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Il sapere del biologo
Fondamenti della biologia?

di Giuseppina Saccone
«Se io ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti.»
da una lettera di Isaac Newton a Robert Hooke
Come vivere felici pur essendo ossessionati
Sono una biologa specializzata in zoologia e appassionata di botanica ma, sarebbe meglio dire di fiori. Insegno scienze naturali in una scuola media. Ancora per poco: tra breve andrò in pensione. Da anni accumulo taccuini nei quali appunto riflessioni sul mio lavoro e i problemi che incontro. E' però la prima volta che scrivo un articolo così impegnativo. Mi è stato proposto, infatti, di parlare dei 'fondamenti della biologia'. L'ho interpretato come un invito ad avventurarsi sui terreni impervi della biologia teorica e, persino, a sviluppare considerazioni sulla filosofia della biologia, non escludendo, quindi, nemmeno la questione più ardua di tutte: definire la vita. D'accordo, si dice, la biologia è lo studio del vivente, ma cos'è il vivente? Dovresti saperlo, visto che non hai fatto altro che studiarlo! La risposta, per la maggioranza delle persone di media cultura, è ovvia ma, immagino che un pubblico di appassionati di filosofia esiga qualcosa in più, quel qualcosa che non si trova con facilità nei libri più specialistici e nei testi universitari. Vorrebbero, cioè, una definizione veramente esaustiva. Cos'è il vivente? L'oggetto dei miei studi, rispondo, tutto ciò che respira e si nutre, trae energia dal sole, o da altri elementi esterni all'organismo stesso. Senza ricorrere al microscopio e ignorando quindi tutta la fauna batterica invisibile ad occhio nudo che si annida sotto le ascelle, nel naso, nella bocca, o nell'intestino, possiamo facilmente accorgerci che un gatto, un cavallo, un sorcio, un pesce ed un verme sono vivi: nascono, crescono, muoiono. Anche le piante sono espressione di un ciclo vitale e in esse avvengono reazioni chimiche a milioni. Ogni vivente è un laboratorio di chimica, una fabbrica che prima demolisce le proteine ingerite dall'esterno e poi ne ricostruisce di nuove, seguendo istruzioni provenienti dagli acidi nucleici e da segnali intracellulari dei quali ignoriamo ancora molto. Ogni vivente è potenzialmente in grado di riprodursi, generando una prole; può ammalarsi e soffrire. Invecchiamento e morte sono ineluttabili. Queste sono osservazioni talmente banali che provo un certo imbarazzo nell'esporle. Il problema sta forse nel fatto che così parlando non ho dato del vivente che una definizione descrittiva, un po' a casaccio, mentre la biologia è molto più di una descrizione e cerca un'esattezza di spiegazione forse chimerica. Georges Canguilhem, grande testa d'epistemologo, ha suggerito di vedere la biologia come una costituzione storica della scienza ispirata da un principio di conservazione tematica, cioè la sottomissione del biologo al dato della vita, «costituito, in qualsiasi essere vivente, dalla sua autoconservazione per autoregolazione.» [Canguilhem 1988] Si potrebbe dire che in ogni epoca il biologo è affetto da una sorta di ossessione, che è un altro modo di parlare di quella sottomissione. Ma tale ossessione è anche la sua felicità. Che cosa ha veramente senso nella vita se non la ricerca del perché? Questo tratto sembrerebbe accomunare biologia e filosofia, insieme unite e divise, uguali e diverse. I biologi hanno da tempo rinunciato a trovare spiegazioni metafisiche alle loro domande: si accontentano di studiare le cause "materiali" dei mutamenti; i filosofi sembrano, qualche volta, spingersi oltre. Spesso denunciano le ristrettezze d'orizzonte in cui si muove lo spirito scientifico ma, poi non riescono ad essere molto convincenti, né quando parlano di Dio, nè quando si limitano a parlare di "essere". A me è sempre sembrato più conveniente cercare spiegazioni terrene e materiali, anche perché ho sempre visto in questo particolare tipo di indagine una vittoria sui nemici visibili e invisibili annidati nella natura ostile, un "progresso", parola attualmente molto contestata da parte di critici di varia provenienza. Alcuni di questi, non lo nego, meritano ascolto; altri meno, perché in genere ignorano ciò su cui pretendono di emettere verdetti.
Credo sia utile distinguere il "progresso" delle conoscenze da quello sociale e politico. Non perché sia possibile il primo senza il secondo ma, perché in molti casi uno scienziato potrebbe semplicemente ritenersi appagato del primo, riconoscendo laicamente che il secondo è possibile solo in condizioni di giustizia sociale e di democrazia avanzata. Quindi, solo se i vantaggi derivanti dal progresso delle conoscenze vengono equamente ripartiti. Insomma, solo se effettivamente si registra un miglioramento della qualità della vita della generalità degli esseri umani e non solo di pochi privilegiati.
Una seconda condizione è non meno importante della prima: l'ambiente che consente la vita deve essere modificato per consentire migliori condizioni di vita, ma non può essere snaturato, pena la distruzione globale della vita stessa come attualmente la conosciamo. L'idea che la biologia nel suo insieme debba astenersi dal formulare precetti per la convivenza sociale sulla scorta dei suoi saperi è quindi aberrante. Ciò che non si può accettare è che si ricorra all'inganno o alla forza per imporli.

Il fatto dell'evoluzione, il rapporto con fatti indimostrabili e fatti che dimostrano
L'impegno di trovare i fondamenti della biologia mi era parso arduo. In un primo momento avevo deciso di rifiutare. Poi, riflettendo sul concetto stesso di 'fondamento', a mente libera, mi sono resa conto che anch'io ero in grado di dire qualcosa di utile e interessante. In biologia un ' fondamento' non è necessariamente una certezza. Ripensando a Darwin, mi è parso chiaro che la più importante rivoluzione avvenuta nella nostra concezione del vivente sia stata nient'altro che lo sviluppo di un'ipotesi. La più probabile di tutte le ipotesi ma, non una certezza relativamente ai tempi ed alle conoscenze disponibili. Il filosofo Cassirer nella sua storia della filosofia moderna diede molto rilievo al tentativo darwiniano di dimostrare il fatto dell'evoluzione. [Cassirer 1958]
Troppo spesso si dà per scontato che un fatto non si debba dimostrare. Eppure, il fatto particolare della speciazione, cioè la nascita di una nuova specie non è sotto i nostri occhi, non è osservabile in un contesto temporale oggettivo accessibile alla comune esperienza umana. Il fatto dell'evoluzione è solo deducibile da una teoria o inducibile da altri fatti il cui accumulo costringe ad arrovellarsi per trovare una spiegazione comune ad essi. Nessuno ha mai visto nascere un uccello da un uovo di rettile o, quantomeno, un rettile piumato da un uovo di rettile non piumato. Non si può dunque dire, a proposito di Darwin e della sua colossale impresa, che egli avesse solo da insistere su un fatto singolo ed evidente e richiamarsi ad esso. Come non è vero che le nostre certezze siano intessute di solo certezze, è però vero che anche in biologia vi sono certezze che reggono altre certezze.
Recentemente, Mark Ridley ha scritto un testo universitario, Evoluzione, nel quale si fa osservare che persino il virus dell'Aids, il famigerato HIV, è una prova tangibile dell'evoluzione "in atto". Trattando gli affetti da questa terribile patologia con 3TC, una molecola farmacologicamente simile a un normale costituente del DNA, ci si era convinti che esso potesse inibire la riproduzione del virus nelle cellule umane. Ma già nel 1995 alcuni studiosi videro che esso aveva successo solo temporaneo. All'inizio il virus tendeva a diminuire; poi un particolare ceppo resistente al 3TC prese ad aumentare di frequenza. A tre settimane dall'inizio del trattamento, in 8 pazienti su dieci, la popolazione virale era ormai al 100% dei ceppi farmacoresistenti e, negli altri 2 pazienti, si giunse al medesimo risultato negativo dopo 7 o 12 settimane. [Ridley Mark 1993-1996-2004] E' triste dover constatare che anche uno dei maggiori nemici dell'uomo come specie "evolva" secondo i principi della selezione naturale, ma anche questa è una certezza, cioè un fatto che dimostra.
Nel corso dei secoli i biologi hanno accertato molte regolarità nei fenomeni naturali, ad esempio nella riproduzione sessuale, nella dinamica dello sviluppo e della crescita. Non si è mai visto nascere un vecchio. Vecchi si diventa. Gli organismi vengono al mondo come pulcini, cuccioli, neonati, larve. Ogni cellula viene da una cellula preesistente. Analogamente, in barba ai racconti fantastici che appartengono alla mitologia della biologia, non s'è nemmeno mai visto nascere bambini con la testa di porco o elefanti a metà animali e metà vegetali. Non si possono ibridare animali differenti come un gatto e un cane. Esistono delle barriere di specie osservate e sperimentate. Per questo, alcuni studiosi si sono spinti a riconoscere che esistono prove indiscutibili per la microevoluzione - ad esempio quella del virus dell'AIDS -, ma altrettanto non si può dire per la macroevoluzione, che continuerebbe a rimanere un "mistero", perché una somma di microevoluzioni non spiega la macroevoluzione, cioè il filo che unisce la prima cellula procariote, il bisbisbis nnonno trisavolo di tutti i viventi, all'essere umano.
Il tema dell'evoluzione è certamente il più appassionante di tutta la biologia e ho trascorso diversi anni a leggere quasi tutto quello che veniva pubblicato sull'argomento. Ovviamente, mi sono formata idee personali sull'argomento e, nel corso del mio ragionamento, emergeranno inevitabilmente. Ma vorrei evitare di esporle in modo dogmatico, perché uno dei primi e irrinunciabili fondamenti del nostro sapere è, non tanto quello di non sapere, ma di essere a conoscenza di alcuni fatti, e di ignorarne altri. Chi sa veramente, sa sempre con riserva, sa di vivere in una condizione precaria.
Come tutte le scienze di questo mondo, anche la biologia riposa su elementari verità dimenticate 'per abitudine' e pigrizia mentale. Alcuni dei nostri 'fondamenti' sono molto antichi, risalgono ai medici egiziani, a Ippocrate, a Aristotele e Teofrasto, a Galeno. Non sempre, un fondamento è una certezza, come già detto. Può essere semplicemente una disputa su un problema che evidenzia il problema stesso come un enigma da risolvere, senza pregiudizi.
Un filosofo molto interessante fu Anassagora e spesso viene richiamata la sua osservazione secondo la quale «l'uomo è il più intelligente tra tutti gli animali perché dispone di mani.» Ad essa si contrappose Aristotele, che affermò che è «ragionevole dire che [l'uomo] ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti uno strumento, e la natura, come farebbe una persona intelligente, attribuisce sempre ciascuno di essi a chi può servirsene.» [Aristotele] E' stato notato che questa contrapposizione sposta molto indietro nel tempo la contesa, altrimenti del tutto moderna, tra i sostenitori della priorità della struttura - come Anassagora - e i sostenitori della priorità della funzione - come Aristotele. Eppure, potrebbe essere discutibile che Aristotele sia stato semplicemente un "funzionalista". Io, non solo per il gusto di sottrarmi dal coro, tenderei a sottolineare, piuttosto, che dal passo citato emerge una concezione di "natura" che fa della natura stessa una divinità in grado di decidere. L'eliminazione del demiurgo platonico, che attinge al mondo delle idee "eterne e perfette", per dar vita ad un mondo imperfetto e corrotto, non portò Aristotele ad una concezione anarchica ma, solo ad una diversa formulazione della funzione demiurgica. Al posto di un dio creatore e donatore, abbiamo una natura creatrice e distributrice di meriti in base a criteri. La specie più intelligente riceve il dono delle mani.
Queste riflessioni non hanno nulla a che vedere con teorie preevolutive già presenti nell'antichità. I filosofi potenzialmente più vicini all'intuizione dell'evoluzione furono Empedocle ed Eraclito, i quali, comunque, mancarono della fantasia necessaria per il "salto" concettuale richiesto.
E' però interessante notare che, in realtà, la posizione di Anassagora precorreva una concezione moderna (evolutiva e darwiniana) di adattamento molto più di quella aristotelica, la quale si potrebbe prestare, piuttosto, ad una concezione lamarckiana dell'evoluzione, intendendo cioè l'ottenimento delle mani come il risultato di un premio al desiderio, inteso come bisogno - quindi non esattamente conscio - di avere uno strumento per manipolare le cose. Secondo questa visione, i cambiamenti non sono casuali ma, il risultato di comportamenti ripetuti nel tempo che sviluppano le parti più coinvolte e limitano quelle trascurate. Il fondamento di questa teoria starebbe nell'ereditarietà di tali caratteri sviluppati attraverso il comportamento. Oggi, la stragrande maggioranza dei biologi rifiuta le spiegazioni di tipo lamarckiano e accetta quelle derivate da Darwin, anche se, non casualmente, propende per una visione funzionalista e non strutturale, perché è la nozione stessa di adattamento, che è slittata verso un significato funzionale dopo la Sintesi Moderna. Ma di questo parleremo in modo più circostanziato in altra sede. Qui è sufficiente ricordare che fu Lucrezio, nel De rerum natura, a rilanciare "alla grande" l'ipotesi della priorità della struttura:
«Nessun organo del corpo si è formato affinché potessimo usarlo,
... Tutte le membra esistettero
prima credo - che ne fosse praticato l'impiego.»

Vi sono ormai numerose prove storiche di un grande interesse per la malattia e la cura in tempi antichissimi. Recentemente, si è appreso dai giornali che gli hittiti, probabilmente, furono in grado di cambattere una delle prime guerre biologiche della storia per mezzo di pecore infette. Sicuramente, qualcuno prima di loro aveva provato ad avvelenare le acque ricorrendo alla conoscenza delle proprietà tossiche di alcune sostanze vegetali o animali. Prima ancora di nascere, la biologia era già usata come arma per offendere e uccidere. La conoscenza conferiva potere e potenza.
Gli antropologi dell'Ottocento scoprirono presto che anche i popoli più primitivi avevano elaborato una loro medicina, non del tutto legata a pratiche magiche e scongiuri. Recentemente, si è assistito ad una rivalutazione della medicina cinese basata su principi molto diversi da quelli canonizzati dalla biologia e dalla medicina occidentali. Questi saperi diversi, per quanto possano sembrare superati o marginali, sono stati in parte riciclati e riconosciuti come validi dalle mentalità più aperte. L'agopuntura ne è un esempio. Viene ampiamente utilizzata in ginecologia per ridurre i dolori del parto. Dunque, i 'fondamenti' esistono. Alcuni di essi sono sedimentati nella storia dell'umanità intesa in senso ampio e universalistico. Altri appartengono più propriamente alla storia dell'Occidente e delle sue pratiche. Se si accetta la metafora del camminare e del salire proposta da Einstein rispetto alla storia della fisica, anche la biologia ha cercato di salire per contemplare panorami più vasti. Rimanendo nella metafora, potremmo dire che con la rivoluzione biomolecolare, oggi la biologia tenta anche di volare. Mentre per sollevarsi dal suolo e spiccare il volo un organismo vivente di 25 kilogrammi di peso dovrebbe disporre di un'apertura alare di 15 metri, la biologia molecolare usa motori a reazione. I suoi nuovi fondamenti sono vari e complicati e non riposano più solo sull'osservazione, sulle dissezioni, su esperimenti di ibridazione di piante ed animali, su ipotesi corroborate quali l'evoluzione attraverso generazioni successive. I biologi trovano le basi del loro sapere in sempre più voluminosi manuali universitari di fisica, chimica, biochimica, botanica, zoologia, citologia, microbiologia, istologia, zoologia, anatomia, ecologia, statistica ed altre scienze ancora, come la genetica, in costante aggiornamento. Alcune teorie rimangono e si sviluppano, altre vengono dismesse. Il fatto che esistano due discipline così affini, genetica e biologia molecolare, eppure ancora distinte, dice quanto siano ramificate non solo le direzioni evolutive verso le quali stiamo andando, ma anche le nostre radici. Genetisti e biochimici si sono incontrati un po' ritardo, nel secolo appena trascorso, non senza qualche incomprensione e qualche polemica, e le loro scienze si erano già considerevolmente sviluppate. Gli stessi concetti di "gene" e di "eredità genetica" sono venuti mutando nel tempo; oggi si sa che i geni corrispondono fisicamente a segmenti di DNA. Inoltre, si è consapevolmente passati da una concezione atomistica del gene - l'organismo come somma a volte caotica di pezzi divisi e assemblati, ad una visione globale dei genomi, le cui parti interagiscono e si condizionano reciprocamente, ponendo dei vincoli strutturali e funzionali che "incanalano" lo sviluppo e guidano la stabilità dell'organismo attraverso la produzione di proteine strutturali e enzimatiche.

O realisti o empiristi (o geniali eclettici opportunisti)
Ciò detto, è chiaro che non intendo spendere energie nel confutare lo scetticismo filosofico, cioè quella particolare dottrina, dura a morire, che nega la possibilità di ogni conoscenza valida. Un biologo, anche se spesso non lo sa, o trascura di pensarlo, o è empirista o è realista. A volte, è anche qualcosa in più, un geniale eclettico un po' opportunista che non disdegna di argomentare su basi logiche e dialettiche. Le sue ricerche fanno riferimento ad un mondo concreto, ed è poco importante che esso si dia solo nei suoi sensi, o esista indipendentemente da essi. E' stato tuttavia sottolineato che atteggiamenti empiristi o realisti danno luogo ad approcci diversi. Nel campo della ricerca medica, per esempio, gli empiristi - compresi quelli che non sanno di esserlo - privilegiano un approccio statistico. Al contrario, i realisti mirano a mete più ambiziose e cercano livelli di spiegazione più complessi.. [Wulff, Pedersen, Rosenberg 1986] Secondo Wulff, Pedersen e Rosenberg, il realismo «pervade il pensiero medico contemporaneo. Per esempio, il docente che fa lezione sull'asma bronchiale descriverà i sintomi e i segni dei pazienti asmatici ma fornirà anche un quadro del meccanismo sottostante. Egli può spiegare che nell'asma allergica specifici allergeni producono la degranulazione dei mastociti, e le sostanze rilasciate danno spasmi bronchiali, e potrà concludere che la terapia logica è quella che comprende l'eliminazione degli allergeni dall'ambiente, un trattamento a base di potenti broncodilatatori e l'inalazione di cromoglicato che inibisce la formazione di sostanze attive.» Tale approccio realistico è il risultato di una visione razionale dei problemi controllata empiricamente e sperimentalmente. Un'ulteriore garanzia della validità dell'approccio viene esibita in base all'argomento dell'intersoggettività della ricerca, la quale sembra funzionare in modo decisivo almeno su un punto: che esiste una pesante ipoteca sul limite dei nostri sensi, i quali possono essere sempre ingannati anche da potentissimi microscopi. Quando però si arriva ad ammettere una concordanza tra dati osservati anche da ripetuti esperimenti, non è insensato concludere che, se c'è inganno, questo è generalizzato: stiamo vivendo tutti nella stessa illusione ottica, uditiva, tattile. Se in questo mondo di illusioni, prendendo un'aspirina, sconfiggiamo un malessere, vuol dire, però, che anche questo mondo di illusioni funziona in base a regolarità accertate e che la scienza ha imparato a fronteggiarle.

Ma non infallibili
Ciò non vuol dire, tuttavia, che la biologia o la medicina, siano diventate in qualche misura infallibili grazie ai saperi accumulati. Ogni organismo vivente ha tratti peculiari irriducibili: praticamente non esiste un genoma che sia perfettamente identico a quello di un altro della stessa specie. Ognuno ha caratteristiche lievemente diverse persino tra i cosiddetti gemelli omozigotici. Pertanto, è anche possibile che un farmaco idoneo a curare alcune malattie risulti dannoso per taluni individui, spesso per molti. Questa non è la scoperta dell'acqua calda. E' un fatto ben noto e, per certi aspetti, è anche una sfida, non solo per i medici che devono tener conto di tutte le possibili controindicazioni nella scelta delle terapie ma , anche per chi si occupa di ricerca biologica o farmacologica, e persino per chi tenta di formalizzare la conoscenza biologica. Già il fisico Erwin E. Schrödinger, nel 1944, ebbe a scrivere che il mistero e, quindi, la differenza, tra vita e non vita potrebbe stare in una diversificazione tra cristalli, il periodico e l'aperiodico. Il fisico è per sua inclinazione catturato dalla periodicità, dalla struttura simmetrica e ripetitiva delle forme universali. Il biologo no. Questi è più simile all'artista, o meglio, al critico d'arte. Più che dal ricamo uniforme, egli è attratto dall'unicità di una trama, un dipinto di Raffaello. In esso non vi sarebbero «semplici ripetizioni» bensì «un disegno elaborato, coerente, significativo, tracciato dal grande maestro.» [Schrödinger E. 1944] Ciò che disse il grande fisico è importante perché evidenziò una delle caratteristiche fondamentali della ricerca biologica: il biologo non può parlare di leggi senza accennare alle eccezioni, senza rifarsi costantemente alle differenze. In proposito sono molto sensate le parole che ha scritto il filosofo della biologia Telmo Pievani: «La difficoltà è poi accresciuta dal fatto che i sistemi viventi tendono, pur rimanendo in gran parte ancora oggi a uno stadio elementare, a produrre strutture sempre più elaborate, accumulando modificazioni, aggiungendo nuove parti o riorganizzando le loro configurazioni precedenti. Ciò fa sì che la quantità di elementi, di interrelazioni e di retroazioni all'interno di un sistema organico raggiunga livelli di articolazione elevatissimi. In termini meramente combinatori, le connessioni potenziali di una rete genetica o di una rete neurale non hanno nulla da invidiare al numero astronomico di combinazioni fra particelle elementari nell'intero universo conosciuto.» [Pievani T. 2005] Ciò vale per le diversità tra specie, ma vale anche per le trame raffinate della diversità e della unicità individuale. Probabilmente, è questa attenzione alla particolarità, ai fatti, tipica degli empiristi e dei realisti, che in qualche modo ha guidato la ricerca biologica. Il razionalismo, che io chiamo ingegneristico, e faccio spesso fatica a non nominare l'uno senza associarvi l'altro termine, è più propenso a tentare di trovare leggi universali assiomatizzabili. Come vedremo, questa via si è spesso mostrata infruttuosa, anche se ripetutamente tentata.

Fondamenti fluidi... alcuni stanno sopra e non sotto
Un po' di retorica filorealista non guasta. Mi scuso se ho esagerato, ma quando si comincia a parlare di 'fondamenti', chi possiede una formazione scientifica, comincia a sentire un formicolio fastidioso alla pianta dei piedi. Non mi è mai piaciuta l'immagine di Popper di una scienza 'su palafitte'. La scienza è sempre provvisoria e probabilistica, deve ricordarsi di essere probabilistica, certo, ma non per questo è meno salda, sia nelle convinzioni sia nella gestione dei dubbi. Con tutto il rispetto che ho per i filosofi, positivisti, popperiani e post-popperiani, preferisco, e ho sempre preferito, privilegiare le 'immagini' della scienza offerte dagli scienziati stessi. Vorrei però fare una precisazione sui 'fondamenti'. Dobbiamo liberarci di una rappresentazione architettonica per la quale un fondamento sta al di sotto e viene prima di ogni altra cosa. Questa è una rappresentazione statica del pensiero e del sapere che non corrisponde alla realtà della ricerca. Spesso i 'fondamenti' stanno dinnanzi a noi e sopra di noi. Dobbiamo scalare pareti di roccia per raggiungerli. Li dobbiamo ancora trovare, sono anche nel nostro futuro e non solo nel nostro passato. Un classico fondamento per la ricerca biologica potrebbe essere, per esempio, un programma di ricerca ben formulato, sulla base di un'ipotesi ancora non sufficientemente corroborata. Anche la motivazione a svolgere ricerche in una direzione precisa può essere considerato un fondamento. Oserei dire che persino il dubbio rispetto a due alternative altrettanto possibili potrebbe costituire un fondamento. Personalmente, vivo nel dubbio circa l'origine di numerose patologie e leggo avidamente pubblicazioni che riportano studi che trattano questi argomenti. Nutro molte incertezze circa l'efficacia della cosiddetta terapia genica, la quale vanta molti successi ma, anche clamorosi flop. Non so dire se la ricerca sulle cellule staminali si possa svolgere efficacemente senza disporre di embrioni umani congelati. Chi non è attivo sul fronte dei laboratori, non può che pendere dalle labbra dei luminari e dei ricercatori, in attesa di chiarimenti. Ma, per non passare da completi sprovveduti occorre una cultura biologica e medica di base. Solo così si può evitare di cadere in inganni mediatici.
Ultimamente, mi è capitato di leggere il libro L'armonia meravigliosa di Edward O. Wilson, il contestatissimo 'teorico' della sociobiologia, e vi ho trovato un pensiero interessantissmo, quello che più volte mi era stato sulla punta della lingua, o in punta di penna, ma non era mai uscito esplicitamente. Lo riporto perché riguarda appunto i 'fondamenti'. Riferendosi ad una scienza fondamentale come la matematica pura, Wilson la descrive come «la scienza di tutti i mondi possibili.» E' «un sistema logicamente chiuso eppure infinito che si muove in tutte le direzioni consentite dalle premesse iniziali.» Con mezzi matematici, potremmo così diventare capaci di descrivere tutto l'immaginabile, ed è in parte quello sta succedendo già oggi, con fisici e cosmologi impegnati a costruire 'modelli' di universo a foglietti, o con biologi come Kaufmann protesi a trovare la quarta legge della termodinamica, in grado di collegare, finalmente, i modelli della fisica a quelli della biologia evolutiva. «Da sola, tuttavia, la matematica non può fornire informazioni sulle specialissimo mondo nel quale viviamo.» Per Wilson, solo l'osservazione «è in grado di rivelarci la tavola periodica, la costante di Hubble e tutte le altre certezze della nostra esistenza, forse diverse o assenti in altri universi. Poiché la fisica, la chimica e la biologia sono confinate entro i parametri di questo universo, quello che vediamo dall'interno della Via Lattea, esse costituiscono la scienza di tutti i possibili fenomeni tangibili.» [ Wilson E. O. 1998] In altre parole, l'impresa scientifica, per avere un senso, e non diventare fantascientifica, deve ancorarsi alla realtà e fondarsi anche, o soprattutto, sull'osservazione. La quale può ingannare anche i sensi più addestrati o gli intelletti più abili a ragionare sugli inganni dei sensi, ma rimane la pietra angolare della strategia scientifica. Mi si potrebbe obiettare che è stata dimostrata come ammissibile una concezione della scienza che non rinvii alla realtà ultima delle cose, ma si limiti a richiedere che una teoria funzioni e non sia falsificata. Senza andare tanto lontano, basterebbe rifarsi a Stephen Hawking, il quale affermò: «Abbraccio la nozione positivista secondo la quale una teoria fisica non è che un modello matematico, ed è insensato domandarsi se corrisponda alla realtà. Tutto ciò che ci si deve aspettare è che le sue previsioni concordino con l'osservazione.» [Hawking S. , Penrose R. 1998] E' ovvio che queste considerazioni non servono alla biologia, perché gran parte delle teorie biologiche non nacquero da modelli matematici, non furono confutate da modelli matematici, e non erano in grado, sovente, di elaborare previsioni. Mendel fece del suo meglio per introdurre un metodo più consono alle procedure della fisica, ma il suo influsso non potè esercitarsi che molti decenni più tardi. Per millenni la medicina è stata considerata e vissuta come un'arte; dunque la biologia ha alle spalle anche una tradizione ermeneutica. Ma, se c'è un senso della storia della medicina occidentale, e credo ci sia, esso è proprio quello dell'abbandono progressivo delle interpretazioni geniali e arbitrarie per giungere ad un sapere universalmente condiviso. In questo quadro, c'è ancora spazio per gli apporti individuali e le interpretazioni. Credo anzi che il sapere condiviso potrebbe esaltare le qualità ermeneutiche individuali. Ma così dovrebbe essere, invece non è. Sia il medico generico di base, sia il biologo sono ormai figure proletarizzate e destinate ad un lavoro di routine. In senso stretto, non si possono considerare scienziati, ma tecnici che seguono procedure, che hanno una conoscenza ristretta del know how e che fanno solo un pezzo del lavoro. Il medico può realizzarsi attraverso il rapporto umano con il paziente, il biologo può solo interessarsi alle questioni teoriche e/o sociali. Personalmente, non trovai nulla di esaltante nell'esaminare quotidianamente feci ed urine e provai a dedicarmi all'insegnamento. Non credo che oggi sia più gratificante sequenziare genomi con i computer. Ma qualcuno deve pur fare il lavoro.

Scienza anche senza dimostrazione matematica
Il problema, per quanto riguarda le concezioni della scienza, è che siamo ancora convinti che essa possa presentare conclusioni accettabili solo quando si abbia la certezza di una dimostrazione matematica. In proposito ha scritto Ernst Mayr, un biologo molto portato al filosofare: «Benché vi siano sempre stati alcuni dissenzienti, l'idea che uno scienziato dovesse fornire una dimostrazione assoluta di tutte le sue scoperte e teorie prevalse fino ai tempi moderni, essa dominò non solo le scienze fisiche, dove dimostrazioni di tipo matematico sono spesso possibili, ma anche le scienze biologiche. Anche qui, le deduzioni sono spesso così conclusive da poter essere accettate quali dimostrazioni, come ad esempio l'affermazione che il sangue circola o che un particolare tipo di bruco è lo stadio larvale di una particolare specie di farfalla. Il fatto che le più minuziose esplorazioni della superficie terrestre non siano riuscite a rivelare la presenza di dinosauri può essere accettato come una dimostrazione che essi sono estinti. Fin qui mi sono riferito a dei fatti, e provare se un'asserzione corrisponda oppure no a un fatto è solitamente una cosa possibile. Tuttavia, in molti casi, e forse nella maggior parte delle conclusioni dei biologi, è impossibile fornire una dimostrazione altrettanto certa (Hume, 1738); come è possibile "dimostrare" che la selezione naturale è il fattore guida che governa l'evoluzione degli organismi?
Alla fine - prosegue Mayr - anche i fisici si resero conto che non potevano fornire sempre una dimostrazione assoluta (Lakatos, 1970), e la nuova teoria della scienza non richiede più una tale dimostrazione. Invece, gli scienziati sono paghi di ritenere vera, tra ipotesi diverse, l'ipotesi che appare più probabile sulla base dei dati disponibili, o quella che è coerente con un numero maggiore di fatti, o con i fatti più convincenti.» [Mayr 1982]
In sostanza, se la scienza fosse quella descritta da Hawking, la biologia e la stessa medicina dovrebbero proclamare la loro non scientificità. Cosa che rasenta l'assurdo. Non resta che cercare immagini meno patriarcali e più pluralistiche della scienza. La stessa biologia contribuisce, del resto. Non è una scienza unitaria nel senso che non è un pensiero unico. In essa si contrappongono conoscenze e metodi che non si incastrano coerentemente l'uno nell'altro secondo il principio «chiave e serratura.» In essa si agitano contraddizioni non risolte, ipotesi per ora irriducibili alla propria negazione con una sorta di Aufhebung, cioè nel mettere qualcosa, nel cancellare qualcosaltro, e poi sintetizzare.

Riduzionisti ed emergentisti
François Jacob, il grande biologo molecolare responsabile della scoperta dell'RNA messaggero e, con Monod , teorizzatore del modello dell'operone, ha parlato di un atteggiamento integrista, o evoluzionista, e di un atteggiamento riduzionista. E ha specificato che per il riduzionista l'organismo vivente è una totalità che può essere spiegata esclusivamente in base alle caratteristiche e alle proprietà delle sue componenti. «La biologia riduzionista si interessa degli organi, dei tessuti, della cellula, delle molecole; cerca di comprendere le funzioni soltanto in base alle strutture. Sensibile all'unità di costruzione e di funzionamento che essa scorge dietro la diversità degli esseri viventi, questa tendenza vede nelle attività di un organismo l'espressione delle sue reazioni chimiche.» [Jacob 1970] Per questo tipo di atteggiamento, la questione dei 'fondamenti' si risolve nella capacità del biologo di comprendere le proprietà della materia.
Fortemente critici nei confronti del riduzionismo sono i biologi sostenitori, appunto, di un atteggiamento integrista e/o evolutivo. Essi stessi, tuttavia, preferiscono autodefinirsi come emergentisti. Una proprietà emergente è un fenomeno naturale che non si può dedurre dalle proprietà indicate dai riduzionisti. Un esempio per tutti: la proprietà dell'acqua di bollire a 100 gradi non può essere dedotta dalle proprietà di idrogeno e ossigeno. Analogamente, nei sistemi viventi non si possono dedurre, ed a maggior ragione, fenomeni quali la nascita, lo sviluppo, l'invecchiamento e la morte dalla formazione di una molecola, o dall' "invecchiamento" dell'ossigeno. A formare catene molecolari qualsiasi son tutti capaci. Ad iniettarle in un virus si può impare con un po' d'esercizio e frequentando buoni laboratori, ma generare una forma di vita nuova è questione del tutto diversa. Non basta avere un kit degli attrezzi e una completa selezione dei materiali per montare il congegno, nemmeno un mostro alla Frankestein, seguendo un foglietto di istruzioni che poi nessuno sa decifrare. Su cosa si fonda, allora, l'emergentismo? Una divertente, ma non per questo non profonda, ricapitolazione dei metodi della biologia è offerta da Steven Rose nei primi capitoli di Linee di vita. L'emergentismo non disconosce la validità di metodi quali l'osservazione, l'esperimento, la creazione di ipotesi. Condivide con il riduzionismo una lunga tradizione di ricerche comuni, considera le stesse questioni, disseziona organismi, guarda nel microscopio, centrifuga batteri e DNA, formula ipotesi cercando di tenersi lontano da spiegazioni di tipo metafisico. E' vero che si può rinvenire nel suo albero genealogico un antenato come il vitalismo, cioè una dottrina orientata in base al principio che la vita è qualcosa di misterioso e inafferrabile, appunto irriducibile alle proprietà fisiche della materia, ma nessun emergentista attuale potrebbe essere accusato di vitalismo recidivo senza compiere un'autentica deformazione. In passato, alcune forme di vitalismo hanno teso ad attribuire un ruolo essenziale ad un'entità immateriale, un principio che dà la vita. Era la forza vitale, un ingrediente biofilosofico cui si faceva ricorso per denunciare il meccanicismo della filosofia e del metodo cartesiani. L'ultimo vitalista dichiarato fu l'embriologo Hans Driesch, che aveva condotto ricerche ed esperimenti sui ricci di mare. Egli aveva individuato il sommo principio nell'entelechia. Oggi, l'emergentismo pare essersi definitivamente congedato da suggestioni vitalistiche, accettando, come sottolineato da Mayr, una forma di riduzionismo costitutivo, il quale riconosce che la composizione materiale di organico e inorganico è identica. Gli organismi viventi non si servono d'altro, non sono costituiti con materiali diversi, ma di carbonio, idrogeno, ossigeno e così via.
Seguendo in parte l'analisi data dal filosofo Ernst Nagel, potremmo convenire sul fatto che persino i più irriducibili antiriduzionisti sono riduzionisti almeno su un punto: quello ontologico. La biologia, infatti, da tempo ricerca spiegazioni dei fenomeni del vivente solo in ambito naturale, escludendo l'intervento di azioni sovrannaturali. L'origine della vita è studiata a partire dai processi fisici e chimici del periodo prebiotico.
Su questa via, il riduzionismo esplicativo non è del tutto contestato e contestabile. Esso afferma che non si può comprendere il tutto se non lo si analizza nelle sue componenti al livello più basso. Ma comporta il rischio di portare a credere che la biologia molecolare sia tutta la biologia. Per Mayr, è vero che, a volte, tale riduzionismo è risultato illuminante, tant'è vero che in fisiologia non si capisce il funzionamento di un organo finché non si sono compresi i processi molecolari a livello cellulare. Però, egli tende a introdurre «severe limitazioni» al riduzionismo esplicativo. Esistono cioè livelli gerarchici superiori spesso indipendenti da quelli inferiori, mentre «le unità dei livelli inferiori possono essere integrate così completamente che esse operano come unità ai livelli superiori». Il funzionamento di un'articolazione, ad esempio, può essere spiegato senza conoscere la composizione chimica della cartilagine e allo stesso tempo può essere sostituita da una protesi.
Secondo Mayr, tuttavia, il riduzionismo esplicativo ha fatto più male che bene, ad esempio agli inizi della teoria cellulare, quando si interpretava l'organismo come un aggregato di cellule e all'inizio della genetica delle popolazioni, quando si considerava il genoma come aggregato di geni indipendenti con un valore di fitness costante. Per questo, cita René Dubos (1965): «Nei fenomeni più comuni, e probabilmente più importanti della vita, le parti costituenti sono così interdipendenti che esse perdono il loro carattere, il loro significato e invero la loro autentica esistenza quando sono separate dal tutto funzionale. Per trattare adeguatamente i problemi di complessità organizzata, è quindi essenziale investigare le situazioni in cui parecchi sistemi interrelati funzionano in modo integrato.» Per Mayr, un esempio di fallimento del riduzionismo esplicativo si può trovare nel tentativo «di trovare sistemi genetici sempre più semplici e di estrapolare da essi a quelli più complessi. In generale, questa speranza si realizzò, salvo che alla fine si dimostrò che il sistema genetico dei procarioti (batteri) e dei virus non è comparabile a quello degli eucarioti, in cui il materiale genetico è organizzato in cromosomi complessi.»
Infine, Mayr individua un terzo tipo di riduzionismo, quello teoretico. «Questo tipo di riduzionismo postula che si possa dimostrare che le teorie e le leggi formulate in un campo della scienza (solitamente un campo più complesso o superiore nella gerarchia) sono casi speciali di teorie e leggi formulate in qualche altro ramo della scienza. Se questo riesce, un ramo della scienza è stato "ridotto" all'altro, nel linguaggio pittoresco di alcuni filosofi della scienza. Per fare un caso specifico, si ritiene che la biologia sia ridotta a fisica quando i termini della biologia sono definiti attraverso termini fisici e le leggi della biologia sono dedotte da leggi della fisica.
Una tale riduzione teoretica fu ripetutamente tentata nelle scienze fisiche, ma secondo Popper (1974) non ebbe mai successo completo. Non sono a conoscenza di alcuna teoria biologica che sia mai stata ridotta a una teoria fisico-chimica. L'affermazione che la genetica è stata ridotta a chimica dopo la scoperta della struttura del DNA, dell'RNA e di certi enzimi, non è sostenibile. Certamente, si è riusciti ad analizzare la natura chimica di molte delle scatole nere nella teoria genetica classica, ma questo non riguarda affatto la natura della trasmissione genetica. [...] I concetti essenziali della genetica, come quelli di gene, genotipo, mutazione, diploidia, eterozigosi, segregazione, ricombinazione e così via, non sono affatto concetti chimici e si cercherebbero invano in un manuale di chimica.
Il riduzionismo teoretico è errato perché confonde i processi con i concetti.» [Mayr 1982]

Contrari o complementari?
Ci potremmo giustamente chiedere se questi due atteggiamenti siano irriducibili, destinati a fronteggiarsi, o non siano semplicemente complementari, e che la loro stessa esistenza sia da salutare con un evviva, invece che con un sospiro. La mia idea, che è piuttosto una speranza, propende per questa seconda alternativa, ma vorrei sottolineare che, se cerco dei meriti, e se cerco nel merito, sono portata in primo luogo ad evidenziare il ruolo fondamentale giocato in quasi tutte le scoperte veramente importanti dall'atteggiamento riduzionista. Con alcune eccezioni altrettanto importanti, anzi, più importanti. Una delle grandi svolte della biologia fu determinata da Lamarck, uno scienziato antiriduzionista perfino contro l'evidenza. La sua opposizione alla nuova chimica di Lavoisier fu proverbiale. La testardaggine con cui difese la sua teoria dell'evoluzione altrettanto. Ma anche Lamarck fu, in fondo, un riduzionista ontologico. Eppure, oggi, siamo portati a incensare Lavoisier, giustamente, e a relegare Lamarck tra gli studiosi che hanno preso cantonate colossali. La successiva grande svolta fu opera di Darwin, il quale diede al problema dell'evoluzione una soluzione profondamente diversa da quella di Lamarck, ma non per questo riduzionista. Nulla delle ipotesi darwiniane riduce a proprietà dell'ossigeno o dell'idrogeno, del carbonio o del silicio, la realtà del vivente e la stessa dinamica dell'evoluzione. Persino la cellula era esclusa dalle argomentazioni, e questo in un'epoca nella quale della cellula si cominciavano a conoscere aspetti fondamentali. Ciò nonostante, anche Darwin si può classificare come riduzionista ontologico.

Tante specializzazioni, una sola biologia?
E' noto che sono tali e tante le specializzazioni della biologia contemporanea, ognuna delle quali molto impegnativa, che nemmeno un biologo plurilaureato potrebbe oggi vantarsi di conoscerla da cima a fondo. Potrebbe sembrare ovvio che scegliendo un indirizzo particolare, la biologia molecolare invece che l'etologia, la genetica al posto dell'ecologia, uno studioso faccia una sorta di dichiarazione preliminare circa i suoi orientamenti di fondo. Ma questo è vero relativamente. Vi sono genetisti antiriduzionisti, ai limiti dell'ideologico, temo, come Richard Lewontin. E persino uno dei padri della biologia molecolare, Erwin Chargaff, si dichiarò apertamente contro il riduzionismo, non esitando a criticare Crick e Watson, i decifratori del DNA.
Il libro di Steven Rose, Linee di vita, è forse la migliore raccolta di idee contro il riduzionismo oggi disponibile. Già il sottotitolo è illuminante: Oltre il determinismo. Per determinismo qui si intende in particolare il determinismo genetico, cioè l'idea squisitamente riduzionista che i geni non determinano solo le nostre caratteristiche fisiche bensì anche tratti decisivi e fondamentali del nostro carattere, delle preferenze sessuali, del comportamento sociale. Sarebbe scritto nei nostri geni se siamo più o meno intelligenti, più o meno in grado di svolgere funzioni di leader o essere destinati a ruoli subalterni. Nei nostri geni sarebbe decretata la nostra debolezza nei confronti del vizio del fumo o la nostra disponibilità ad assumere droghe, diventando dipendenti.
I test che misurano l'intelligenza, misurano in realtà l'espressione di alcuni geni. Poco a nulla conterebbero le condizioni sociali ed ambientali, il livello culturale della famiglia, il quale non può essere ridotto ai geni di un padre letterato o di una madre casalinga. E questo a prescindere dal fatto che non tutte le casalinghe sono di Voghera e passano la vita a sculacciare rampolli, a stirare tute blu, a fare la spesa e a guardare la televisione 'spazzatura', accumulando tensioni pronte ad esplodere in scariche isteriche o depressioni.

Tesi riduzioniste
Rispetto a questo complesso di tematiche, sono scesi in campo alcuni nostri scienziati.
Per Edoardo Boncinelli, ad esempio, le malattie mentali, cioè l'espressione più inquietante di un malessere psichico riportabile ad una perdita di contatto con la realtà, sono il settore di indagine rispetto al quale il metodo scientifico (in sostanza, il riduzionismo) tocca «il suo massimo livello di impotenza.» [Boncinelli 1998] «La scienza per sua natura può osservare, valutare, misurare, cercare connessioni tra eventi diversi, ma lo deve poter fare su una base intersoggettiva, se non oggettiva, mentre se c'è un sancta sanctorum dove non può penetrare, questo è costituito proprio dalla coscienza, individuale e soggettiva per definizione.» L'evoluzione e la selezione naturale hanno prodotto un cervello in grado di produrre una coscienza. Di questa facoltà non possiamo più fare a meno. «Esiste - si chiede Boncinelli - qualche punto di discontinuità lungo il tragitto che va dal funzionamento della cellula all'integrazione operata dal sistema nervoso, poi al controllo delle azioni quotidiane e infine alla percezione di sé al centro del gran teatro del mondo? Questa è una delle domande più interessanti e importanti che l'uomo si sia mai posto e prende usualmente il nome di problematica mente-corpo o, meglio, mente-cervello. L'ipotesi più semplice che si possa fare è che lungo questo tragitto non ci sia alcuna reale discontinuità.» Il che vuol dire che, per Boncinelli, l'autonomia della dimensione psichica da quella biologica è un concetto da prendere con le molle. «Non c'è alcun motivo a priori per considerare i fenomeni psichici come diversi da quelli fisici, se non che in quelli psichici gli elementi della realtà sociale, che possono emergere dall'ambiente familiare ed extrafamiliare, hanno un peso maggiore.» Dunque, nevrosi e psicosi, alcune delle quali maniaco-depressive di tipo bipolare, possono avere un'origine genica, poligenica e multifattoriale. Bipolare vuol dire che il soggetto affetto da una psicosi, dopo regolari periodi depressione, conosce periodi di esaltazione maniacale. Sulle psicosi sono stati condotti studi e quelle di tipo bipolare mostrano la più alta componente genetica, quindi ereditaria. Non facciamo, ora, questione di dati: sono attendibili. Ne riporto solo uno perché davvero significativo. «I fratelli di una persona affetta da disturbo bipolare hanno una probabilità del 12% di sviluppare anch'essi quel disturbo se i due genitori sono normali, del 26% se anche un genitore è affetto e del 43% se entrambi i genitori sono affetti.»
E. O. Wilson accredita esplicitamente l'origine ereditaria della schizofrenia. Secondo le ricerche effettuate nel 1995 a Irvine in California da un'équipe di neurobiologi, durante lo sviluppo del feto alcune cellule della corteccia prefrontale non riescono a comunicare con le altre cellule e, in particolare, non riescono a fabbricare le molecole di RNA messaggero che dirigono la sintesi di GABA, l'acido gamma-amminobutirico che funge da neurotrasmettitore. «In mancanza del GABA - scrive Wilson - le cellule nervose non possono funzionare anche se hanno un aspetto normale. Attraverso qualche meccanismo non ancora noto questa deficienza favorisce costruzioni mentali interne, prive di collegamento con gli stimoli esterni o con il normale pensiero razionale. Il cervello si crea un mondo suo, quasi fosse isolato dal sonno.» Utilizzando la tomografia ad emissione di positroni, la PET, altri ricercatori, controllarono zone attive nel sistema corticale e limbico, osservando in un caso il cervello di un paziente mentre questi 'vedeva' teste prive di corpo rotolare nella sua visione urlandogli degli ordini.
Tuttavia, Wilson riconosce il fallimento dei primi tentativi di localizzare i geni responsabili della schizofrenia. Solo nel 1995, quattro gruppi di ricerca indipendenti riuscirono ad identificare un gene responsabile sul braccio corto del cromosoma 22. «Due altri guppi non riuscirono a confermare i risultati ma, un paio d'anni dopo, il peso delle prove fornito dai quattro test combinati tra di loro ha portato ad accettare in linea di massima le conclusioni raggiunte rispetto alle conclusioni di almeno uno dei geni della schizofrenia.» [Wilson E. O. 1998]

Non tutti gli emergentisti partirebbero lancia in resta contro i dati (attendibili) di Boncinelli. e quelli (verificabili) riportati da Wilson. Non si tratta di negare l'evidenza, ma cercarne altre che i riduzionisti spesso scordano. Nel libro del medico Bertrand Jordan, Gli impostori della genetica, sono evidenziati i soliti "vizi" di questo tipo di ricerche. «Esse hanno il merito - scrive Jordan - di suggerire un possibile intervento dell'ereditarietà e di aprire così una pista da esplorare; ma la vera prova deve poggiarsi su un percorso di genetica inversa. Prova di cui sappiamo quantificare i criteri...» [Jordan B. 2000]
Cosa intende Jordan per "genetica inversa"? Il vecchio approccio partiva dalla malattia, risaliva alla proteina e infine, con non poche difficoltà, trovava il gene responsabile. Il modello della genetica inversa procede al contrario. Si muove dall'ipotesi che una malattia sia ereditaria, si arriva ad isolare il gene attraverso ricerche comparate su un certo numero di individui e, solo successivamente, si arriva alla formula della proteina codificata da quel gene. D'accordo, oggi si fa così, ma con questo tipo di ragionamento, non usciamo da un quadro riduzionista. Se proprio si vuole contestare un uso scriteriato e totalitario della genetica, bisognerebbe ripartire da Johannsen, cioè dalla genetica stessa. Questi, all'inizio del Novecento, già vide lucidamente che l'espressione genica non avviene nel vuoto, ma in condizioni ambientali determinate. Lo stesso seme non produce piante identiche in Africa e nel Nord Europa. A questo, potremmo aggiungere che due regimi dietetici diversi, in un ambiente sociale differente, avrebbero sicuramente effetto sullo sviluppo anche in gemelli omozigotici. E' così evidente quanto le sfide della vita, lo stress, i successi e gli insuccessi incidano sulla salute e l'effficienza mentale delle persone, che ogni determinismo di tipo genetico non può mai superare una certa soglia. Recentemente si è sprezzantemente parlato di astrobiologia e oroscopi genici. Tanto riduzionismo determinista, in effetti, nella sua versione junk, rischia di essere divinazione di infimo livello.
Le realtà sociali degradate non sono un effetto dei geni, ma di determinate politiche e altrettanto ben determinati modi di vivere. L'emarginazione e la frustrazione non sono solo il frutto di politiche, ma anche di caratteri individuali scarsamente reattivi alle sollecitazioni culturali e ambientali esterne al piccolo mondo nativo. La schizofrenia è sicuramente 'multifattoriale'. La sua perversa proliferazione lavora su una predisposizione genetica per impiantarsi sulla dimensione neuronale-cerebrale e, di conseguenza, sulle relazioni sociali, i rapporti di lavoro, le interazioni sessuali. Credo Freud avesse ragione nell'insistere sulle difficoltà sessuali dovute ad una ritardata maturazione. Un'ulteriore frustrazione potrebbe essere determinata dal rifiuto alle richieste affettive. Tra il rifiuto e il ripiegamento nell'alcolismo, sia ereditario che ricavato dall'ambiente, mi pare che il rapporto sia ovvio. Ma tra la dimensione neuronale e quella mentale non esiste, forse, quella discontinuità reclamata dagli ultras emergentisti. In natura, nulla è realmente autonomo dalla rete infinita di interazioni, quindi di cause ed effetti. Del resto, non esiste forse un bipolarismo anche nel ricorso alle droghe? Non sono i cocainomani degli individui in disperata ricerca di esaltazioni di vario genere, spesso ricchi e pasciuti, che non necessitano di nulla in senso strettamente biologico metabolico e ai quali manca disperatamente qualcosa? (1)

Riduzionismo filosofico
Boncinelli ha cercato di affrontare il problema del riduzionismo in biologia anche su un piano filosofico. [Boncinelli 2000] «Sul piano teorico-culturale direi che il riduzionismo non è che l'espressione della fiducia, più o meno incondizionata, dello scienziato nell'unità della natura. Se il reale è uno e la sua conoscibilità unitaria, il riduzionismo è un progetto di lavoro che ha qualche probabilità di riuscita e certamente una sua ragion d'essere, non fosse altro che come strumento euristico. Se invece il reale non è unitario, il riduzionismo si presenta come un'aspirazione donchisciottesca o addirittura come una farsa culturale. Personalmente sono molto in sintonia con il concetto di un riduzionismo come progetto e come principio-guida e non ne vedo i pericoli solitamente denunciati da chi sostiene posizioni olistiche e che indica nell'atteggiamento riduzionista un ostacolo al raggiungimento della verità, soprattutto per quanto concerne i fenomeni più complessi del mondo inanimato e di quello animato.» Sul piano pratico, un biologo impegnato nella ricerca non può che essere riduzionista. I successi della biologia molecolare lo confermano. «Coloro che avversano il riduzionismo si sono per lo più asserragliati allora nel ridotto funzionamento del sistema nervoso centrale. Gli ultimi vent'anni hanno visto però l'identificazione di un gran numero di geni e di molecole che rendono, almeno fino a questo momento, il sistema nervoso riconducibile a una spiegazione di tipo riduzionistico né più e né meno di qualsiasi altro sistema o apparato biologico.» Secondo Boncinelli, agli antiriduzionisti non rimarrrebbe che salvare la 'mente' come fenomeno: una mente animale non è la somma di reazioni chimiche e fisiche ma, un momento di creatività indipendente, un'emergenza, appunto. Contro quest'argomentazione si sono gettati alcuni esponenti della ricerca sull'intelligenza artificiale: se siamo in grado di produrre computer in grado di pensare, non solo ordinando le cose secondo le istruzioni ma producendo le istruzioni stesse, variandole ed adeguandole rispetto alle circostanze ed alle richieste, allora è evidente che il funzionamento della mente è riducibile al sistema cibernetico fisico chimico. Il vivente non segue altre strade. Mentre questa polemica infuria, Boncinelli trova conveniente insistere su affinità e differenze tra fisica e biologia. Le entità biologiche non sono intrinsecamente diverse da ogni altro oggetto fisico; la sola differenza è riscontrabile nel fatto che «in fisica l'enfasi è posta prevalentemente sulle leggi, mentre in biologia le condizioni iniziali appaiono svolgere un ruolo predominante.» Ma queste stesse condizioni iniziali sono molto complesse. Esse includono, ad esempio, la «presenza di uno specifico genoma e di tutte le strutture biologiche di una cellula...» Di qui la difficoltà, ulteriormente accentuata dal fatto che la maggior parte delle molecole biologiche sono macromolecole. Questi fatti portano però a riconoscere che nell'ambito di validità delle leggi fisiche, l'ente biologico dipende in modo decisivo dalle condizioni iniziali; condizioni che cambiano nel tempo. Ciò che è vero al tempo a t1, può non essere più vero a t2 e viceversa.
Anche per questo, è importante rimarcare che biologia è una "scienza storica". «Dal punto di vista generale, questa è probabilmente la differenza più importante fra gli oggetti della fisica e quelli della biologia: gli eventi biologici sono dominati da un insieme particolarmente complesso di condizioni iniziali che giocano un ruolo critico.» Anche se ciò non esclude affatto, la possibilità di applicare lo stesso metodo che si rivolge a sistemi fisici inanimati, rimane da evidenziare che la vita è caratterizzata dalla continuità, sia considerando la biomassa iniziale, sia rivolgendosi alle singole specie.
Su questa linea, Boncinelli osserva che è ben vero che oggi "esistono" e sono riconosciute dai fisici quattro forze fondamentali: forza gravitazionale, forza elettromagnetica, forza nucleare debole, forza nucleare forte, le quali controllano fenomeni diversi. Ma, oggi è noto che, elevando la temperatura, la forza elettromagnetica e quella nucleare debole si fondono in un'unica forza elettrodebole. Alzando ancora la temperatura, quest'ultima si fonde con quella nucleare forte e, a una temperatura ancora più alta, anche la forza gravitazionale potrebbe fondersi con tale superforza. Ovviamente, tutto ciò richiede energie enormi. Tuttavia, si crede che ci fu un momento nella storia dell'universo nel quale operava una solo forza unificata. L'abbassarsi della temperatura generò una serie progressiva di rotture di simmetria che condussero alla formazione di nuclei stabili, di atomi, molecole, fino ad evolvere in macromolecole. Quando apparve la vita, ciò corrispose ad un'altra rottura di simmetria, tra vivente e inanimato. Da quel momento, la vita ha iniziato a mostrare un altro tipo di coerenza fatta di persistenza e discendenza. «Gli oggetti viventi sono domini di coerenza relativamente estesi sia nello spazio sia nel tempo. Da questo punto di vista è stato proposto che abbiamo a che fare con una scala di complessità edi estensione crescente estendentesi dalla cellula agli organi ... alle comunità culturali ...» Ecco le proprietà emergenti che i fisici e gli scienziati riduzionisti «vedono con sospetto». «L'argomento delle proprietà emergenti può in effetti essere capzioso e fuoriviante se usato per invocare ... l'intervento dall'alto di entità metafisiche... Nondimeno la contemplazione dell'esistenza di proprietà emergenti e il riduzionismo sono per me due facce della stessa medaglia, due modi complementari di guardare alla realtà» Guardando indietro nel tempo, cercando di ricostruire la storia della natura, non possiamo che volgerci al riduzionismo storico. Esso potrebbe definirsi riduzionismo diacronico. Infatti, l'apparire delle proprietà emergenti si accompagna all'eclissarsi di altri fenomeni. «Si ritiene per esempio che per il grosso della chimica la microstruttura dei nucleoni non sia rilevante e che la maggior parte dei fenomeni viventi non sia neppure la fisica subatomica.»
La conclusione di Boncinelli, in linea con le "Effective quantum field theories", sembra essere che se ogni livello della fisica va affrontato con gli strumenti adatti, dobbiamo considerare con molta attenzione il quadro attuale come non sincronico, ma diacronico.

Sociobiologia e "gene egoista"
Anche le teorie sociobiologiche e la più volte riaffermata teoria del gene egoista, proposta da Richard Dawkins, sono arruolabili nei ranghi del riduzionismo. In quest'ultimo approccio, gli organismi viventi non sono considerati come reali motori della selezione naturale, ma ricettacoli e veicoli di geni, i quali sono le vere unità di selezione. Con ciò, si viene ad affermare che la selezione è soprattutto una lotta per la riproduzione e la sopravvivenza tra i cosiddetti replicatori, opportunisti che utilizzano gli organismi come «campi di battaglia». Quanto alla sociobiologia in generale, è stato osservato che essa venne, paradossalmente, avviata da biologi che non erano "di destra", infatti, si trattava dei protagonisti della nuova sintesi tra genetica di popolazione e selezione naturale maturata negli anni '40, grazie soprattutto ai lavori di Mayr, Dobzhansky, Huxley e Simpson. Un'ulteriore spinta venne dallo sviluppo dell'etologia, cioè lo studio del comportamento animale, che invece era ispirata da idee "di destra". In particolare, è spesso citato il lavoro di Robert Ardrey , L'istinto di uccidere, che purtroppo non ho mai letto. Su tale tronco si innestò il lavoro di E. O. Wilson che, dopo aver studiato le società degli insetti, si mise ad analizzare i comportamenti sociali dei mammiferi e degli esseri umani. Wilson apparve immediatamente un passo avanti rispetto ai precedenti etologi che si erano occupati della questione sulla base degli studi di Konrad Lorenz, in particolare Audrey, Tiger e Fox, i quali avevano sottolineato soprattutto l'elemento deterministico rigido insito nel comportamento di specie. Wilson, al contrario, esibì un approccio più flessibile ma, l'ultimo capitolo del suo libro, dedicato al comportamento sociale degli esseri umani, finì ugualmente sul banco degli imputati. E' interessante notare che anche Wilson concludeva il suo libro con vaghi accenni alla necessità di pianificare e razionalizzare l'economia. Il lavoro odorava anche di "marxismo", dunque, ma venne interpretato in maniera del tutto opposta.
Dal canto loro, gli emergentisti non faticarono a replicare, spesso duramente, anche se a livelli diversi. In un primo momento le reazioni più significative furono politico-filosofiche, anche tra i biologi. Non mancarono durissime critiche da parte delle femministe americane. Veniva contestata la pretesa invasività della sociobiologia, mirata a conquistare con un nuovo Verbo le salde posizioni detenute dalle scienze sociali e storiche, in una parola: a invadere il campo della sociologia e dell'economia, nonché dei rapporti tra i sessi. La sociobiologia è stata accomunata al vento di destra del neoliberismo in economia e del conservatorismo in materia di valori. C'era indubbiamente del vero in questa risposta più istintiva che razionale ma, in realtà, tutti gli studiosi avvertivano più o meno distintamente che anche le basi sociali della convivenza civile tra esseri umani hanno radici biologiche e che, tutto sommato, era stato un errore il dimenticarlo. Si produceva così una confusione tra uso politico degli studi sociobiologici e la qualità degli studi stessi, certamente non privi di interesse. Successivamente, una volta placati i bollori con qualche getto di acqua fredda, anche i più radicali oppositori della sociobiologia riduzionista convennero che non c'era nulla di illecito nel fatto che si studiasse l'organizzazione sociale degli insetti e la si ponesse a confronto con le società umane.
Niles Eldredge e Ian Tattersaal [Eldredge N. e Tattersaal I. 1982] scrissero: «Sperando di trovare gli elementi comuni a tutte le società presenti in natura, i sociobiologi hanno tentato di attribuire una base biologica ai vari fattori del comportamento umano, considerando sia i singoli individui sia gli individui in gruppo. Non c'è errore grave, in tale approccio. Alcuni aspetti del nostro comportamento sono presenti ben oltre i confini della nostra specie, perfino oltre quello del nostro ramo di mammiferi Primati.» Tuttavia, per Eldredge e Tattersaal, la sociobiologia è diventata, non senza motivo, «sinonimo di un approccio altamente riduzionistico alla comprensione del comportamento umano. Una "scienza della società" generale cerca di rintracciare i costituenti comuni a tutte le società. Una certa dose di altruismo, per esempio, laddove alcuni individui agiscono in modo apparentemente contrario a quelli che appaiono come i loro principali interessi, per servire invece qualche scopo più elevato per il bene di tutto il gruppo, sembra essere un ingrediente necessario dell'organizzazione sociale.» Ma questo non era, secondo Dawkins, il vero nocciolo della sociobiologia. Fin dalle prime pagine de Il gene egoista scopriamo che: «Questo mi porta al primo punto che desidero chiarire su ciò che questo libro non è. Io non intendo sostenere una moralità basata sull'evoluzione: dico come le cose si sono evolute e non come noi esseri umani dovremmo comportarci. [ ... ] La mia opinione personale è che una società umana basata soltanto sulla legge del gene, una legge di spietato egoismo universale, sarebbe una società molto brutta in cui vivere. Sfortunatamente, però, per quanto noi possiamo deplorare una cosa, questo non le impedisce di essere vera. [...] Bisogna cercare di insegnare generosità e altruismo, perché siamo nati egoisti.» [Dawkins 1978] La visione di Dawkins è però più complessa di quanto possa apparire da queste perentorie parole di introduzione. Infatti poche righe dopo leggiamo: «è un errore - e un errore molto comune - supporre che i tratti ereditati geneticamente siano per definizione fissati e immodificabili. I nostri geni possono istruirci a essere egoisti, ma non siamo obbligatoriamente spinti a obbedire loro per tutta la vita. Può semplicemente essere più difficile imparare l'altruismo di quanto lo sarebbe se fossimo stati programmati geneticamente a essere altruisti. Fra gli animali, l'uomo è l'unico a essere dominato dalla cultura e da influenze apprese e trasmesse. Qualcuno direbbe che la cultura è così importante che i geni, egoisti o no, sono praticamente irrilevanti per la comprensione della natura umana. Altri non sarebbero d'accordo. Tutto dipende dalla posizione che si assume nella diatriba "natura contro nutrimento" come determinanti degli attributi umani. E questo mi porta alla seconda cosa che questo libro non è: nella controversia natura/nutrimento non sostiene né l'una né l'altra posizione. Naturalmente ho la mia opinione a questo proposito, ma non ho intenzione di esprimerla, eccetto per quanto implicito nella visione della cultura che presenterò nel capitolo finale. Se i geni si riveleranno totalmente irrilevanti per la determinazione del moderno comportamento umano, se davvero siamo gli unici fra gli animali da questo punto di vista è, come minimo, interessante studiare la regola alla quale siamo diventati così recentemente un'eccezione.»

Per quanto mi riguarda, dopo anni di letture, mi sono convinta che è stato fuorviante e paralizzante congelare la discussione sull'alternativa altruismo/egoismo. Il nocciolo della questione era in certo senso già stato individuato da Kant. L'uomo è la più indifesa e debole creatura esistente. Se è sopravvissuta in un mondo ostile, denso di pericoli, è perché ha usato la propria intelligenza e questa lo ha condotto a forme di cooperazione. I vantaggi della socialità sono storicamente evidenti, tanto quanto i piccoli o grandi svantaggi che comporta, uno dei quali è la convivenza parziale o totale con persone spiacevoli, prepotenti, disoneste o antipatiche. Per non parlare dello sfruttamento, che non è più cooperazione, ovviamente, ma una forma aggiornata di schiavitù. La cooperazione può essere vissuta tanto dagli egoisti quanto dagli altruisti. Il fatto che vi siano altruisti più altruisti della media è forse anche un problema di geni, oltre che di educazione. Sarebbe tuttavia una perdita di tempo cercare di stabilire col misurino quanto pesi l'educazione e quanto incidano i geni. La realtà è che, ad un certo punto del processo educativo, un individuo comincia ad avvertire un senso di responsabilità nei propri confronti e anche in rapporto a quanto afferma pubblicamente. Da qui in poi egli, o ella, sarà da considerarsi un individuo adulto, anche se non ancora maturo, posto che si sappia come definire 'maturo' un essere umano. Cercherà il suo posto nel mondo del lavoro ed ho qualche dubbio che anche il più altruista tra gli altruisti preferisca una vita da precario a quella di un calciatore o di un manager.
Ciò, per dire che l'essere umano, a differenza di un'ape operaia il cui destino e la cui funzione nella società è totalmente iscritta nei suoi geni, è potenzialmente un individuo polivalente. Potrà fare sia il muratore che lo scienziato o il filosofo e, concretamente, assumendosi la responsabilità di se stesso, potrà anche decidere liberamente di diventare questo o quello, posto che le sue condizioni sociali di partenza glielo consentano. Poco tempo fa lessi una breve autobiografia di Boncinelli consegnata ad un'intervista. [Boncinelli 2006] Da essa emerge quanto possa essere polivalente anche uno scienziato, attratto dalla psicoanalisi e laureato (con pessimi voti) in fisica, prima di votarsi alla biologia.
Potrebbe sembrare che io inclini a lasciar fare il loro mestiere ai sociologi ed agli economisti, invitando i biologi a rientrare nei ranghi. Non è così. Nonostante le accuse e le crtiche - spesso giustificate - la biologia è ancora una delle scienze più neutrali che io conosca, proprio a differenza di sociologia, economia e, persino, antropologia. Con la sua obiettività e oggettività, può pertanto aiutare a far luce su punti ancora oscuri di molte questioni, comprese quelle non strettamente biologiche. Cavalli Sforza, ad esempio, ha mostrato come si possano legare la ricerca sull'evoluzione culturale e la genetica evolutiva senza pretendere di fare della sociobiologia reaganiana. [Cavalli Sforza 2004] Potrebbe quindi essere di grande interesse l'ultimo tema a cui vorrei accennare: quello dei metodi impiegati in biologia.

Assiomatizzare, indurre o impiegare la dialettica?
Dò per scontato che il metodo sperimentale sia il più utilizzato e ricorrente anche in biologia. Dovrebbero essere celebri, purtroppo non lo sono, gli esperimenti di Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani. Altrettanto si potrebbe dire di quelli compiuti da Mendel, o dallo stesso Darwin, per non dire di Pasteur. Il secolo appena trascorso è caratterizzato da un impiego massiccio e quasi esclusivo di metodi sperimentali. Ciò, in biologia, non è esente da difficoltà. Gli oggetti biologici sono, direi per loro natura, spesso sfuggenti. Finché rimaniamo nell'ambito fisico-chimico, tutto sembra filare relativamente liscio. Ma le cose si complicano notevolmente quando si passa a studiare un organismo vivente. Anche il più elementare dei batteri presenta una struttura organizzativa e fisiologica di estrema complessità. Mi viene facile ricordare che in qualche modo il principio di indeterminazione scoperto da Heisenberg potrebbe valere anche nel mondo della biologia. Se l'osservazione può interferire con la realtà, immaginiamoci in quale misura la stessa realtà potrebbe essere influenzata da manipolazioni che alterano il normale funzionamento fisiologico. Eppure, nonostante queste riserve, che non sono certo la prima ad evidenziare, si è accertato che non vi è altra via per giungere ad una comprensione più completa della logica e della grammatica del vivente. Si deve isolare un particolare aspetto di un fenomeno biologico e vedere come si manifesta in particolari condizioni, contando sul fatto che questo isolamento non altera in misura decisiva le dinamiche dell'organismo studiato. Questa potrebbe essere solo una speranza, ma è evidente che l'affinamento crescente delle procedure sperimentali ha condotto a livelli di scrupolosità crescente. Mi ero proposta di affrontare specificamente i molteplici problemi del metodo sperimentale ma, lo farò con un articolo specifico. Qui mi preme osservare che fare esperimenti non è un'esclusiva del riduzionismo. Tuttavia, i riduzionisti si trovano particolarmente a loro agio in rapporto a metodi sperimentali. I risultati confermano o smentiscono le loro ipotesi. L'assiomatizzazione, che per un certo periodo è stata una sorta di assicurazione sulla vita della scientificità di una teoria, renderebbe molto più facile la vita dei riduzionisti in biologia. Eppure, probabilmente, questa è un'idea approssimativa. Allo stato attuale delle conoscenze non tutta la biologia si può assiomatizzare senza lasciar fuori della porta dei resti importanti. Inoltre, un metodo ipotetico-deduttivo, non solo sarebbe compatibile con un approccio emergentista, ma lo potrebbe potenziare. Tutto sta a trovare il principio da cui far discendere una catena coerente di deduzioni.
L'idea di una assiomatizzazione della biologia, simile a quella tentata dalla fisica, non ha però mai incontrato grande fortuna. Uno dei tentativi più rilevanti fu messo in opera dal filosofo Michael Ruse, che prese apertamente posizione, in particolare, contro tre autori, J. J. C. Smart, M.Beckner e T. A. Goudge, i quali avevano sostenuto l'irriducibilità della biologia a sistemi assiomatici, e persino a percorsi ipotetico-deduttivi. [Ruse 1971] Il punto di partenza del ragionamento di Ruse fu la teoria dell'evoluzione come era stata delineata dalla sintesi neodarwiniana della prima metà del Novecento. Ma, prima di Ruse, altri studi avevano evidenziato che lo stesso Darwin non aveva seguito, in realtà, "metodi baconiani", e quindi induttivi. Anzi, era stato criticato proprio per questo dagli epistemologi e dai fisici del suo tempo. Se scorriamo la letteratura sul metodo darwiniano e sui metodi più generali della biologia, anche solo citando a memoria, la troviamo molto varia e per nulla portatrice di posizioni coerenti. A filosofi come Cassirer, sostenitore di un Darwin "baconiano", si sono aggiunti studiosi di biologia, ancora più agguerriti, con lo scopo di difendere il carattere induttivo delle ricerche darwiniane. Alla voce Biologia del Dizionario di Biologia [a cura di Fasolo A. 2003], Pietro Omodeo afferma: «In biologia, come del resto in tutte le discipline naturalistiche, si parte dalla osservazione e descrizione e poi si procede, se del caso, a generalizzioni compiute su basi induttive. Un passo ulteriore consiste nella formulazione di proposizioni o di principi (la differenza tra i due termini è vaga, si preferisce parlare di principi se ampiamente collaudati e accettati). Proposizioni e principi (esempio: ogni vivente nasce da un uovo) sono poi sottoposti a controllo e rimangono aperti a integrazioni e correzioni. Non assurgono mai a universali a meno che non scaturiscano o siano corroborati da necessità logiche.» Altri autori, come Mayr e Ghiselin [Ghiselin M. T. 1969] hanno preso apertamente posizione nel sostenere il carattere ipotetico-deduttivo della scienza darwiniana ed io mi sono convinta della correttezza parziale di questa tesi leggendo alcuni lavori di Maynard Smith. [Maynard Smith J. 1975] Tuttavia, nemmeno il Darwin completamente ipotetico-deduttivo apparve convincente e, un ulteriore sguardo sugli ormai poderosi studi sul "metodo" mi portò a considerare con maggiore attenzione l'approccio dialettico-critico prospettato da Czeslaw Nowinski. [Nowinski C. 1967] E' solo un altro modo di chiamare il metodo eclettico-opportunista a cui abbiamo accennato senza scomodare filosofi considerati pericolosi per la ragione come Feyerabend.
Per gettare altra luce su questi punti, abbiamo necessità di prestare un po' d'attenzione ai metodi realmente impiegati da Mendel e Darwin, ai "fattori ereditari" e alla "selezione naturale". E' il secondo articolo di questa carrellata, ma lo concepii per primo, nel luglio 2007: I metodi di Mendel e di Darwin
note:
(1) Wulff, Pedersen e Rosenborg hanno evidenziato con molta chiarezza che l'essere umano non è solo un organismo biologico e che la medicina è qualcosa di più di una branca della scienza naturale. Tuttavia, di fronte a delirium tremens, psicosi maniaco-depressive e schizofrenia, non hanno dubbi: l'ansia è patologica e non esistenziale: si tratta con i farmaci. Al contrario, in un quadro ove predomina il dato esistenziale, la terapia farmacologica può essere avviata solo in accordo con una libera scelta del paziente. [Wulff, Pedersen, Rosenberg 1986] Ora, stabilire se un malessere sia patologico o letterario-filosofico è piuttosto difficile. Nemmeno il livello culturale di persone affette da angoscia potrebbe garantirci che si tratta di una causa esistenziale. Se si scava nel vissuto di alcoolizzati ignoranti, non è affatto detto che alla radice non vi sia un disagio esistenziale primordiale. Ma, a prescindere da questa riserva, le osservazioni del trio danese mi paiono fondamentalmente giuste.

bibliografia:
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Boncinelli E. [1998] - I nostri geni - Einaudi 1998
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Boncinelli E. [2006] - Idee per diventare GENETISTA - Zanichelli 2006
Canguilhem G. [1988] - Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita - La Nuova Italia 1992
Cassirer E. [1958] - Storia della filosofia moderna / vol. IV - Einaudi 1958
Cavalli Sforza L L. [2004] - L'evoluzione della cultura - Codice Edizioni 2004
Dawkins R. [1976] - Il gene egoista - Mondadori 1992
Ghiselin M. T. [1969] - Il trionfo del metodo darwiniano - Il Mulino 1981
Jordan B. [2000] - Gli impostori della genetica - Einaudi 2002
Hawking S . Penrose R. [1996] - La natura dello spazio e del tempo - Sansoni 1996
Maynard Smith J. [1975] - La teoria dell'evoluzione - Newton Compton 1976
Mayr E. [1982] - Storia del pensiero biologico - Bollati Boringhieri - 1990
Nowinski C. [1967] - Biologia evoluzionista e dialettica - in: (a cura di) Pancaldi G. - Evoluzione: biologia e scienze umane - Il Mulino 1976
Omodeo P. - Biologia - in: Fasolo A. (a cura di) - Dizionario di Biologia - UTET 2004
Pievani T. [2005] - Introduzione alla filosofia della biologia - Laterza 2005
Ridley Mark [1993-1996-2004] - Evoluzione - Mc Graw-Hill 2006
Rose S. [1998] - Linee di vita - Garzanti 2000
Ruse M. [1971] - La teoria dell'evoluzione come sistema ipotetico-deduttivo - versione italiana di Is the Theory od Evolution Different? - articolo apparso in "Scientia", CVI 1971 - La traduzione è nella raccolta a cura di Giuliano Pancaldi - Evoluzione: biologia e scienze umane - Il Mulino 1976
Schrödinger E. [1944] - Che cos'è la vita? - Sansoni 1988, e anche ora, Adelphi 1995
Wilson E. O. [1975] - Sociobiologia. La nuova sintesi - Zanichelli 1980
Wilson E.O. [1998] - L'armonia meravigliosa - Mondadori 1999
Wulff H. R., Pedersen S. A., Rosenberg R [1986] - Filosofia della medicina - Raffaello Cortina Editore 1995
GS - maggio 2010