene. Allora fu
che Tebe e la lega Achea cominciarono a valere,
e valsono più i soldati e la virtù loro,
che il danaio e le arti della pace d'Atene.
Né molto tempo dopo la povera Macedonia mossasi
a disfare l'antico imperio persiano, e conducendo
seco ferro da opporre all'oro, dimostrò in
quale de' due metalli era forza maggiore;
e che il ferro trovava l' oro fino nell'
India, l' oro non lo spuntava, ma anzi più
l'aguzzava. Ma subito morto Alessandro, le
ricchezze fecero quell'effetto ch'esse veramente
producono, quanto è a dire, tolsero il nerbo
all'armi della guerra. Così potette Roma,
che vivendo sempre povera avea sottomessa
e la ricca Sicilia e l'opulentissima Cartagine,
ingoiarsi questo imperio ancora, che da'
successori d'Alessandro era stato diviso.
Tranguggiatolo appena, s'indebolì, e le ricchezze
furono il termine della grandezza sua: e
quelle settentrionali regioni, che per l'inumanità
delle nazioni non avevano potuto ricevere
i tesori asiatici, restarono a nutrire que'
semi di virtù militare che doveano sfasciare
quell'imperio sterminato.
Né i secoli a noi più vicini sono stati meno
fecondi d'esempli consimili. I Tartari han
doma la Cina, l'India, la Persia, e la potenza
saracena. Gli Svizzeri sono i più poveri
popoli, ma i più valorosi. Gli Spagnuoli
ebbero meritamente nome grandissimo di valore
fin tanto che, scoperta l'America, col nuovo
creduto nerbo della guerra non sapeano intendere
come gli eserciti loro fussero deboli da
per tutto, e d'ogni cosa utile, fuori che
di denaro, sforniti: non avvertendo che,
quando è vicino il timore d'una disfatta,
il danaio non trova uomini da soldare, né
pane da vivere; come per contrario coloro
che seppero adoperare il ferro, non patirono
mai carestia d'oro. Né giova più enumerare
esempli; mentre e le Provincie Unite contro
la Spagna, e la Svezia sotto i due Gustavi,
e gli Svizzeri contro la lega italiana del
duca Carlo, e gli Ungheri non è gran tempo,
e gl'Irlandesi, e a nostri dì i Corsi hanno
palesato quanto valore conservassero nella
povertà.
Né la ragione è contraria all'esperienza.
L'uomo ricco s'espone a' perigli sempre meno
del povero, e quanto gli è più dolce, tanto
gli è più cara la vita; né d'un popolo di
mercanti s'avranno mai buoni soldati. Perciò
a Cartagine, a Venezia, all'Olanda è convenuto
avere armi straniere e mercenarie; ed hanno
creduto che il dare una piccola parte delle
loro ricchezze bastava a trovar gente che
si facesse uccidere per salvar loro il restante.
In sul fatto hanno dolorosamente conosciuto
che gli amici non erano men de' nemici di
que' tesori famelici, ed invidiosi. Questa
è una ragione: l' altra non meno potente
è che più sono le guerre perdute per aver
soverchio denaro e amarlo soverchiamente,
che per averne poco. Le ricchezze menando
seco l'avarizia impoveriscono l'animo di
chi le ha, e la guerra non vuole parsimonia
eccessiva. Atene perdette ogni guerra con
Filippo di Macedonia, perché le arti della
pace aveano in quella republica introdotto
un gusto alla quiete precursore della servitù,
e un importuno rincrescimento a spendere
ed a combattere. L'animo misero di Perseo
lo fece da' Romani sottomettere, e ne' tempi
de' nostri padri l'Olanda regolata da' due
fratelli di Witt corse gli estremi pericoli,
perché era e per terra e per mare, usando
risparmio, d'ogni cosa che a guerra si confacesse
mal provveduta. E se ad alcuno moverà difficoltà
come sieno state queste republiche tutte
potenti e prodi in mare, e' dovrà riflettere
come le armate di mare più hanno a combattere
cogli elementi che co' nemici; e questa perizia
del navigare, che nella pace è di mestiere
s'acquisti, solo l'avidità delle ricchezze
e il commercio la può dare. Avviene poi che
quell'ardire che dall'avarizia è generato,
si converte in valore quando è d'uopo guerreggiare.
Da quanto s'è finora detto si conchiude che
la moneta, utilissima come il sangue nel
corpo dello stato, vi si ha da mantenere
fra certi limiti, che sieno alle vene per
cui corre proporzionati; oltre ai quali accrescendosi,
o diminuendosi diviene mortifera al corpo
ch' ella reggeva. Non è dunque degna d'essere
accumulata indefinitamente da' principi,
e tesoreggiata. Quello che dee essere il
solo oggetto della loro virtuosa avidità,
perché è vera ricchezza, è l'uomo, creatura
assai più degna d'essere amata e tenuta cara
da' suoi simili, di quel ch'ella non è. L'uomo
solo dovunque abbondi fa prosperare uno stato.
Io vorrei poter avere eloquenza atta a comunicare
a tutti quella passione ch'io ho per l'umanità,
e sarebbe degno del nostro secolo che gli
uomini cominciassero ad amarsi tra loro.
Niente mi pare più mostruoso che vedere vilipesa
e fatta schiava, e come bestie trattata una
parte di creature simili a noi: il qual costume
nato in secoli barbari, nutrito da sozza
superbia nostra, e da vana stima di certe
estrinseche qualità di color di pelle, fattezze,
vestimenti, o d'altro, dura ancora a' nostri
dì. Ma a chiunque è degno d'esser nato uomo,
dee esser noto che il massimo de' doni fattici
in questa vita dalla Divinità è stata la
compagnia de' nostri simili, che dicesi società:
che Adamo fu il più grande imperatore, avendo
pacificamente posseduta la terra intiera,
ma il più miserabile, avendola colle sue
mani zappata: che tanto vale un regno quanti
uomini ha e niente più; tanto è più forte,
quanto più uomini in minor terreno: che non
v'è più stolta politica quanto spopolare
un regno in conquistarne un altro, come sarebbe
stolto spiantare una selva per trapiantarne
le piante in un suolo ove è certo che non
alligneranno: che non v'è peggior rimedio
a conservare uno stato, che struggerne gli
abitatori; siccome sarebbe stolta cosa se
un principe volendo risparmiare il nutrire
i cavalli della sua cavalleria, li facesse
uccidere e scorticare, e riempiendo le pelli
di paglia, di questi cavalli non dispendiosi
tenesse cura; giacché non dissimili sono
gli edifici delle città privi d' abitatori:
che finalmente l'esperienza fa anche a' dì
nostri vedere essere la Divinità tanto gelosa
delle ingiurie che gli uomini fanno agli
uomini, che molti paesi tengono ancora le
piaghe aperte, per avere già molti secoli
sono spopolate le loro terre senza vera necessità.
Adunque non v'è cosa che vaglia più dell'uomo,
e sarebbe desiderabile che si conoscesse
quanto lucrosa mercanzia egli è, e come mercanzia
si cominciasse a trattare; che forse l'avarizia
opererebbe quel che non può la virtù. I Cinesi,
de' quali la scienza del governo è con varietà
d'opinioni da molti stimata assai, da altri
vilipesa, hanno una grande e gloriosa pruova
in favor loro nel mostrare quanto sia popolato
il lor paese, e quanto gli ordini del governo
conferiscano alla popolazione.
Ma poiché questa parte della scienza di governare
è di grandissimo rilievo, né in tutto aliena
dalla presente materia, sebbene ella siasi
da me in altra opera dichiarata tutta, pure
e' mi par bene anche qui ragionarne. Dico
adunque che i mezzi da accrescere la popolazione
sono sei. I. La esatta giustizia e la libertà,
che è quanto dire le buone leggi: intendendo
io qui per libertà, non l'aver parte al governo,
ma l'esercizio pacifico di quanto dalla retta
ragione, e dalla vera religione (che è lo
stesso) non è vietato, né nuoce al bene dell'intero
stato. Questa giustizia e libertà compensa
da per tutto ogni bellezza di clima e di
paese; e si vede che le rupi degli Svizzeri,
e le paludose Polesine di Rovigo con queste
arti hanno spopolata la fertile Lombardia.
II. La virtù militare, che difenda dalla
servitù, e le savie provvidenze contro alla
pestilenza; sebbene la prima di queste due
nasca sempre dalle buone leggi; né c'è valore,
ove non è libertà. III. La giusta distribuzione
de' tributi; la quale non nuocendo alle arti
ed al comercio, non riduca gli uomini alla
mendicità; perché questa, scemando i matrimoni
e la prole, nuoce talora più della peste
istessa. IV. L'egualità delle ricchezze;
perocché il lusso, compagno delle ineguali
distribnzioni testamentarie, toglie la diramazione
alle famiglie, ed è da per tutto col forzoso
celibato accoppiato. V. Il principe proprio,
senza il quale tutte le cose di sopra enumerate
non si possono stabilmente avere. VI. L'agricoltura
favorita più d'ogni cosa, e più del comercio.
L'uomo è animale che di terra si nutre. Il
comercio non produce nuovi frutti della terra,
ma solo o gli raccoglie, o gli trasporta,
o gli scomparte ed espone in vendita; onde
se questi mancano, ogni comercio s'estingue.
L'agricoltura è dunque la madre di esso,
e senza esso si viverebbe, quantunque a stento;
senza l'agricoltura affatto non si può vivere.
Onde è ch'egli è un errore quanto generale,
tanto calamitoso l'essere l'agricoltura disprezzata
da tanti e tanti, che questa voce commercio
commercio replicano meccanicamente sempre,
e senza intenderla esaltano, solo perché
ella è venuta in moda; e chi la proferisce,
comunque egli lo faccia, purché sia con aria
grande e carica di mistero, si manifesta
per uomo intelligente di politica e di stato.
Classe d'uomini quanto perniciosa allo stato,
tanto a' dì nostri nelle civili e familiari
conversazioni per nostro danno multiplicata.
Basti questo qui. Il restante è da me disputato
in altra opera, che comprende l'arte intera
del governo, la quale, quando la malignità
della sorte che mi opprime, e quasi mi schiaccia,
non dico si cangiasse, ma intermettesse alquanto,
non dubiterei di publicare.
CAPO QUINTO
Del conio.
Conio è voce tratta dalla lingua greca, nella
quale eichon dinota l'immagine, onde corrottamente
si fece iconiare, per dinotar l'imprimere
d'una immagine su d'alcuna cosa. Dal significato
generale si applicò più particolarmente a
quell'imprimere, che si fa sulle monete,
di quelle immagini che servano a darle autorità.
Dell'antichità di quest'uso molto hanno gli
eruditi disputato, e si vede che presso ogni
popolo col medesimo fine si è usato; perché
tutte o colla imagine delle divinità proprie,
o colle teste de' loro principi, o finalmente
cogli emblemi, e dirò quasi colle imprese
delle loro città, le hanno contrassegnate:
ma queste ricerche e questi studi si convengono
assai più all'erudizione, che alla scienza
di governare. A me si conviene ad altra parte
rivolgere il discorso; e quanto al conio,
è necessario avvertire ch'egli non è già
sul metallo quello stesso che sono le firme
sulle cedole o su' bullettini: perché queste
costituiscono tutto il valore alla cedola,
e la carta su cui si fanno è ugualmente atta
a ricevervi i caratteri di maggiore o di
minor somma a piacimento altrui. Quindi non
hanno i bullettini altro valore che l'estrinseco;
né si può dire che abbiano d'intrinseco più
di quel mezzo baiocco che vale la carta.
Nelle monete la cosa procede diversamente.
Il conio dimostra quel valore che già esse
hanno in sé, non lo produce; e quando il
conio ne dimostrasse un altro, questo non
distrugge quello, ma restano ambedue insieme;
e quello del conio e della legge, che perciò
dicesi estrinseco, corre fin là dove la legge
si stende ed ha forza d'operare; l'altro
che è nella natura e nel metallo rinchiuso,
e perciò chiamasi intrinseco, resta ed ha
luogo dovunque non può averlo il primo. È
il conio adunque una rivelazione del valore
intrinseco fatta dalla pubblica autorità
giustamente e rettamente adoperata: né è
nell' arbitrio del principe il dare al metallo
coniato quel valore che gli piaccia, ma si
conviene (generalmente parlando) all'intrinseco
uniformarlo. Di questo essendosi detto assai
là dove si è mostrato il valore intrinseco
del metallo indipendente dall'uso suo per
moneta, non è d'uopo che si torni qui a dire.
Resta solo a ricercare se il valore del coniare
abbia ad essere per appunto lo stesso che
quello del metallo, o diverso; sulla qual
materia è da sapersi imprima che in tutti
i principati egli è oggi maggiore, valendo
la moneta più del metallo in lastre tutto
quel che vale la spesa del conio con qualche
poco di più: questo dippiù è quel denaro
che si ritiene il principe per dritto della
zecca, chiamato da' Francesi droit de seigneuriage,
e suole importare il due e 1/2 per 100. La
spesa del conio è diversa secondo il vario
vivere e pagare degli operai ne' vari paesi;
ma all'ingrosso si valuta a 1/2 del valore
intrinseco del rame, e 1/50 dell'argento,
e 1/400 dell'oro.
Nell'antichità io credo, benché di certo
non si sappia, che la spesa del conio non
fosse nel valore della moneta compresa, vedendosi
che gli antichi delle monete, come di cosa
sacra, perché confacente alla gloria ed alla
fama, fecero stima. E questo desio di gloria,
ch'era l'ultimo fine di quelle nazioni, come
fra noi (grazie al Dio della verità) è la
vita seconda, fece sì che in su le monete
somma cura presero d'improntare con nobilissime
sculture quegli accidenti ed uomini, che
credettero degni dell'immortalità.
Ciò posto, veggiamo se è cosa utile che la
zecca sia pagata da chi riceve la moneta
venendo nel valore di essa compresa, o dal
publico con qualche dazio che dal principe
s'impieghi a mantener la zecca. Bernardo
Davanzati conclude un suo non savio discorso
sulle monete con questi sentimenti: ((E per
levare ogni tentazion di guadagno e tutti
i segni nettare, e la cosa far tutta orrevole
e chiara e sicura, vorrebbe della moneta
tanto essere il corso, quanto il corpo; cioè
spendersi per quel oro o ariento che v'è:
tanto valere il metallo rotto e in verga,
quanto in moneta di pari lega; e potersi
a sua posta senza spesa il metallo in moneta,
e la moneta in metallo, quasi animale anfibio,
trapassare. In somma vorrebbe la zecca rendere
il medesimo metallo monetato, che ella riceve
per monetare. Adunque vorrestù la zecca metterci
la spesa del suo? Maisì, che di ragion civile
molti contendono tale spesa toccare al comune,
per mantener nella republica il sangue; come
gli toccano le paghe de' soldati e i salari
de' magistrati per mantenere la libertà e
la giustizia. Ad altri pare onesto che la
stessa moneta paghi suo monetaggio, fatta
peggiore di cotanto, e vaglia quel più del
suo metallo sodo, come il vasellamento, gli
arredi, e ogni altra materia lavorata. Finalmente
l'antica usanza del cavar della moneta la
spesa veggenti i popoli, è prescritta, e
ne sono i principi in possessione. Io non
voglio disputar co' maestri; ben dico che
se pur la zecca non dee questa spesa patire,
almeno facciala menomissima, e piuttosto
sien le monete men belle. Ma perché non piuttosto
(come vuole alcuno) ritornare all'antico
modo di gettarle? Qui sarebbe ogni vantaggio.
Due punzoni d'acciaio stamperieno il dritto
e 'l rovescio d'una moneta in due madri,
e quasi petrelle di rame, ove due uomini,
senz 'altra spesa che calo, rinettatura e
carbone, ogni gran somma il giorno ne getterieno,
tutte eguali di peso e di corpo, e perciò
più atte a scoprire o forbicia o falsità:
non potendosi la moneta di falso metallo,
che è più leggieri, nascondere alla bilancia,
se è di corpo ordinario, né alla vista, se
più o meno è larga o grossa. E giustificatissime
si farieno, se gli uficiali stessero a vederle
fondere, allegare e gittare corampopolo dentro
a que' ferrati finestroni ordinati da que'
buoni e savi cittadini antichi. A questo
modo, chi non vede che sbarbate sarieno la
spesa, la froda e il guadagno, radici pessime,
che troncate sempre rimettono, e fanno peggiori
le monete? Finalmente, quasi per corollario
aggiungerò che l'umano commerzio ha tanta
difficoltà e fastidi per conto di queste
benedette monete, che sarebbe forse meglio
far senza, e spender l'oro e l'ariento a
peso e taglio, come ne' primi tempi ed ancor
oggi usano que' della Cina, i quali per arnesi
portano in seno lor cesoie e saggiuolo, e
non hanno a combattere che colla lega, la
quale colla pratica e col paragone pur si
conosce )). Qualunque arte v'avesse egli
usata, non potea certamente in così pochi
righi racchiudere più cose false, e che lo
dimostrassero meno intelligente della materia
sua, di quel ch'egli s'abbia fatto: sicché
come di cosa difficile eseguita ne merita
lode.
È falso, e sarebbe calamitoso se il monetaggio
non si ritenesse alla zecca dal principe.
È da uomo non intendente anteporre l'antica
imperfetta ed incommoda maniera di coniare
a martello, alla bellissima e meravigliosa
invenzione del torchio. È da avaro e misero
d'animo, per far un risparmio di poche centinaia
di scudi, far brutte e goffe le monete, che
sono opere pubbliche consecrate all'immortalità.
È da vecchio fastidioso e molesto il voler
bandir la moneta, e lodare i Cinesi in quello
in cui, non altrimente che nella loro scrittura
e lingua, meritano biasimo e dispregio.
E quanto al primo: perché in prima, domando
io, s'ha da fare quel che il Davanzati propone?
Questo non giova ad evitare che altri batta
moneta; perché dovendo questi ritenersi quel
che la fattura vale, né potendo mai ad un
privato valer questa meno che alla zecca
del principe; se nel caso ch'egli propone
vi saria perdita, nel presente stato non
v'è guadagno. Or a ritener l'uomo dal fare
alcun delitto a traverso alle pene ed ai
timori, non si richiede ch'egli vi perda,
basta che non vi guadagni assai: sicché non
giova quel ch'egli pensa e propone; ma quel
ch'è peggio nuoce. Gli orefici in ogni loro
bisogno fonderebbero la moneta, la quale
è assai più facile a procurarsi che la pasta
del metallo; sicché lo stato sarebbe dagli
orefici quasi dissanguato. Onde bisognerebbe
star sempre in sul battere; e se oggi per
esempio basta che si zecchino cinquanta mila
scudi d'argento e d'oro ogni anno, per andar
supplendo sempre all'insensibile dissipamento,
allora bisogneria batterne più di quattro
volte tanto. La zecca per sua natura è un
aggravio del pubblico, come sono le altre
spese pubbliche, e sempre dal pubblico si
trae; perché fra il principe giusto e il
suo popolo non s'ha mai da porre diversità
alcuna, nemmeno di parole. Or il Davanzati
propone di quatruplicare un aggravio al pubblico,
proponendo per eccesso di zelo un'operazione
che gli pareva eroica, e di cui egli non
vedea le conseguenze perniciose. Né questa
mia considerazione manca di esempli di nazioni
che per esperienza l'hanno conosciuta. L'Inghilterra
nel 1698 non valutava la moneta più della
pasta onde si facea, e con una imposizione
sul vino manteneva la zecca. È incredibile
quanta moneta si coniasse continuamente,
e quanta se ne liquefacesse tosto, mentre
fin gli appaltatori delle zecche straniere
giungevano a far commercio delle monete d'Inghilterra,
come delle lastre che da Spagna si danno
avrebbero fatto, disseccando così l'Inghilterra
d'ogni danaro. Quanto guadagno apportasse
questo agli officiali della zecca, quanto
costasse al pubblico, lo conobbe Gio. Locke,
e poi il Parlamento istesso, e conobbe ch'era
falso rimedio l'alzamento a questo male che
dal difetto della zecca proveniva. Adunque
questo consiglio del Davanzati a' soli officiali
della zecca è buono e profittevole, a tutti
non che inutile è nocivo.
Ma in oltre se il conio è una comodità aggiunta
alla moneta, non è cosa ingiusta volerne
rifondere il danno ai bevitori ed ai cultori
delle viti, mentre il comodo è degli uomini
denarosi? Il dazio è un incommodo produttore
d'un comodo maggiore; e perciò sempre è desiderabile
e giusto che soffrano il peso coloro che
ne hanno il vantaggio proporzionatamente:
e questo appunto ottienesi quando nella moneta
il prezzo dell'opera è compreso.
Non è meno palesemente biasimevole l'altro
consiglio del Davanzati sull'istrumento da
coniare. Su di che io desidero che i miei
lettori leggano il capo XVIII del Saggio
sul commercio, ove si racconta quel ch'Errico
Poulain, presidente della Corte delle monete,
fece nel 1617 per escludere l'invenzione
del torchio, che oggi usasi, la quale da
Nicola Briot suo inventore era proposta,
e fu poi portata in Inghilterra ad eseguire.
In questo capo, che è certamente il più bello
di tutta quella giudiziosa operetta, v'è
il carattere degli uomini simili al Poulain
con tale e tanta grazia e con pennellate
sì vive dipinto, ch'ei merita d'essere da
ciascuno appreso a mente, e nella condotta
della sua vita ai suggetti viventi, che pur
troppo abbondano, comparata.
I vantaggi del torchio, enumerati dal Locke,
e tutti verissimi sono: I. La maggiore ugualità
nel peso delle monete; perché non si fondono
ad una ad una, ma in lastre, che poi si tagliano
in tanti pezzi rotondi, i quali prima di
coniarsi si pesano e si raggiustano. II.
Liberarci dal timore delle falsificazioni.
Nell' antica maniera un uomo solo conduceva
l'intiera operazione, ed i conii, o sia punzoni,
da lui solo erano percossi; quindi non era
difficile che altri in sua casa nascostamente
i conii imitasse. Oggi sarebbe di mestieri
che uno avesse in sua casa tutto quel gravosissimo
torchio, altrimenti la diversità dell'impronto
discuoprirà la frode. Si possono imprimere
anche gli orli, come nell'ultime nostre monete
d'oro s'è fatto: il che libera dal timore
del risegamento. III. Il tempo, la spesa,
gli operai sono minori, la bellezza delle
monete incomparabilmente maggiore.
Del conio s'è detto assai. Tempo è di ragionar
della lega che nel metallo si mette, come
si dirà nel seguente capo.
CAPO SESTO
Della lega.
I metalli preziosi, quando nelle naturali
vene si generano, non solamente sono fra
dure pietre racchiusi ed intralciati in esse
con minutissime ramificazioni; ma nella stessa
loro sustanza contengono sempre qualche parte
di basso metallo incorporata, che dicesi
lega: né quando giù per le vene de' fiumi
corrono, da questa impurità si purgano; ma
solamente col fuoco e coll'arte se ne possono
distaccare. Allora nell'oro si trova misto
per lo più l'argento, e trovavisi anche il
mercurio e il rame: nell'argento il piombo
e il mercurio. Or questa purità del metallo,
nella quale la natura non lo produce, e l'arte
può dargli, è dagli orefici considerata come
un tutto, che si divide in certe parti o
gradi, secondo la proporzion de' quali si
misura la purità. Nell'oro sono ventiquattro
le parti, che diconsi carati, nell'argento
dodici, dette once, e sono in sterlini suddivise.
Questa lega che ha naturalmente l'oro e l'argento,
ha data origine a quella che le monete hanno,
e nel coniarsi ricevono. È questa una porzione
di vile metallo mista in uno più prezioso,
ma con tanta disuguaglianza, che il valore
della lega non meriti esser considerato;
perocché quando fosse una metà della materia
d'un metallo, e l'altra d'un altro, come
sono i soldi di Francia, o le basse monete
di Venezia e di Turchia, in queste il rame
non si chiama lega, ma si dicono monete di
due metalli.
La necessità di quest'uso è nata da due primarie
cagioni. Una è che il purgare il metallo
da ogn'impurità è un'operazione che consuma
gran tempo e fatica; onde nacque la risoluzione
di trattare i metalli con quella lega che
dalla natura avevano; ma conoscendosi poi
che questa è varia, e che siccome il più
puro oro che si scavi appena è di 23 carati,
di grado in grado se ne trova di quello di
16, e talor anche di 12 (detto dagli antichi
electrum, e che è forse la nostra tombaca),
convenne ridurre tutta la pasta che doveasi
coniare ad uno stesso grado, purgando la
soverchio impura e aggiungendo lega alla
più pura del grado determinato; e così oggi
si siegue a fare. Così al luigi d'oro di
Francia è prefissa la bontà di 22 carati,
alle doppie di Spagna di 21 1/4, ai zecchini
veneziani di 23 3/4. La stessa ai fiorini
e agli ungari, sebbene con non eguale tempra
di metallo: e quanto all'argento i Francesi,
come noi usiamo, danno alla moneta II once
di fino, ed una di lega. L'altra ragione
non meno considerabile è stata questa, che
l'oro purissimo è soverchio flessibile, e
colla lega s'indura tanto che si è giunto
fino all'arte di temperarlo; l'argento per
contrario, quando è purissimo, è più fragile,
e alla violenza del conio, che è grandissima,
quello cedendo, questo spezzandosi mal possono
resistere; perciò non è meraviglia che antichissimo
sia l'uso della lega.
Le medaglie greche e le romane, le puniche
e le spagnuole l'hanno, con questa differenza:
che quelle d'argento, principalmente le romane,
ne hanno più delle presenti, quelle d'oro
fino a' tempi d' Alessandro Severo sono singolarmente
pure. Le medaglie di Macedonia hanno 23 carati
e 16 grani di puro, e nelle romane s'osservò
che una medaglia di Vespasiano d'oro non
avea di lega più d'una 788 parte. Le consolari
d'argento non oltrepassano 10 once di fino;
ma da Alessandro Severo in poi non si trova
altro che disordine, frode e vil mescuglio
di lega. Quelle d'oro non hanno quattro quinti
di buono, e quelle d'argento un terzo; e
così declinando sempre si trovano fino ai
Goti peggiorate nell'uno e nell'altro impero.
Ne' tempi seguenti, per la loro infelicità
meritamente chiamati barbari, non può trovarsi
regola o misura stabile alla bontà delle
monete. È vero che Carlo Magno, e poi Federico
II in un più tollerabile stato le posero,
ma da questo subito declinarono. Nella Francia
quasi in ogni anno variarono con disordine
e disuguaglianza incredibile. Dal 1302, dal
qual anno abbiamo più accurate notizie, non
ebbero queste mai posa e regola alcuna. Fa
meraviglia ed orrore il vedere quali mutazioni,
e quanto grandi sofferse il valore del fiorino
riguardo allo scudo dal 1345 sino al 1357
sotto i regni di Filippo VI e Giovanni. Dalla
Pasqua del 1355 fino alla fine dell'anno
22 volte si cambiò prezzo alla moneta, e
dal valore di 16 scudi si pervenne a quello
di 53 al primo di gennaro, ed al dì cinque
di esso si calò a 13 scudi e 4 denari. In
fine la Francia, la quale sopra ogni altra
nazione ha più spesso messa la mano alle
monete, e mutatele quasi con quella volubilità
istessa ch'ella fa de' vestimenti, presenta
agli occhi di tutti nelle storie del Blanc
e di altri un monumento singolare di tempi
miserabili e calamitosi. A chi mancasse l'opera
di questo dotto francese, può bastantemente
supplire il Dizionario del du Change accresciuto
da' PP. di S. Mauro, alla voce Moneta.
Non minore è il disordine in que' tempi nelle
monete italiane, avendo la quantità di diversi
principi fra noi cagionato quello stesso
che in Francia operava il cattivo governo
d'un solo. Perché egli è da sapersi che niuna
quantunque piccola città è in Italia, che
nelle varie vicende sue non abbia goduto
in qualche spazio di tempo un'ombra di libertà,
ed in questo tempo non abbia voluto battere
moneta. Nel nostro Regno i principi beneventani,
che dopo la distruzione del regno longobardo
rimasero sovrani, i salernitani, i consoli
e dogi napoletani fecero proprie monete:
indi, poiché da' Normanni fu in un solo regno
ridotto, né mai da questo stato s'è tratto,
egli solo in tutta Italia ha goduto d'una
sola moneta. Sono state perciò queste le
più ordinate; e da' Normanni in Sicilia,
dagli Svevi in Messina e in Brindisi, poi
in Napoli, che sede regia cominciò ad essere,
si sono battute. Ma il restante d'Italia,
che tutta divisa in piccolissime città, e
queste ora sotto tirannetti, ora in una spezie
di libertà, da diversi umori di fazioni miseramente
lacerata, fino al decimoquinto secolo visse;
non vi fu città, o signore, che non battesse
moneta, e (quel ch'è peggio) che diversa
dall'altre in peso ed in bontà non la facesse.
Nel solo stato che oggi è della Chiesa, han
battuto moneta i papi, il Senato romano,
Ravenna sotto i Goti, gli esarchi e i vesrovi
suoi, Rimini, Bologna, Ferrara, Forlì, Pesaro,
Sinigaglia, Ancona, Spoleti, Ascoli, Gubbio,
Camerino, Macerata, Fermo; e sulla guisa
istessa è tutto il restante d'Italia. Quel
che una tanta confusione cagionasse è facile
l'indovinarlo. La tirannia de' principi è
congiunta sempre colla stupidità de' sudditi.
Quel danno che colla lega e coll'alzamento
tentavano i superiori di fare, questi, non
lo sentendo, e quasi non se ne accorgendo,
lo minoravano; finattanto che le turbolenze
delle armi, come sempre avviene, fecero girare
la povertà e la ricchezza con diverso movimento
da quello che con queste arti si sperava
dar loro; con ducendo il commercio le ricchezze
più lentamente, che la guerra e la rapina
non fa. Non è però che di alcune monete non
fosse il credito maggiore, e che per lo più
non si usasse d'apporre ne' contratti che
la moneta da pagarsi dovesse esser la tale
o la tal altra, e vi si aggiungessero le
qualità di aurum dominicum, probatum, obrizatum,
optimum, pensantem, expendivilem, o altro.
Fra le monete più accreditate furono i denari
di Pavia e di Lucca, detti papienses e lucenses,
di cui frequenti memorie troviamo; finché
avendo battuto i Fiorentini il loro fiorino
d'una dramma d'oro puro, da questa restarono
tutte l'altre oscurate e vinte. In que' secoli
per la varietà delle monete nacquero i nomi
di moneta fortis e debilis ad esprimere la
maggiore o minor quantità della lega: e da
queste indi a poco nacque l'altra di moneta
infortiata, o infortiatorum. Perché siccome
altamente si querelarono i popoli degli alzamenti
e della lega, spesso dovettero i principi
ristorare quella moneta che aveano così bruttata;
il che fu detto in que' secoli inforziare
in vece del latino restituere, e moneta infortiatorum,
quasi moneta restituta. Di questi denari
trovasi fatta menzione fin dal 1146.
Benché non s'appartenga al mio istituto,
mi rincresce trapassar tacendo una mia congettura
che per la singolarità e novità sua potrebbe
esser gradita. Io credo che dal nome di questa
moneta venga quello che ha la seconda parte
de' Digesti, che dicesi Infortiatum. La moneta
inforziata occupava il luogo di mezzo tra
la moneta vecchia buona, e la nuova abbassata:
questa corrispondenza poté fare che, poiché
fu dato il nome al Digesto vecchio e al nuovo,
e per quel di mezzo non se ne trovava alcuno,
il sovvenire di questa moneta allora celebrata
le avesse procurato un tal nome. Per istrana
che sembri questa etimologia, certamente,
se si riguardano le altre due, non si crederà
indegna della loro compagnia. L'una viene
dal frontispizio del titolo, che ha De veteri
iure enucleando, l'altra da quello De novi
operis nuntiatione. Cose così mal intese
e goffe non debbono promettere al nome infortiatum
una più ragionevole etimologia, e tutto all'infelicità
de' tempi sarà perdonato.
Ritornando ora al mio proposito, stimo necessario
dileguare dagli animi quell'errore per cui
si crede poter nuocere la lega alla moneta,
onde di moneta buona e cattiva spesso si
ragiona. Tutta la moneta è ugualmente buona;
e quella che ha dieci carati di lega è buona
tanto, quanto quella che n'ha un solo. La
ragione è che non si valuta la moneta secondo
il suo peso totale, ma secondo la quantità
di quella parte di buon metallo che v'è.
Quindi se una libbra di moneta d'oro, che
ha 24 carati di buono, valerà quanto una
libbra e un quarto di moneta di 18 carati,
ognuno comprende che in tanta diversità di
lega sono egualmente buone le monete: giacché
il metallo di lega si può sempre segregare
dal prezioso. Perché dunque, chiederanno
molti, si dicono le monete di molta lega
cattive ? Nasce questo, perché molte volte
la frode o la forza della legge fa prendere
la moneta di molta lega per quel valore che
avrebbe, se tutto il suo peso e la materia
fosse di metallo puro. Così è, quando ad
una libbra d'oro di 24 carati equivale una
libbra di 18 in cui solo tre quarti di oro
vi sono, l'altro quarto è di lega. È adunque
la legge che fa cattive le monete, e non
la lega. Chi vuole che in uno stato sieno
tutte buone le monete, non ne valuti alcuna,
né dia loro prezzo; perché se sono disuguali,
nell'apprezzarsi l'una coll'altra saranno
ragguagliate dalla moltitudine, misuratrice
giustissima e fedele; se sono tutte del pari
basse di lega, coll'incarire apparente d'ogni
cosa sarà aggiustata la loro proporzione
a' prezzi delle merci, secondo quella porzione
di buon metallo che contengono.
Che questo ch'io dico sia verissimo appare,
oltre alle altre ragioni, dal vedersi usare
dal più delle nazioni una moneta di tanta
lega, che diviene composta per metà d'un
metallo prezioso, e d'uno vile, detto da'
Francesi billon, e dagli Spagnuoli vellon;
e questa non v'è chi ricusi prenderla; perché
è valutata, e corre per quel di buono che
ha in sé. E di questa, secondo ho promesso,
entro a ragionare prima di finir questo libro.
Molti e gravi scrittori, e le meglio ordinate
repubbliche, coll'autorità e coll'uso esaltano
e pregiano queste monete di due metalli,
e come una istituzione utilissima e meravigliosa
la custodiscono;l dall'esempio, e voci de'
quali sonosi molti governi mossi ad usarla,
come un rimedio d'ogni gran male, quasi con
quella speranza ed esito stesso, che degli
elixir negli estremi morbi si suole. Le utilità
vere di questa spezie di moneta, come le
numera il Broggia, sono: I. Che la moneta
d'argento piccola si consuma assai; e s'ella
è tutta di buon argento, il danno è più grave
che s'è di bassa lega. II, Che si dà uso
a quegli argenti che pervenissero nella zecca
di più basso carato delle monete grosse che
vi si zeccano: il quale argento, se si dovesse
raffinare, richiede più spesa che a fonderlo
con maggior lega ed abbassarlo. III. Che
facilita il minuto commercio. Sono queste
utilità tutte giudiziose e vere; ma sono
piccole assai in confronto d'un tutto, qual
è uno stato. E quanto al consumo, io dimostrerò
al seguente libro che questo risparmio, se
nel nostro Regno si fosse fatto, non monterebbe
a più di 20.000 ducati in 50 anni, o sia
a 400 ducati l'anno; economia per un regno
intero così meschina e misera, che fa mancare
il fiato. Questa verità è dimostrata da un
calcolo tutto tirato da' princìpi certi e
conosciuti: tanta differenza v'è tra l'affirmare
all'ingrosso, e l'esaminare su i numeri le
cose.
L'altra utilità è anche meno sensibile di
questa. Appena essa monta in una coniata
d'un milione di ducati a 2.500 ducati: perché
non cade che sugli argenti di più bassa lega,
e non importa altro che il risparmio dell'affinamento.
Nella nostra zecca si valuta la spesa a 32
grana per libbra d'argento, e la libbra ne
vale quasi 1.600; questo risparmio non giunge
a quattro grana a libbra: dunque in un milione
di ducati (ch'io suppongo che tutto s'abbia
da raffinare) v'è la spesa di 20.000 ducati,
e su questi 2.500 di guadagno. Quest0 conto
ha tutte le agevolezze possibili. Ora avvertasi
che in un regno, quanto è il nostro, non
vi deve essere più d'un milione di ducati
di moneta di billon; e il coniarne tanta
succede almeno in un secolo: aggiungasi che
il coniare il billon costa quasi il doppio
dell'argento; il rame che quasi vi si perde
dentro, e ognuno vedrà che o vi è perdita,
o non v'è guadagno affatto.
Che se si loda la maggior facilità del commercio,
questa cura conveniva più a' secoli passati,
che al nostro. S'introdusse la moneta bassa
per lo scemamento dell'argento nell'Imperio
romano, come da Nicolò Oresmio vescovo di
Lexovio è detto: ((et quoniam aliquoties
in aliqua regione non satis competenter habetur
de argento, imo portiuncula argenti, quae
iuste dari debet pro libra panis, esset minus
bene palpabilis propter nimiam parvitatem,
ideo facta fuit mixtio de minus bona materia
cum argento; et inde habuit ortum nigra moneta,
quae est congrua pro minutis mercaturis)).
Questa moneta è la stessa che la moneta nigellrum,
di cui si trova frequente menzione nelle
carte di que' secoli. Nel nostro secolo adunque
abbondante tanto d'oro e d'argento, che si
cominciano a dismettere le più basse monete
di rame, come noi abbiamo fatto del cavallo
e de' duecavalli, è più tosto da dismettersi
la moneta di cui ragioniamo, che da desiderarsi
e promuoversi ove ella non è. Il non aver
noi moneta mezza fra la pubblica e il carlino,
è noto che non ci arreca incommodo nessuno;
e quando ce lo dasse, sarebbe meglio medicarlo
con monete di buon argento framezze tra il
carlino e i due carlini, come facciamo noi
colle 12 grana, e 13, e i loro doppi, che
con moneta di lega. E che questa, non ostante
i suoi piccoli comodi, non s'abbia da introdurre
ove non è, lo convince questa grande e potentissima
ragione, che ogni nuovo, quando non è utilissimo,
perché egli è nuovo, è cattivo.
Che se la bassa moneta avesse la virtù di
restare in un paese, e non fuggire, come
molti se ne persuadono, sarebbe molto bella
cosa, e non altro che questa dovrebbe coniarsi.
Ma questo uscire delle monete e scappare,
e per contrario venire e correre sono frenesie.
Le monete non fuggono, né la loro rotondità
e leggerezza le lascia portar dal vento.
Io m'offro garante a tutti, che purché non
si tocchino, se se ne vanno, sarà in danno
mio. Sono gli uomini che ne portano le monete,
e questi lo fanno o per necessità, o per
utilità. Se è per necessità, quando non possono
mandar la moneta a sanare le sventure e i
bisogni, vanno essi via: e sebbene l'uomo
con moneta vaglia più di chi n'è senza, la
moneta senz'uomo non val nulla affatto. Dunque
alle necessità s'ha da soccorrere con fare
uscir la moneta, non col ritenerla: perché
o l'uomo caccia essa, o essa l'uomo.
Alla utilità, per cui esce anche la moneta,
s'ha da aver questo principio per fermo,
che la moneta cattiva scaccia la buona. Cattiva
è quella ch'è mal valutata sulla proporzion
de' metalli, ed ha meno metallo che prezzo
estrinseco della legge. Perciò non è vero
che il billon mal valutato abbia virtù di
restare; esso ha la virtù di mandar via l'argento
e l'oro; e se ciò sia desiderabile è manifesto.
Il peggio è che all'ultimo comincia ad andarsene
anch'esso, avendo cagionata mendicità nello
stato. Che se è ben valutato, allora mai
non usciranno le monete per difetto intrinseco
che sia in loro; ma la piaga sarà in altra
parte; e là, non sulle monete, conviene applicar
le medicine. E che la sproporzione di valuta
sia il solo difetto, per cui escono le monete
da uno stato, sarà dimostrato nel libro che
siegue.