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Il sapere del biologo
I metodi di Mendel e Darwin
di Giuseppina Saccone
«Nei confronti di quegli ibridi la cui progenie è variabile noi possiamo forse presumere che tra gli elementi differenziali delle cellule uovo e polliniche pure avviene un compromesso in quanto che diviene possibile la formazione di una cellula come capostipite dell'ibrido; ma ciò nonostante l'accomodamento tra gli elementi opposti è soltanto temporaneo e non dura oltre la vita della pianta ibrida. Poiché nell'aspetto delle piante non sono percettibili cambiamenti durante l'intero periodo vegetativo, noi dobbiamo pure presumere che è possibile per gli elementi differenziali liberarsi dalla forzata unione soltanto quando si sviluppano le cellule riproduttive.»
Gregor Mendel - Esperimenti sugli ibridi vegetali
Non si possono discutere i "metodi" di Mendel e Darwin senza dar conto, sia pure sommariamente, delle rispettive teorie e delle influenze che esercitarono sui contemporanei e sui successori. Per Mendel, il discorso è relativamente più semplice. Egli applicò una specie particolare di riduzionismo analitico del tutto compatibile con una visione emergentista. Egli dimostrò che la variabilità dei caratteri esteriori all'interno di una specie può essere ricondotta a fattori particolari e isolabili. Può risultare controverso se Mendel abbia adottato un procedimento ipotetico-deduttivo o induttivo; cercheremo di chiarire questo punto.
Per quanto riguarda Darwin, siamo entrati in una fase nella quale si sottolinea il suo approccio ipotetico-deduttivo. In realtà, a mio avviso, l'accento andrebbe posto soprattutto sul carattere sintetico, e dunque eclettico, della costruzione teorica darwiniana, la quale, come evidenziato in più scritti da Mayr, è la somma non aritmetica di più teorie non convergenti di per sé, ma fatte convergere da Darwin in modo da costruire una super teoria assai più penetrante e feconda dei singoli pezzi di cui era composta. Qui analizzeremo alcuni di questi passaggi, concludendo con un'apertura problematica ad alcune idee di Nowinski, il quale sottolineò la comparsa in Darwin di una dialettica non riportabile al pensiero di Hegel e di Marx. Nowinski potrebbe aver ragione. Ciò vorrebbe dire che un certo tipo di biologia evolutiva riposa su principi dialettici che, senza arrivare agli estremi del negarsi l'un l'altro, possono talvolta entrare in una fase di opposizione, indirizzata però a rimuovere ragionevolmente quanto vi è di contraddittorio.
Due dilettanti. A Darwin mancava la salute per diventare un professionista e dovette interrompere gli studi di medicina perché non reggeva lo stress della dissezione. Mendel curava il suo giardino: un abate appassionato di botanica era entrato in corrispondenza con un luminare come von Nägeli dell'università di Monaco, ma fu largamente snobbato da quest'ultimo anche quando gli scrisse di certi esperimenti.
Eppure questi due dilettanti (1) rivoluzionarono la biologia inventando i due concetti fondamentali per ogni biologo del Novecento: la selezione naturale e la separazione dei caratteri ereditari. Come tutti i pensatori rivoluzionari, riuscirono a dividere in fazioni avverse il fior fiore dei biologi. Ci volle un'altra mezza rivoluzione per trovare unità e sintesi. In realtà, come sottolineato da Mark Ridley [Ridley 1993], considerato che in Darwin mancava una solida teoria dell'eredità, e che la sua "incerta ipotesi" sul rimescolamento - la pangenesi - si sarebbe prestata a più di di una critica, in linea puramente logica la teoria mendeliana sarebbe tornata molto comoda. Se con il rimescolamento pangenetico, infatti, nulla garantiva che i caratteri ereditari si sarebbero conservati nel tempo, insieme alle variazioni, con la pangenesi, l'ereditarietà diventava intrinsecamente problematica.
Ormai sappiamo che quasi certamente Darwin e Mendel si erano anche reciprocamente letti (nella biblioteca di entrambi campeggiavano le rispettive opere), eppure si ignorarono. Anche se in Mendel comparve un timido accenno all'evoluzione delle forme organiche, e in Darwin nacque l'idea della pangenesi. Se invece di ignorarsi fossero entrati in corrispondenza, forse, e questo è proprio un superforse, la biologia avrebbe potuto fare passi da gigante già sul finire dell'Ottocento. Ma, ciò non avvenne. Così accadde che sorsero due teorie indipendenti che cercavano di spiegare la variabilità e la continuità. Quella mendeliana era il frutto di un lavoro isolato e di una insaziabile curiosità, ma concentrata su un solo punto: esperimenti di ibridazione tra le piante. Quella di Darwin veniva a coronamento di una fatica più vasta, titanica, che lo aveva impegnato tutta la vita. Dopo essersi convinto che la selezione naturale è il grande arbitro che decreta il successo e l'insuccesso delle specie in perenne ma lentissima mutazione, egli cercò una spiegazione alla variazione e la formulò con la teoria della pangenesi. Tra la pangenesi di Darwin e la teoria mendeliana c'è una parentela molto relativa. Per Darwin, ogni frammento dell'organismo, ogni cellula, produce una "gemmula" che può riprodursi nella prole. Jacob nota: «Darwin, come - prima di lui - Maupertuis e Buffon, non faceva alcuna distinzione fra le componenti dell'organismo dei genitori, i semi di questi ultimi e l'organismo del figlio. [...] Per Mendel, l'ereditarietà si presenta del tutto diversamente, attraverso un insieme di fenomeni analizzabili con grande precisione.» [Jacob 1970]
Mendel fu il primo naturalista ad applicare la matematica allo studio del vivente ma, contrariamente a quanto ripete erroneamente una certa vulgata, non fu il primo a studiare le ibridazioni e gli incroci. Prima di lui, lo stesso Linneo compì esperimenti, dimostrando di aver prodotto due ibridi mediante impollinazione artificiale. Linneo si convinse di trovarsi davanti a due nuove specie e della loro costanza riproduttiva. Altri sperimentatori, sulla scia di Linneo, furono Kölreuter, Gärtner, Wichura, i francesi Charles Naudin e Augustin Sageret. Quest'ultimo fu probabilmente il primo a isolare e individuare i caratteri 'puri' studiando due varietà di meloni con caratteri diversi quali il colore della polpa, dei semi, la superficie della corteccia, il rilievo delle costole e il loro sapore. A Sageret si deve inoltre la prima definizione della 'dominanza' di un carattere ereditario, e dell'impiego del termine 'segregazione' per definire un carattere che scompare in una generazione ma si ripresenta nelle successive. In sostanza, intorno alla metà degli anni '50 dell'Ottocento, esistevano 'fatti' ed 'esperimenti' di grande interesse, mancava però una teoria adeguata della trasmissione ereditaria.
Mendel, per otto anni, generazione dopo generazione, attese pazientemente che le sue ibridazioni maturassero. Aveva cura di coprire la cima della pianta con un sacchetto per evitare un'eventuale autofecondazione. Impediva che le api si avvicinassero alle piante. Scoprì in che genere di rapporti proporzionali entravano un certo numero di variazioni in generazioni successive di piselli. Selezionò 34 piante del genere Pisum e le incrociò per osservare l'eredità di 7 coppie di caratteri antagonisti: semi lisci e rugosi, cotiledone giallo e verde, tegumento dei semi e fiori bianchi e colorati, baccelli semplici e concamerati, baccelli immaturi verdi o gialli, disposizione dei fiori sullo stelo, piante a caole lungo o corto. Per esaudire l'esigenza di tener conto di tutte le combinazioni possibili bisognava ottemperare a due precise condizioni. 1) La sperimentazione doveva avvenire su scala così ampia da poter trascurare gli individui e valutare solo l'insieme. 2) Non era sufficiente limitarsi agli effetti osservabili nella prima generazione, bisogna seguire gli sviluppi, generazione dopo generazione. La possibilità di collocare ogni nuovo individuo in una classe predeterminata, forniva il criterio per valutare tutti i risultati.
«I risultati furono sorprendenti - nota Barsanti - perchè da nessuna delle sette tipologie di incrocio sortirono mai ibridi dai caratteri intermedi, ma sempre identici a quelli di una delle forme incrociate: sempre piselli dai semi lisci, dai cotiledoni gialli, dai semi con l'involucro bianco, dai baccelli lisci, dai baccelli immaturi verdi, dai fiori ascellari, e di pianta alta. I caratteri ereditari si trasmettono indipendentemente l'uno dall'altro e senza subire modificazione alcuna: semplicemente accade che alcuni di essi sono "dominanti" e altri "recessivi", come si espresse lo stesso Mendel.» [Barsanti 2005]
Vediamo in dettaglio. Dopo la prima ibridazione artificiale, le piante furono sottoposte ad autoimpollinazione, lasciando cadere il polline di ciascun fiore sullo stigma dello stesso. Alla prima generazione, emersero solo i caratteri dominanti. Ma tra i 7324 discendenti della seconda, 5474 erano lisci, 1850 rugosi. Era notevole rilevare che un carattere che sembrava scomparso alla prima generazione (il seme rugoso) era ricomparso alla seconda. Inoltre, il rapporto tra semi lisci e rugosi era approssimabile a 3:1. Mendel fece altri incroci con linee che differivano per un solo carattere, quelli nominati sopra, e ogni volta trovò che la prima generazione era omogenea, mentre la seconda ripresentava i caratteri segregati (cioè occultati) nella prima. Nonostante la scomparsa, nella prima generazione, di uno dei due caratteri alternativi, il fattore che consentiva alle piante di produrre semi rugosi non si era estinto, rimaneva inespresso, ma poi si ripresentava nelle generazioni successive.
Estendendo gli esperimenti con incroci multiibridi, Mendel si accorse che i caratteri si trasmettevano indipendentemente, non essendovi altro che associazione casuale tra elementi dominanti e recessivi. Si potevano avere piselli gialli e rugosi, verdi e rugosi, gialli lisci e giallo rugosi, ecc.. Questa è la prima legge di Mendel, la quale afferma che la formazione dei gameti è determinata da come le coppie di fattori alternativi si trasmettono a caso, con probabilità al 50%, sempre che l'incrocio coinvolga piante con caratteri non uguali. La seconda legge di Mendel è quella dell'assortimento indipendente e la terza quella della segregazione indipendente. Intuitivamente, si può capire cosa significano: le unità variabili dei caratteri vengono ereditate, o segregate, in modo separato l'una dall'altra. Nessun carattere ne trascina un altro, nessun carattere segregato obbliga un altro carattere a segregarsi.
A parer mio, il tipo di pensiero che originò le leggi mendeliane era di tipo induttivo. Mendel seppe risalire dai dati alla formulazione di un'ipotesi, cercando di comprendere cosa potevano significare. Poi, la successione degli esperimenti venne a corroborare l'ipotesi stessa. Naturalmente, sulla scorta di altre interpretazioni, non tantissime per la verità, potremmo scoprire che Mendel lavorò su un'ipotesi già formulata. Il suo, praticamente, non era un programma di ricerca, ma un programma indirizzato aprioristicamente a trovare una conferma. Se si presta attenzione ad alcune critiche - quella di R. A. Fisher, ad esempio - abbiamo addirittura il sospetto di un "aggiustamento" dei dati da parte di Mendel (o di un suo assistente). Come scrive Renzo Scossiroli: «Secondo Fisher, Mendel doveva innnanzitutto avere, già prima di compiere i suoi esperimenti, una idea ben precisa sul processo di trasmissione ereditaria mediante fattori e sulla loro segregazione nella progenie. Di conseguenza, nel raccogliere le sue osservazioni poteva essersi fermato quando i dati sperimentali risultavano in accordo con le previsioni.» [Scossiroli R. E 1987]
Un altro studioso, J. A. Peters, sostenne che i "sospetti" di Fisher erano un "non-senso". «Il successo di Mendel è infatti dovuto alla scelta rigorosa dei caratteri più adatti per la loro costanza di comportamento... - aggiunge Scossiroli.» Non mi voglio perdere l'occasione per esternare una mia riflessione: Mendel era a conoscenza degli esperimenti condotti dai suoi predecessori. Li nominò espressamente nel suo scritto. Probabilmente, quando diede avvio alla sperimentazione era già in possesso di un orientamento. Ma lo aveva ottenuto ragionando sui dati offerti dai vari Kölreuter, Gärtner, Wichura, Herbert e Ledocq. Dopo di che, aggiunse: «Che, a tal punto, una legge generalmente applicabile governante la formazione e il comportamento degli ibridi non sia stata formulata con successo, può difficilmente meravigliare chiunque abbia familiarità con la vastità del compito e possa apprezzare le difficoltà che devono superare esperimenti di questo tipo.» [Mendel G. 1865] Si noti bene che Mendel aggiungeva di fare attenzione: per arrivare alla formulazione di una legge, sarebbe stato indispensabile estendere gli esperimenti a moltissimi tipi di piante. Il sospetto di Fisher risulta così particolarmente infondato, visto che Mendel incoraggiò a proseguire gli esperimenti, non a fidarsi dei suoi.
Con questi esperimenti Mendel confutò la teoria ereditaria della mescolanza, secondo la quale i figli sono il prodotto di mescolanze di fluidi provenienti da ciascun genitore. Insomma, mescolando fiori bianchi e fiori rossi, non si dovrebbero ottenere fiori rosa in nessun caso, ma solo rossi o solo bianchi.
Ora noi sappiamo che non è sempre così. Ibridando bocche di leone rosse e bianche si possono ottenere anche fiori rosa. La spiegazione sta nel fatto che i caratteri segregati anche nelle linee più pure non sono visibili a chi opera con tecniche e saperi dei tempi di Mendel. I genetisti hanno adottato una teoria, quella della dominanza incompleta, che sembra fornire una spiegazione soddisfacente. Gli esperimenti di Mendel erano stati condotti su linee pure, e su tipi inevitabilmente dominanti o recessivi. Tuttavia, se incrociamo bocche di leone rosse e bianche in un contesto nel quale né il rosso né il bianco sono dominanti, potremmo ottenere fiori striati.
Per la verità, lo stesso Mendel, sperimentando sui fagioli, aveva ottenuto il sorpendente risultato di fiori né rossi né bianchi, bensì intermedi, però non ne tenne conto. Questi casi non sono rari, ed è stato osservato che anche quando sia evidente la possibilità diffusa della dominanza completa, un attento esame del prodotto genico, piuttosto che della forma esteriore, spesso rivela un'espressione genica intermedia. Una situazione di questo genere non è rara nelle malattie del metabolismo.
Tuttavia, come vedremo più avanti (dove non lo so ancora!) la situazione è molto più complicata di quanto non sia apparso negli studi mendeliani ed in quel che abbiamo visto finora. Mendel non sapeva nulla di cromosomi e DNA, né poteva saperlo. Non poteva godere nemmeno di un concetto come quello di "gene". Dovette lavorare con il materiale teorico disponibile, già allora relativamente inadeguato e, in definitiva, con quanto vedeva crescere e fiorire.
Solo Bateson, nei primi anni del '900, avrebbe contribuito a far emergere l'idea che ogni gene ha molti effetti, oltra a quello più evidente, ad esempio il colore verde del pisello, e che la forma di un organismo può essere l'espressione di molti geni raccordati. Queste ricerche aprirono la strada al più recente concetto di epistasi, che descrive una situazione in cui un gene maschera l'espressione di un altro gene, detto ipostatico. Ma questa situazione rimanda ad un altro importante concetto genetico, la pleiotropia. Goldschmidt nel 1955 definì la pleiotropia come l'esito di un processo prodotto da un gene mutato che influisce su un percorso metabolico contemporaneamente all'influenza su altri percorsi metabolici correlati, anche se in modo qualitativamente diverso. Infine, solo nel 1975, Blixt riuscì ad evidenziare che i sette caratteri individuati da Mendel non sono tutti collocati su cromosomi diversi. In un certo senso, secondo Blixt, Mendel fu fortunato, perché evitò di imbattersi in una possibile discrepanza tra frequenze osservate e frequenze attese, ignorando, ma non volutamente, una combinazione particolarmente critica che avrebbe potuto invalidare la legge della trasmissione indipendente dei caratteri.
Comunque sia, abbiamo cercato di ragionare sul metodo mendeliano e sui nuovi 'fondamenti' di una genetica post-mendeliana, prima della grande svolta realizzata grazie alla biochimica. Ma, il discorso sarebbe incompleto se non richiamassimo un altro importante contributo, quello del botanico Wilhelm Johannsen che, nel 1909, introdusse i concetti di "genotipo" e "fenotipo". Poco prima erano stati appena coniati il concetto di "gene" e la definizione di "genetica" come disciplina che studia i meccanismi e le "leggi" dell'ereditarietà.
Per genotipo si intende la totalità delle informazioni genetiche e anche la costituzione genetica di uno o pochi caratteri. Il fenotipo descrive la totalità dell'espressione di un genotipo, quindi le caratteristiche osservabili, sia strutturali che funzionali, e conseguentemente, anche l'espressione di un determinato carattere. Il fenotipo non è solo l'espressione dei geni, ma il prodotto dell'interazione tra genotipo e ambiente in cui nasce e cresce l'organismo. Per Johannsen il genotipo esiste in potenza, ma attuandosi potrebbe trovare condizioni ambientali che ne condizionano l'espressione. «La distinzione si rese necessaria - scrive Sella - perché nella biologia dei primi anni del Novecento serpeggiava la confusione tra i fattori ereditari in sé, come erano stati ipotizzati da G. Mendel e designati allora con una varietà di termini (fattore, gene, carattere elementare, e anlage secondo Mendel) e i caratteri da essi veicolati, che si manifestano nell'individuo. L'opportunità di operare questa distinzione apparve evidente a Johannsen quando dovette interpretare i risultati del suo lavoro sulla selezione di linee pure di fagioli pesanti e leggeri: la selezione di due espressioni estreme dello stesso carattere (peso) sortiva l'effetto di separare linee pure di una popolazione di partenza costituita da fenotipi diversi. L'espressione del carattere nella linea pura non era ulteriormente modificabile nei figli. Nella popolazione di partenza vi erano perciò individui alti capaci di produrre progenie alta e bassa e individui alti (o bassi) capaci di produrre solo progenie identica a loro stessi. Quindi gli organismi non ereditavano i caratteri all'atto della fecondazione, ma soltanto componenti genetiche contenenti ciascuna in potenza il carattere. Egli chiamò genotipo questa potenzialità ereditaria che poteva essere trasmessa alla generazione successiva e fenotipo ciò che in quello stesso individuo poteva manifestarsi come carattere visibile.» [Sella G. 2003]
In pratica, Johannsen asseriva che si eredita il genotipo, non il fenotipo. Tutto ciò accadde dopo la riscoperta di Mendel. Il suo lavoro di Mendel, rimase segregato per circa trentacinque anni, fino a quando De Vries, Correns e Tschermak, forse non a caso tre botanici, lo riportarono alla luce dell'attualità. In seguito, T. H Morgan cominciò a lavorare con criteri analoghi sulla Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta, raggiungendo le medesime conclusioni di Mendel. L'ereditarietà dei caratteri, i fattori ereditari, era dovuta a elementi particellari che si ripresentavano ad ogni generazione successiva alla prima. Erano i geni, per ora fattori invisibili, anche se molti indizi portavano ai cromosomi scoperti negli anni '80 dell'Ottocento. (2)
A grandi linee la teoria darwiniana è brillantemente spiegata nell'articolo di Guido De Pascale su questo sito: Darwin for Dummies. Consiglio di leggerlo in quanto contiene molte osservazioni che qui do per scontate. Non mi voglio occupare, infatti, di descrivere la teoria, ma di invitare a ragionare sul metodo darwiniano.
Mayr ha notato che, in realtà, la teoria della selezione naturale è una superteoria composta da cinque teorie distinte. [Mayr 1991] A noi interessa sapere come Darwin giunse a concepire tale costruzione. Nessuna di esse era veramente una novità, ma nessuno prima di Darwin era riuscito a legarle insieme e dimostrare che l'unione feconda delle parti è maggiore della semplice somma.
Il modello con cui Mayr ha cercato di spiegare la genesi della teoria della selezione naturale, ovvero ciò che accadde nella mente del Darwin seduto alla scrivania, prende in considerazione cinque fatti fondamentali, tre dei quali portano ad una conclusione, la quale, combinata ad altre due fatti, consente di ipotizzare altre due conclusioni.
Vediamo una rappresentazione grafica nella tabella qua sotto.
Fatto 1
potenziale incremento delle popolazioni
(fonte: Malthus)Fatto 2
stabilità permanente osservata nelle popolazioni
(fonte: osservazioni universali dirette)>>>>>>> Conclusione 1
Lotta per l'esistenza fra
individui
(autore della conclusione: Malthus)Fatto 3
limite delle risorse
(fonte: ossevazioni + Malthus)Fatto 4
Unicità dell'individuo
(fonte: allevatori e studiosi di tassonomia)>>>>>>>>>> Conclusione 2
Sopravvivenza differenziale, per es.
per selezione naturale>>>>>>>>> Conclusione 3
Evoluzione attraverso molte generazioniFatto 5
Ereditabilità di gran parte della variazione individuale
(fonte: allevatori)
In realtà, se osserviamo attentamente lo schema, ci accorgeremo che tra la conclusione 2 e la conclusione 3 esiste una evidente difficoltà logica. La cosiddetta sopravvivenza differenziale non porta necessariamente a concludere per l'evoluzione attraverso generazioni. Essa si può supporre, ma non si può dedurre da alcuna premessa o fatto precedente. La connessione con il fatto 5 è logicamente debole, e forse non è nemmeno una connessione, ma solo l'estensione di una analogia. Il fatto 5, infatti, si può limitare a variazioni intraspecifiche. Come a dire che all'interno di una singola specie si originano razze, tipi individuali, discendenze ben determinate, persino mostruosità con scarsissime possibilità di trovare una discendenza, a meno che non si creda ad una continua ripetizione della favola della Bella e della bestia. Esistono certamente grandi difficoltà a far incrociare uno yorkshire con un mastino napoletano, ma non sembra scientifico negare la possibilità di un simile ibrido. Era evidente, agli occhi di Darwin che una progressiva divergenza tra razze della stessa specie, avrebbe comunque potuto portare ad una impossibilità di reciproca fecondazione, quindi ad un isolamento di quella che si è soliti chiamare specie incipiente. Ma una simile ipotesi - allora nulla di più - non era ricavabile che per via induttiva, attraverso le famose osservazioni sui fringuelli delle Galapagos.
Ciò che voglio dimostrare, istigando a considerare una nuova versione della tabella, non è che l'evoluzione attraverso molte generazioni sia illogica, voglio solo dire che essa è raggiunta attraverso la generazione di un'ipotesi. Dopo tutte queste premesse, l'ipotesi è accettabile perché è la più probabile, la meno problematica tra tutte le altre, a meno che non si continui a credere ciecamente nella creazione e nella fissità delle specie.. O non ci si cacci in quella forma di reclusione mentale che è l'agnosticismo. Ciò è accettabile perché la scienza non può rinviare al sovrannaturale, deve trovare spiegazioni materialistiche. Si rivolge pertanto alle ipotesi più probabili.
Dopo aver preso in considerazione fatti e conclusioni, l'evoluzione graduale attraverso molte generazioni, ma molte davvero, diventa l'ipotesi più probabile.
Allora, potremmo ridisegnare la parte destra della tabella così:
Conclusione 2
Sopravvivenza differenziale, per es.
per selezione naturale>>>?>?>?>>>??>>!>!>>!!!>>>!!! Conclusione 3
Evoluzione attraverso molte generazioni
Sia che accettiamo l'ipotesi, sia che la rifiutiamo (o la sospendiamo), il dovere del naturalista filosofo, a questo punto, consiste nel verificarne la corrispondenza ai fatti e alla loro successione cronologica, cercando, inoltre, di comprenderla meglio nelle sue articolazioni, come superteoria. Cominciamo da una scomposizione della teoria.
In primo luogo, Mayr osserva che le cinque teorie sono indipendenti l'una dall'altra e piuttosto diverse tra loro. "Indipendenti" significa non necessariamente legate da una coerenza logica, ma solo accostabili senza violare il principio di non-contraddizione. Inoltre, vuol dire che potrebbe succedere, ed è successo, che si accettino solo alcune delle teorie ma non l'intero stock. La responsabilità della comune credenza di una "sola", "unica e inconfondibile" teoria di Darwin va tuttavia attribuita allo stesso Darwin. Infatti, egli «non si limitava a definire la teoria dell'evoluzione per selezione naturale "la mia teoria", ma chiamava "la mia teoria" anche quella dell'origine comune, come se quest'ultimo concetto e la selezione naturale fossero una cosa sola.» [Mayr 2004] A ulteriore rinforzo di tale ambiguità, contribuì la scrittura del IV capitolo dell'Origine, nel quale Darwin trattò il concetto di speciazione nel contesto della selezione naturale. Qui Darwin attribuì diversi fenomeni, «in particolare la distribuizione geografica», alla selezione naturale, «laddove tali fenomeni rappresentavano invece le conseguenze dell'origine comune.»
«Date le circostanze - prosegue Mayr - ritengo sia imperativo suddividere il quadro concettuale darwiniano circa l'evoluzione nelle teorie principali che costituiscono la base della sua teoria evoluzionistica. Per una una questione di comodità ho distinto il paradigma di Darwin in cinque teorie, tenendo presente che, ovviamente, altri autori potrebbero optare per una soluzione differente.» Quest'ultima considerazione è notevole, in quanto ammette altre possibili immissioni od esclusioni. Persino qualche "sintesi" intermedia.
Cerchiamo di capire quali siano le cinque teorie.
La prima concerne l'evoluzione in sé, la seconda accetta il postulato della discendenza comune da una originaria forma di vita, la terza afferma il gradualismo di ogni modificazione, la quarta evidenzia il processo di moltiplicazione delle specie, la quinta concerne il concetto di selezione naturale vero e proprio. Potremmo aggiungere che nello schema darwiniano entra anche l'accettazione parziale della teoria di Lamarck dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, cioè di quei caratteri che esistono in potenza, per dirla aristotelicamente, ma non vengono in atto se non grazie ad un lavoro, un esercizio ripetuto costantemente da ogni individuo della specie in grado di sviluppare, ad esempio, una forte muscolatura nelle zampe posteriori o la lunghezza del collo delle giraffe. Ma la "giraffa" darwiniana assume subito connotati inconfondibili perché «se ne saranno conservati gli individui che potevano brucare più in alto e che durante le carestie potevano giungere anche solo di uno o due pollici più in alto degli altri, poichè avranno potuto percorrere tutto il paese in cerca di cibo.» [Darwin 1859] Cioè, eliminazione dei meno adatti non per casi fortuiti, ma per deficienze strutturali.
Una volta scomposta la superteoria, ci rendiamo subito conto, credo, che il concetto di "indipendenza" propugnato da Mayr rischia di sviare chi lo interpreta, se non aggiungiamo che si tratta di una indipendenza relativa. E' evidente, infatti, che l'evoluzione in sé è un concetto cardine senza il quale l'edificio crollerebbe. E non avrebbe nemmeno senso. Probabilmente, anche la discendenza comune da una originaria forma di vita è un concetto cardine che dipende strettamente dal primo ma, regge a sua volta anche tutti gli altri. Nella teoria darwiniana non solo non avrebbe alcun senso ammettere che la materia inorganica continua a generare organismi elementari e primordiali destinati ad evolversi, come invece postulò Lamarck, ma, se fosse vero che tali organismi si originano realmente, e sopravvivono, questo potrebbe essere un attacco al principio della selezione naturale. Come vedremo più sotto, abbiamo però sotto gli occhi esempi di "indifesi" che riescono a sopravvivere in condizioni particolarmente ostili, rinviando costantemente sine die, la loro estinzione, anche se a prezzi elevati.
Comunque sia, la teoria della selezione naturale è molto più forte se nega la generazione spontanea dopo la prima generazione spontanea. Da qui discende, deduttivamente, l'esigenza di riconoscere la necessità della moltiplicazione delle specie. E' il gradualismo che, invece, si rivela largamente indipendente dalla necessità della discendenza comune, anche se non da quello di evoluzione in sé. Infatti, potremmo ammettere un gradualismo comune a più discendenze, una dinamica delle variazioni che riguarda diversi tipi di procarioti, diversi tipi di eucarioti, ecc.
Ho detto che è leggendo Maynard Smith, che mi sono definitivamente convinta dell'impiego del metodo ipotetico-deduttivo da parte di Darwin. Sono una testona, per capire certi concetti, impiego spesso molto tempo. L'esempio cui ricorre Maynard Smith è quello dell'altissimo tasso di incremento potenziale (e reale) delle aringhe (Clupea harengas), le quali non godono di alcuna cura parentale. Appena le uova si schiudono, le larve migrano a milioni verso il plancton, dove naturalmente vengono divorate in un amen. Eppure, non si estinguono. Qualche esemplare riesce sempre a sopravvivere ed a farsi catturare da famelici pescatori. Ed è sensazionale che sia riuscita a sopravvivere nonostante la pesca. La selezione naturale - afferma Maynard Smith - «parte dall'osservazione che, in condizioni ottimali, con riserve illimitate di cibo e di spazio e in assenza di predatori e di malattie, tutte le specie animali e vegetali sono in grado di aumentare di numero ad ogni generazione. In poche specie, come ad esempio nell'aringa, il massimo potenziale di aumento per generazione può giungere fino al milione. Tuttavia, perfino in specie come la nostra in cui la prole che può essere prodotta da ogni singola coppia è relativamente scarsa, il tasso potenziale di aumento è molto rapido.» [Maynard Smith 1975]
C'è in tutto questo una vaga assonanza galileiana. «Se» non incontrasse resistenza, un corpo in movimento procederebbe in moto rettilineo uniforme all'infinito. «Se» non ci fossero limitazioni ambientali, una specie si riprodurrebbe senza sosta fino a riempire l'universo. «Se» le aringhe fossero capaci di adattarsi alla terra ferma, avremmo aringhe anche nelle orecchie. Fu questa capacità di sperimentare mentalmente che rese Darwin scienziato al pari di Galileo. Trovare il principio, spiegare perché, essendo sottoposto a condizioni, non può che esplicarsi alle condizioni determinate, in modo relativo.
Il metodo darwiniano, in sostanza, era molto simile a quello di Galileo. Faceva ampio ricorso ad esperimenti mentali che a partire da una situazione ipotetica, ma spesso anche reale, traeva deduzioni, poi ne verificava la coerenza in ambito reale.
Secondo Czeslaw Nowinski, questo procedere complesso tra raccolta di dati da usare in modo induttivo, esperimenti mentali deduttivi e ragionamenti di continua verifica, «consente di cogliere il pensiero dialettico in biologia nel momento della sua nascita. Sarebbe fuor di luogo sospettare che Darwin abbia applicato consapevolmente il metodo dialettico, poiché gli erano estranee le opere di Hegel e Marx. Se in qualche rara occasione egli si pronuncia su questioni di tipo metodologico, è piuttosto per aderire alle idee di Whewell e di Mill. Ciò è tanto più sorprendente in quanto, di fronte a talune questioni che si pone relativamente allo sviluppo storico e ai materiali empirici da lui elaborati, Darwin nel corso dei propri studi sviluppa dei metodi nuovi.» [Nowinski 1967] In tale ambito, Nowinski evidenzia «la nuova concezione del rapporto fra deduzione e induzione, che risulta strettamente connesso al rapporto rilevabile nella teoria darwiniana fra funzione connotativa e denotativa dei concetti teorici, e insieme allo schema operativo di "classe-relazione". Non alludiamo qui - prosegue Nowinski - al rapporto fra induzione per eliminazione e deduzione che si riscontra nella costruzione della teoria della selezione naturale: in ciò Darwin non va oltre gli schemi metodologici precedentemente noti. Se, tuttavia, osserviamo il rapporto fra la teoria della selezione naturale e il sistema di classificazione, constatiamo che la ricostruzione del processo storico presuppone un sistema deduttivo della teoria della selezione e il sistema di classificazione, mentre quest'ultima non può essere trattata in modo deduttivo perché esige l'elaborazione di ipotesi induttive individuali, relative alla collocazione delle forme concrete nell'albero genealogico. Inversamente, la teoria dell'evoluzione concepita in modo deduttivo impartisce le direttive al sistema classificatorio, ma per applicare tale teoria alle specifiche forme di vita è necessario fare riferimento alle ricerche di un tassonomista, con le relative constatazioni induttive e ipotetiche.» Nowinski, in sostanza, conclude che se il sistema tassonomico non discende deduttivamente dalle premesse, ma è dato dalla «storia della vita», questa stessa storia non può venir considerata come semplice descrizione cronologica di trasformazioni successive. Necessita, infatti, della «costruzione di un sistema di relazioni genetiche, che include la considerazione del meccanismo della selezione naturale e dei suoi effetti.» In questo starebbe il nodo della dialettica in Darwin.
Note
1) Nel 1870 venne rifiutata a Darwin la nomina a membro corrispondente dell'Académie des Sciences nella sezione di biologia, perché era, secondo la definizione di E. Blanchard, «un amatore intelligente e non uno scienziato», mancava dunque di un vero spirito scientifico. Solo nel 1978, Darwin ricevette la nomina, ma nella sezione di botanica!
2) Un po' di nomenklatura non guasta mai. Una conseguenza importante delle scoperte di Mendel è che un 'gene' possiede forme alternative che si chiamano alleli. Ora sappiamo cose che Mendel non poteva sapere, ovvero che alleli dello stesso gene occupano sui cromosomi la stessa posizione, detta locus. Nelle piante di piselli tutte le cellule contengono, ad eccezione dei gameti, due alleli dello stesso gene. Queste sono le cellule definite diploidi; i gameti contengono solo una coppia singola di ciascun gene e vengono chiamati cellule aploidi. Pertanto, tutte le cellule di un organismo vivente, definite spesso cellule somatiche, sono diploidi; i gameti, cioè le cellule sessuali, spermi e uova, sono aploidi. Le piante e gli organismi animali che possiedono due coppie dello stesso allele sono dette omozigoti. Quelli che possiedono due alleli diversi sono detti eterozigoti.
Bibliografia
Darwin C. [1959] - Origine delle specie - Newton Compton
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Mayr E. [1982] - Storia del pensiero biologico - Bollati Boringhieri - 1990
Mayr E. [1991] - Un lungo ragionamento - Bollati Boringhieri - 1994
Mayr E. [2004] - L'unicità della biologia - Raffaello Cortina Editore - 2005
Mendel G. [1865] - Esperimenti sugli ibridi vegetali - in: a cura di Renzo E. Scossiroli - I primi passi della genetica - Jaca Book 1987
Nowinski C. [1967] - Biologia evoluzionista e dialettica - in: (a cura di) Pancaldi G. - Evoluzione: biologia e scienze umane - Il Mulino 1976
Ridley Mark [1993-1996-2004] - Evoluzione - Mc Graw-Hill 2006
Scossiroli R. E [1987] - I primi passi della genetica - Jaca Book 1987
Sella G. [2003] - Genotipo e fenotipo - in Dizionario di biologia - a cura di Aldo Fasolo - UTET 2003
GS - prodotto nel luglio 2007, pubblicato nel novembre 2007