La filosofia prima della filosofia
di Daniele Lo Giudice
E' esistitita una filosofia prima della filosofia?
Per rispondere, dovremmo sapere non
tanto
definire cosa sia la filosofia oggi,
impresa
che lascio volentieri a qualcun altro,
ma
cosa fu, in origine.
E questo mi risulta più facile.
Cosa significa" filosofia"?
Pare che la parola filosofia sia stata
inventata
da Pitagora, uno dei primi filosofi,
ma non
il primo, giacchè la tradizione storiografica
indica in Talete di Mileto, Anassimandro
ed Anassimene i primi pensatori caratterizzati
da un atteggiamento filosofico.
Pitagora fu una figura semimitica,
che non
lasciò nulla di scritto, o meglio,
non lasciò
alcuna pubblicazione, perchè, non credo
sia
possibile insegnare aritmetica, geometria,
la prima teoria delle armonie musicali,
come
egli fece, senza scrivere almeno numeri
ed
operazioni, e disegnare simboli e figure.
E' molto probabile che egli abbia composto
testi esoterici, cioè destinati esclusivamente
agli allievi della sua scuola, ed è
anche
probabile, purtroppo, che essi siano
andati
persi durante le sfortunate vicende
della
setta pitagorica, che ovunque cercasse
di
stabilirsi, incontrava invariabilmente
l'ostilità
dei cittadini, soprattuto quelli del
partito
anti-aristocratico. Eppure egli fu,
in un
certo senso, il primo teorico di una
sorta
di comunismo utopistico, sostenendo
e praticando
la comunanza dei beni ed un rigido
ascetismo
che proibiva il consumo di carne e
di fave.
Con una battuta potremmo dire che egli
si
attirò l'astio degli allevatori di
bestiame
e dei macellai, ma non saremmo lontani
del
vero se dicessimo che i poveri detestano
gli esempi di comunismo costruito su
basi
volontarie ( ed anche quello imposto
da un
governo) perchè vi vedono la negazione
di
tutti i loro desideri, primo dei quali
la
ricchezza che non hanno mai avuto.
E, non
andremmo ugualmente lontano dal vero,
se
dicessimo che per i poveri, il comunismo
comincia con la possibilità di mangiar
carne,
un bisogno e spesso un desiderio negato
dalla
loro stessa povertà.
In sostanza è facile chiarire i motivi
per
i quali Pitagora non piaceva alla sinistra
del tempo, pur essendo il primo dei
comunisti,
quanto meno nel mondo greco, e quindi
anche
in filosofia.
E' difficile stabilire cosa intendesse
veramente
Pitagora per filo-sofia, se, p.e.,
una generica
disposizione allo studio ed alla ricerca,
o qualcosa di molto più specifico,
una sorta
di iniziazione allo studio dei misteri
del
mondo che, solo nella sua scuola, poteva
trovare realizzazione.
Comunque sia, non pare sbagliato concentrarsi
sul significato della parola stessa,
la quale
è composta di due termini: philo, che
vuol
dire amore (amicizia) e sophia, che
vuol
dire sapienza.
Essere amici della sapienza, amare
la sapienza,
dunque.
Più che per un sapere specifico e specializzato,
il filosofo si caratterizzò fin dall'inizio
per il suo desiderio di sapere. Ma
il suo
desiderio non si fermava al mito, od
a quanti
tutti sapevano, ma voleva andare oltre.
Pitagora intuì che la sua proposta
di vita,
non solo di studio, si badi, poteva
allettare
moltissimi: cosa c'era di meglio che
ritirarsi
in una tranquilla comunità di fratelli
e
cercare risposte ai tanti perchè, discutere
e vivere insieme?
Abbiamo insistito su Pitagora non solo
perchè
pare probabile che egli sia stato il
vero
inventore del termine filosofia, ma
perchè
è evidente che in Pitagora il trapasso
dal
vecchio modo di pensare mitopoietico,
ed
il nuovo abito mentale del filosofo,
in realtà
non era compiuto del tutto.
Cerchiamo di spiegare questo punto,
arrivando
al sodo, ovvero a dire cosa fu la filosofia.
Cosa fu la filosofia?
L'amore per il sapere dei primi filosofi,
si indirizzò soprattutto ad una ricerca
in
tre campi distinti, sebbene visibilmente
collegati: un ragionamento sulle origini
del mondo, un ragionamento su quale
sia per
l'uomo la miglior vita, ed, infine,
un ragionamento
sul ragionamento, cioè un'analisi critica
delle forme strutturali del pensiero
e del
linguaggio, e degli argomenti e delle
prove
esibiti nel discorso dimostrativo.
Come si vede, in ogni caso, la parola
ragionamento
costituisce la chiave di volta dell'intero
atteggiamento mentale di chi amava
la sapienza
e, dunque, filosofava.
Tutti i filosofi greci della prima
ora sembravano
ammettere che senza un ragionamento,
un esame
circostanziato, non si potesse pervenire
ad alcunchè di certo e di stabile,
di rassicurante,
insomma, ad una vera sapienza.
Questo ragionamento sulle origini nei
primi
filosofi si diversificò potentemente
da tutta
la tradizione culturale precedente
perchè,
invece di dedicarsi allo studio dei
miti
sull'origine del mondo, degli dei e
degli
uomini, considerò molto più importante
concentrarsi
sul principio immanente al mondo stesso.
Potremmo dire sul presente, invece
che sulla
storia, concesso che il mito sia in
qualche
modo credibile come storia.
Per i primi filosofi, per Talete, Anassimandro,
Anassimene, il problema del principio
del
mondo si poteva tranquillamente affrontare
ragionando sul presente, giacchè era
proprio
nella realtà della physis (la natura,
non
la fisica) che esso insieme si rivelava
e
si nascondeva.
Com'è noto, ogni filosofo della prima
ora
fornì una sua interpretazione. Talete
dichiarò
che il principio di tutte le cose era
l'acqua.
Anassimandro parlò di un principio
diverso,
l'apeiron, ovvero l'illimitato da cui
si
generano tutti i corpi finiti; Anassimene
asserì che tutto dipendeva dall'aria.
In tutti e tre è comunque evidente
che non
si parla di Dio e cosmogonie, che non
c'è
storia, che la soluzione al problema,
per
un aspetto è nascosto, e per un altro
è già
sotto i nostri occhi.
Ora è chiaro, sotto questo profilo,
che l'atteggiamento
di Pitagora, fu insieme innovativo
e conservatore.
Da un lato egli forzò ulteriormente
la ricerca
sulla natura, individuando nei numeri
la
misura dell'armonia delle cose, il
principio
che le tiene assieme, le fa nascere,
sviluppare
e perire, garantendo comunque una relativa
stabilità.
Dall'altro lato, tuttavia, egli rimase
saldamente
ancorato ad una visione religiosa,
continuando
la tradizione orfica della dottrina
della
trasmigrazione delle anime, ma discostandosi
decisamente da questa in quanto il
dio ispiratore
non era il mistico Dioniso, ma il solare
Apollo, in qualche modo simbolo di
evidenza
e ragione, contrapposto a mistero e
frenesia
mistica.
La leggenda narra, anzi, che egli ricevette
la rivelazione della sapienza apollinea,
che comprendeva, si crede, anche aritmetica
e geometria, da una sacerdotessa di
Apollo,
una certa Temistoclea.
Ma, di Pitagora si racconta anche che
egli
fece lunghi viaggi di studio in Egitto,
e
forse, in Mesopotamia, e fu nel corso
di
tali viaggi che egli ricevette le conoscenze
matematiche di egiziani e babilonesi,
nonche,
si crede ancora, anche le loro cosidette
visioni del mondo e la loro saggezza
pratica.
La tesi di quelli che sostengono una
derivazione
della filosofia greca dalle culture
mediorientali
ha dunque anche questo fondamento.
Sia Pitagora,
che gli stessi apollinei, vennero al
corrente
dei più importanti misteri della sapienza
detenuta dai sacerdoti egiziani, babilonesi
e persiani.
Semplicemente conoscendo un po' di
storia
antica, è facile concludere che, tuttavia,
nulla di simile alla ricerca sulla
physis
inaugurata da Talete e proseguita da
Anassimandro
e Anassimene, si può trovare nel vicino
oriente,
nè in Egitto, nè tra gli ebrei, nè
nella
Persia del mitico Zarathustra.
Non già perchè perchè manchino storie
e miti
sull'origine del mondo, o consigli
all'uomo
su quale sia la miglior vita, ma perchè
invariabilmente
il racconto mitico ruota attorno al
concetto
di un dio creatore, anteriore a tutti
gli
altri dei, e perchè sembra anche difficile
disgiungere l'invenzione del mito dall'intenzione
di raccontare una storia capace di
istillare
qualche idea volta ad animare il popolo
ed
a convincerlo di essere migliore, più
divino,
degli altri.
Tra i greci accadde, al contrario,
qualcosa
di radicalmente diverso: la ricerca
sulle
origini non solo potè persino accantonare
il problema di dio, almeno per un po',
ma
si avviò decisamente alla ricerca della
verità,
avendo come unica intenzione la verità
stessa.
Aristotele dirà poi che l'oggetto della
ricerca
è il necessario, ovvero il nucleo di
realtà
che non può essere altrimenti da ciò
che
è. Con ciò egli colse in modo sintetico
l'essenza
stessa del filosofare.
Questo a me pare il tratto decisivo
che caratterizzò
e distinse un orientamento filosofico
da
tutti i possibili altri atteggiamenti,
i
quali si possono poi riassumere grosso
modo
in due: quello fideistico e quello
agnostico.
Per il primo non c'è nulla da cercare
perchè
la vera sapienza si trova nell'insegnamento
religioso, dato da Dio , o da un dio,
all'uomo
illuminato dalla luce divina, spesso
il sacerdote,
e prima di lui, il mago e lo stregone.
Per il secondo è inutile cercare, perchè
l'uomo non è in grado di arrivare ad
alcuna
conclusione di tipo generale.
Per quanto radicalmente opposti, fideismo
ed agnosticismo concordano nel negare
alla
ragione umana ed all'uomo stesso la
possibilità
di arrivare a verità ultime con i propri
mezzi.
Visto che la filosofia fu, in genere,
tollerante,
essi vennero a costituire posizioni
filosofiche
vere e proprie.
Ma, chi osserva che l'abito mentale
del filosofo,
in origine, non poteva che essere radicalmente
opposto a quello del fideista, o dell'agnostico,
ha indubbiamente ragione.
Un precedente illustre: la sapienza indiana
La parola filosofia non ha l'equivalente
in nessuna lingua antica, nemmeno in
India,
ovvero nell'unico paese nel quale sia
veramente
esistito qualcosa di simile alla filosofia
sorta in Grecia, Cina a parte, come
cercherò
di spiegare.
Gli antichissimi indù chiamavano la
loro
sapienza in molti modi: in primo luogo
sapienza
o vidyâ, poi tarka-shastra, ossia dottrina
fondata sul ragionamento,ed anche anvishikî
vidyâ, scienza della revisione. Quest'ultima
definizione fu usata da Kautilya, in
un trattato
di scienza politica risalente a poche
centinaia
di anni prima di Cristo e dunque contemporaneamente
al fiorire della filosofia in Grecia.
Spesso nei testi indù si incontra anche
il
termine atman-vidyâ, termine che non
so bene
se traducibile come sapienza dell'anima
o
sapienza dell'io. Ma, anche in questo
caso,
è evidente che siamo ad una delimitazione
ulteriore dell'ambito del sapere con
un oggetto
preciso, nient'altro che un ragionamento
logico sulla certezza di sé e sull'esistenza
o meno di una componente spirituale
ed eterna
dell'io, indipendente e diversa da
quella
corporea.
Con tali termini differenziati gli
indù designavano
non solo la riflessione umana sulle
esperienze
fondamentali ma anche qualcosa di molto
diverso,
ponendo essi, fin dall'inizio, alla
base
del loro ragionare, la "luce dei
veda",
quattro libri antichissimi, che secondo
gli
stessi indiani esistevano da sempre,
ed erano
il frutto di una sapienza sovraumana,
una
rivelazione di verità eterne che il
divino
aveva porto agli umani.
Fino al rivoluzionario avvento del
Buddha,
nel corso del primo millennio a.C.,
tale
sapere tradizionale non fu mai contestato,
ma solo sviluppato ed integrato in
prospettive
complementari.
Le Upanishad, testi che risalgono al
primo
millennio, costituirono, sotto questo
aspetto,
una prosecuzione dei Veda, nella forma
di
una speculazione intellettuale e non,
come
spesso si trova scritto, un momento
di transizione
a concezioni più moderne.
Pertanto, come molti hanno sottolineato,
la tradizione sapienziale indiana presenta
qualcosa di simile alla scolastica
medioevale
dell'occidente.
Non ponendosi mai il problema di superare
con la ragione i dogmi contenuti nei
veda,
ma semmai di mostrare le basi razionali
delle
credenze espresse in quei testi, essa
venne,
nel tempo, a cristallizzarsi in sei
darshana,
o punti di vista, che costituirono
qualcosa
di definitivo e di chiuso, un sapere
oltre
al quale non sembra possibile andare,
se
non abbandonando l'ambito stesso delle
credenze,
e ricominciando da capo la riflessione.
In tale quadro le varie dottrine sorte
nel
primo millennio a.C., dal buddhismo
al jainismo,
da varie forme di materialismo, detto
carvaka,
a innumerevoli forme di religioni locali
e regionali, che poi sfociarono nelle
grandi
correnti religiose del visnuismo e
dello
shivaismo, rappresentarono qualcosa
di eversivo
e rivoluzionario, evidenziando, ad
esempio,
come la credenza nella reincarnazione
secondo
meriti acquisiti nelle vite precedenti
finisse
solo per giustificare l'odioso sistema
di
divisioni sociali esistente con le
caste
attraverso un fatalismo per il quale
l'occidentale,
sia ateo che cristiano, non può che
stupire
e sdegnarsi.
Nella sapienza degli antichi indiani,
infatti,
nessun uomo ha diritto di svilupparsi
liberamente;
ognuno deve seguire il proprio dharma
ed
il proprio karma, ovvero la propria
regola
sociale (una sorta di legge) ed il
proprio
destino, inteso come una serie di prezzi
da pagare alle proprie colpe, commesse
in
altre vite.
Non occorre una grande intelligenza
per capire
che queste convinzioni, anche quando
nascevano
da sentimenti sinceri e una visione
che,
nella sua arditezza, semplicemente
cercava
di giustificare razionalmente le ingiustizie
e le diseguaglianze naturali tra gli
uomini,
finivano col servire da trampolino
alla più
bieca teoria dell'egoismo e del dominio
dell'uomo
forte e sapiente sull'uomo debole ed
ignorante.
Il buddhismo ebbe il grande merito
di gettare
il seme della compassione verso tutte
le
creature nell'aridità degli animi.
Ed è per
questo che ottenne un relativo successo
tra
le persone più semplici e sensibili.
Ma essendo
un sistema di pensiero sostanzialmente
ateo,
che nella sua essenza originaria negò
persino
l'eternità dell'anima e l'esistenza
di un
"io", finì anche per non
incontrare
i bisogni più profondi della spiritualità
indiana, la quale sembra necessitare
di una
credenza in Dio e di una sopravvivenza
dell'atman,
l'anima, sia pure non più costretta
ad incarnarsi
in esistenze inferiori.
La saggezza cinese
Diverso discorso dovremmo fare per
la Cina,
dove tutta la riflessione cominciò
da una
saggezza pratica, priva di fondamenti
teologici
e giustificazioni mitiche.
Si potrebbe obiettare che la dottrina
dello
yin e dello yan, matura manifestazione
di
una più antica credenza dell'azione
complementare
di cielo e terra, mascolino ed femmineo,
fu teologia, o quantomeno, metafisica
tutti
gli effetti.
Io sarei per rispondere che non è necessariamente
vero che quando si rinviene, o si crede
di
aver trovato, una legge di natura,
si faccia
in qualche modo metafisica, si cerchino
cioè
nell'invisibile principi alle cose
visibili.
Si può ammettere che si faccia astrazione.
Ma l'astrazione ha a che fare con una
sintesi
dei dati fisici e sensibili, più che
con
l'immaginazione di realtà extrasensibili.
Del resto anche in Cina ci furono miti
e
religioni, come ad esempio quella Bon
nell'antico
Tibet.
Pertanto, anche in Cina si ebbe un'evoluzione
che portò a distaccarsi dal mito, e
questo
accadde prima che in Grecia. La dottrina
dello yin e dello yang dimostra, inoltre,
che anche i cinesi indagarono per trovare
nella natura i fondamenti immanenti
della
realtà.
Essi compresero, per di più, che anche
le
norme di saggezza pratica, potevano
derivare
dall'alternarsi dei cicli naturali.
Le più antiche correnti di pensiero
cinese
non religioso sono riducibili a due:
quella
prototaoista, legata alla leggendaria
figura
di Lao Tzu, un'espressione che significa
vecchio saggio, e quella confuciana.
La prima considera buona la natura
dell'uomo
e cattiva la società; la seconda muove
da
una concezione completamente opposta:
l'uomo
è da correggere, e, tuttavia, alcuni
uomini
hanno in sè, le risorse stesse per
autocorreggersi;
queste facoltà vanno solo risvegliate
da
un maestro spirituale.
Tra le due correnti, solo quella confuciana,
mostra di avere implicito l'amore per
il
sapere decisivo e caratterizzante di
una
filosofia vera e propria, perchè sapere
è
civiltà, non natura.
Per avere una vera idea di natura,
bisognerà
infatti sempre porsi "al di fuori
di
essa", non esserne coinvolti più
di
tanto, come del resto, anche per avere
un'idea
di civiltà, occorrerebbe porsi al di
fuori
di essa, e questo non sempre pare così
facile.
Occorrerebbe stabilire se questa potenziale
propensione alla civiltà sia naturale
nell'uomo,
e questo non è del tutto chiaro in
Confucio,
anche se, sembra implicito nel suo
pensiero,
che propensione a sfruttare i vantaggi
della
civiltà non significhi affatto coscienza
di tutto ciò che bisogna fare per ordinare
la vita civile. Questa esiste solo
in alcuni
uomini: i nobili ed i saggi.
Confucio fu molto più vicino allo spirito
greco di quanto si è soliti ammettere
studiando
il pensiero cinese, così distante ed
ingiustamente
considerato come qualcosa d'altro,
quasi
parlassimo di alieni.
In effetti, egli fu più un saggio che
un
filosofo, più attento ai problemi del
comportamento
e della scelta che ai problemi del
sapere
del necessario: ma per essere saggi
di tale
portata, occorre una passione per il
sapere
e per la verità.
La cultura mediorientale
Va compreso che mancano nelle culture
mesopotamiche,
egiziane ed ebraiche espressioni scritte
che attestino che le visioni del mondo,
presenti
nei loro miti e nelle loro credenze
religiose,
rappresentarono la conclusione di un
ragionamento
cosciente e consapevole, o comunque,
consapevole
del tutto, della condizione umana.
Questo non significa che, come spesso
si
sente dire, il loro sistema di credenze
e
di valori fosse frutto dell'irrazionalità;
semplicemente si tratta di riconoscere
che
fu un prodotto di un modo di pensare
ed agire
meno calcolato e più spontaneo. Nella
spontaneità
di una produzione letteraria che narra
una
storia fantastica, un mito, entrano
soprattutto
in gioco fattori inconsci, ma non per
questo
irrazionali.
Tutti i racconti mitici su prestano
ad un'analisi
ed ad una interpretazione. Ed è facile
dimostrare
che, pur variando nelle forme, essi
riproducono
non già una creazione, ma, per l'appunto,
una riproduzione.
Anche laddove l'elemento sessuale femminile
sembra negato, probabilmente per reazione
ad eccessi di tipo matriarcale, le
cose non
escono dal nulla, dal non-essere, ma
dal
caos, dalle acque primordiali, dalla
volontà
di un dio che pronuncia un fiat lux.
Non si sono mai trovati racconti nei
quali
la storia comincia così: « Ad un tratto,
dal nulla uscì un dio che emise un
grido:
e sia, porco mondo!»
Lo studioso di antica cultura egiziana
John
A. Wilson ha scritto più volte che
nella
teologia menfitica, giustamente considerata
la più evoluta, saremmo prossimi ad
una concezione
filosofica nella quale il concetto
di nulla,
di dio uscito dal nulla, è visibile.
Ma, poi, finisce con lo smentirsi,
asserendo
che il nulla sarebbe uno spazio vuoto
e che
nella teologia menfitica comparve per
la
prima volta il concetto di una intelligenza
creatrice.
Testualmente: « Secondo il mito più
diffuso,
esisteva prima della creazione solo
un immenso
spazio vuoto, liquescente, tenebroso,
informe
ed invisibile. Successivamente lo spazio
vuoto si rischiarò, diradandosi, e
dal nulla
sorse la collina promordiale della
terra,
proprio come ogni anno emergono dalla
piena
del Nilo in fase decrescente le prime
alture
di argilla, quale segno della vita
che si
rinnova. Sulla prima collina insulare
troneggiava
Atum.»
Qui siamo a qualcosa, non al nulla,
giacchè
Atum esce dalle acque, le quali non
sono
nulla, ma solo un abisso primordiale.
In opposizione a questo mito precedente,
la teologia di Menfi, secondo Wilson
asseriva:
« Ptah, il dio di Menfi, era il cuore
e la
lingua di tutti gli dei. Gli egizi
erano
inclini all'astrazione, ma a questa
volevano
assegnare punti concreti nello spazio,
e
così "cuore e lingua" era
il mezzo
pittorico egiziano per esprimere rispettivamente
nelle figurazioni la mente e la parola.»
Ma anche qui, siamo a qualcosa di preesistente.
La teologia dei sacerdoti di Ptah si
limitava
ad affermare un principio: cuore (intelligenza)
e lingua (parola) sono alla base dell'ordine
cosmico tanto quanto cuore e lingua
del faraone
di Menfi sono alla base dell'ordine
umano
realizzato in terra d'Egitto.
In tutti i racconti mitici o il dio
supremo
esiste già, o a sua volta è originato
da
una madre, dalla terra, o dalle acque,
o
dal caos promodiale.
Evidentemente in tutto questo c'è una
logica,
altro che irrazionalità! O si pensa
al dio
come un qualcosa di preesistente, oppure
si pensa al dio come ad un prodotto
della
natura, a sua volta preesistente.
Sembra sia impossibile sfuggire a questo
dilemma, oppure averne ragione senza
una
forzatura.
Dicessi che, forse, l'unico modo sensato
di affrontare il problema, è decidere
di
non risolverlo, alla maniera cinese,
accettando
la teoria yin-yang, dichiarerei le
mie simpatie
in modo esagerato.
Sempre Wilson riporta che nelle teologie
egiziane inferiori e più volgari, la
creazione
è vista come la conseguenza di una
masturbazione
divina, essendo il dio comunque un
maschio
"dominante" ( e frustrato
dalla
solitudine).
Razionalmente è difficile scegliere
il cosa
viene prima, se un dio o la natura,
o la
coesistenza dall'eternità, oppure solo
la
natura.
Tuttavia è innegabile che dalla teologia
dei sacerdoti di Menfi venne una sfida,
articolata
in termini mitopoietici, e che questa
fu
raccolta, in termini filosofici, dal
greco
Anassagora, nel quale "Cuore e
Lingua
di Ptah" diventarono il nous,
l'intelletto
che ordina l'universo stesso.
In sostanza, siamo con Anassagora alla
conferma
del dato che avevamo annunciato: in
filosofia
l'inconscio diviene cosciente ragionamento.
Non solo, anche laddove, nei miti della
creazione,
la riproduzione non è semplice, ma
variata,
come nella Bibbia, per cui si potrebbe
in
qualche modo riconoscere che qualcosa
fu
creato ex-novo, l'ultima delle creature,
cioè l'uomo, l'opera più perfetta,
fu fatta
ad immagine di Dio. Come a ribadire
che nell'inconscio
dell'autore era particolarmente chiaro,
e
forse nemmeno tanto inconscio, che
sì, Dio
sarà totalmente altro, una potenza
inarrivabile
ed inimitabile, ma l'uomo è, tuttavia,
una
sua riproduzione in miniatura, destinata
comunque a conquistare la terra, a
soggiogarla,
come è scritto nelle prime righe di
Genesi.
Missione che fu realizzata più dai
greci
(e dai romani) che dagli stessi ebrei,
i
quali non riuscirono mai ad acquisire
nell'antichità
precristiana un abito mentale scientifico,
tecnico e pratico tale da arrivare
veramente
allo sfruttamento delle risorse ed
al dominio
dei materiali.
Dobbiamo ora tentare di capire quali
elementi
concorsero a formare un atteggiamento
mentale
così diverso tra i greci.
In cosa i greci si differenziarono dai popoli
del Mediterraneo e del vicino oriente
Quando le stirpi greche della seconda
ondata
di invasioni, provenendo dall'Asia
centrale,
conquistarono la penisola ellenica,
non erano
in possesso di altre tecniche se non
quella
della pastorizia, del forgiare il ferro
e
del combattere a cavallo.
I nuovi venuti si rivelarono molto
abili
nell'assimilare con facilità tutte
le tecniche
e tutte le forme di sapere; impararono
a
coltivare la terra, a fare il vino,
a costruire
imbarcazioni, a navigare e pescare.
Appresero
l'arte del commercio e quella dell'architettura,
alla cui base vi è la capacità matematica
e geometrica. Si impadronirono dell'arte
medica in tutte le sue forme e manifestazioni,
pervenendo in breve alla formulazione
della
dottrina ippocratica, la quale ancor
oggi
pare avere una sua validità: la natura
stessa
guarisce la maggior parte dei mali
con la
sua forza vitale e rigenerante.
La buona vita comincia con l'aver cura
di
sé. Probabilmente impararono dai cretesi
a fare ginnastica, operando per primi
una
distinzione tra l'addestramento militare
e l'esercizio fisico puro e semplice.
Anche
l'idea dei giochi sportivi, i grandi
assenti
dalle culture mesopotamiche, egiziane
ed
ebraica, pare in qualche modo venire
da Creta,
dove si facevano vere e proprie corride
con
i tori, ma sembra soprattutto un retaggio
del modo di vivere barbarico e guerriero,
quando le stirpi greche scorrazzavano
per
le steppe asiatiche, e si divertivano
a lottare,
a correre, a tirare con l'arco ed a
lanciare
i giavellotti.
Devo riconoscere che la principale
dote dei
greci antichi, sebbene sia personalmente
restio ad attribuire qualità e caratteri
a popoli e razze, fu l'eclettismo e
la capacità
di adattamento ed assimilazione.
Ciò dipese in larga misura dal fatto
che
i greci non furono mai un popolo nel
senso
di nazione e di stato unitario e centrale,
ma una continua fusione di popoli e
razze,
più portato a fondersi con la popolazione
locale, che a sottometterla in schiavitù.
Unica eccezione fu Sparta, ma da Sparta
non
venne alcun contributo vero alla filosofia.
Impararono qualcosa da tutti i popoli
con
cui vennero in contatto, si potrebbe
dire
con intelligenza ed umiltà.
Furono gelosi custodi della loro autonomia
e della loro libertà da un potere centrale,
anche se non disdegnarono l'unità e
le alleanze.
Tutto quello che assimilirano, lo trasformarono
alla radice, adattandolo alla loro
particolare
mentalità e personalità.
Queste differenze possono spiegare
il sorgere
di un atteggiamento filosofico
In tutto questo si possono già trovare
tracce
di un atteggiamento filosofico, questa
inclinazione
al sapere, all'assimilare, al digerire
scomponendo
in unità sempre più piccole e differenziate
tutto il nutrimento ricevuto.
Sembrerebbe qualcosa di innato, ma
c'è dell'altro.
In realtà è difficile immaginare un
greco
antico che non coltivi la passione
per l'avventura,
i viaggi, il racconto mitico, la conoscenza
di altri popoli, altri luoghi, altre
storie.
Perfino la classica immagine del rustico
beota, il contadino ignorante e sciocco
delle
campagne attorno a Tebe, contrasta
in modo
significativo col fatto che uno dei
massimi
poeti della storia greca, Esiodo, non
fu
altro che un contadino beota, cioè
un cafone
che imparò a leggere, a scrivere, a
comporre
in versi, raffinandosi sempre più come
intellettuale
e letterato.
Esiodo
Alcuni hanno visto in questo campagnolo
il
vero padre della filosofia, comunque
una
sorta di precursore.
Non si può negare, in realtà, ad Esiodo
il
merito di aver espresso una sua visione
del
mondo, della vita ed un sistema di
valori.
Ma contrasta con l'immagine del filosofo
e del tipo greco che finora abbiamo
descritto
la sua dichiarata avversione alle chiacchiere
pubbliche, alla politica come critica
distruttiva,
all'avventura ed al viaggio. Esiodo
esaltò
i valori dell'impegno e del lavoro,
lodò
chi faticava nei campi invece di perdere
tempo, rimase contadino nell'animo
e probabilmente
pensò qualcosa di simile all'ozio come
padre
dei vizi.
Pur esprimendo una cultura di classe,
una
sorta di saggezza pratica popolare,
non incitò
mai alla lotta di classe, all'abolizione
dei privilegi degli aristocratici,
insistendo
piuttosto sui doveri che ognuno dovrebbe
coltivare in primo luogo verso sé stesso.
L'universo mentale di Esiodo fu, in
realtà,
troppo ordinato e troppo saggio per
essere
anche filosofico, anche se le sue riflessioni
sulla giustizia paiono piuttosto profonde.
Inoltre non rinunciò a creare miti,
anzi,
tutta la sua opera pare un tentativo
di ordinare
i miti preesistenti, conciliando le
contraddizioni
più vistose.
Convinto che la funzione degli dei
fosse
quella di guidare gli uomini alla giustizia
ed alla saggezza, e non già quello
di giocare
con loro, e divertirsi a loro spese,
contribuì
in maniera determinante a formare una
coscienza
del divino un po' meno superficiale
di quella
presentata nei miti preesistenti, nei
quali
gli dei non pensavano ad altro che
a sedurre
fanciulle e le dee a farsi ingravidare
dai
fighetti del tempo.
Ma il punto più rilevante dell'intera
opera
di Esiodo, a mio parere, consiste in
una
riflessione che investe proprio il
problema
dell'inconscio e dell'irrazionalità.
Ad un certo punto il poeta sembra ammettere
che le Muse, cioè l'ispirazione più
genuina
e spontanea della poesia, possono anche
ingannare.
Non arriva ad affermare che occorre
diffidare:
sembra limitarsi a dire che non tutti
i poeti
comprendono pienamente quelle che le
Muse
dicono. Ma, così facendo istilla un
dubbio,
incomincia ad invitare ad una riflessione
sui contenuti della poesia, persino
a prendere
le distanze da essa, per meglio comprendere.
E questo non è tanto l'avvio di una
sorta
di critica letteraria, quanto il preludio
ad una riflessione filosofica.
Non possiamo dire se Esiodo credesse
davvero
all'esistenza delle Muse. Certo, ascoltando
le voci interne, i pensieri che affiorano
quando la mente si abbandona, anzichè
concentrarsi
su problemi o volontà, egli dovette
arrivare
molto vicino ad una moderna concezione
dell'inconscio:
i pensieri sono latenti, sono ricordi,
impressioni
profonde, desideri negati; vengono
da sè,
in modo scomposto, disordinato, ma
vengono,
anche se non sempre, siamo in grado
di interpretare
queste voci.
Tutto questo può, giustamente, stupire
perchè
tra gli altri popoli il letterato era
sacerdote
o aristocratico; ed un proprietario
esclusivo
del sapere stesso, all'interno di un
circolo
chiuso che riservava la vera educazione
solo
alle classi dominanti ed ai ceti possidenti.
Fin dall'inizio la Grecia fu dunque
rivoluzionaria,
aperta, democratica, anche quando dominata
dagli aristocratici.
La democrazia non porta solo svantaggi;
non
è solo la peggior forma di governo
eccettuate
tutte le altre; è anche l'unico sistema
che,
consentendo il libero confronto di
opinioni,
stimola la riflessione ai livelli più
alti.
In democrazia non solo cresce il numero
degli
imbecilli che parlano, cresce anche
il numero
delle persone di valore che possono
esprimere
saggi consigli e pareri da prendere
in considerazione.
Le possibilità che in democrazia si
esprima
un talento intellettuale sono molto
più alte,
anche se, ovviamente, questa tendenza
non
ha sempre un valore assoluto. La democrazia,
infatti, tende anche ad appiattire
i valori,
a rendere uguale quello che uguale
non è,
e quindi a penalizzare i meritevoli,
e purtroppo
a premiare arrivisti e demagoghi.
Comunque sia, appare evidente che senza
l'incoraggiamento
della libertà e della democrazia, la
vivacità
del confronto e dello scontro di opinioni,
persino la polemica più aspra, la filosofia
non sarebbe maturata, sarebbe rimasta
una
semplice passione per il sapere, non
sarebbe
mai diventata un sapere scientifico
o morale.
Vale la pena di ricordare, a questo
proposito,
che ancora una volta il poeta Esiodo,
il
cafone beota, si mostrò lungimirante.
Narrando
il mito di Eris, la contesa, la divinizzazione
e la personalizzazione di un concetto
che,
a sua volta, descriveva lo stato delle
relazioni
tra gli uomini, egli non solo evidenziò
l'aspetto
negativo della contesa, il suo recare
dolori
e dispiaceri, ma seppe evidenziarne
gli aspetti
positivi. Se non c'è contesa, se non
competizione,
disse Esiodo, non c'è emulazione, non
c'è
spinta al miglioramento di sè. Tra
due contadini
possono sorgere liti per questioni
da poco,
e possono verificarsi drammi di sangue.
Ma,
in generale, la competizione stimola
almeno
uno dei due a dare il meglio di sè,
a rendere
più produttivo il suolo, a coltivare
meglio
i campi. A vendere a prezzi più bassi
oggi,
per ottenere guadagni più alti domani.
In Esiodo giocarono, probabilmente,
anche
le più amare esperienze personali.
Pare fosse
stato vittima di una grave ingiustizia
nella
divisione dell'eredità paterna da parte
di
un fratello. Dovette contendere con
lui.
Nella riflessione sulla lite, sui diritti
calpestati, trovò il modo di elaborare
pensieri
profondi sia sul concetto di giustizia
che
su quello di contesa.
In sostanza pare vero che gli intelletti
più evoluti e produttivi diano il meglio
solo dopo tribolazioni, prove ed anche
vere
e proprie sofferenze.
Letture consigliate
Questo articolo ha un taglio divulgativo
e, come spesso succede, tocca superficialmente
troppi temi, senza approfodirne alcuno.
Pur ripromettendomi di tornare in futuro
su alcuni punti, ed affrontarne altri,
ad
esempio, la tradizione persiana dei
magi,
con particolare riferimento a Zarathustra,
mi sembra utile elencare qui i libri
che
hanno concorso a formare il mio punto
di
vista.
Sulla cultura egiziana, ed in generale su
quella mediorientale, mi sembra fondamentale
La filosofia prima dei Greci, opera che contiene saggi di diversi autori,
tra i quali il citato John A. Wilson.
Il
libro si trova nel catalogo Einaudi.
Avverto, però, che le citazioni non sono
tratte da quest'opera, ma dal capitolo
sull'Egitto
contenuto nel primo volume de I Propilei,
La Grande Storia Universale Mondadori.
Molte delle notizie su Esiodo vengono da
quel grandissimo libro che è Dike, la nascita della coscienza, di Eric A. Havelock, edito da Laterza,
uno studio che attraversa i molteplici
significati
della parola giustizia, da Omero a
Platone.
Il classico Filosofia dell'India di Helmuth von Glasenapp, dotto filologo
tedesco, può aiutare ad inquadrare
lo sviluppo
storico della cosiddetta filosofia
indiana.
Il libro è stato pubblicato dalle edizioni
SEI e potrebbe essere disponibile solo
in
biblioteca.
Su Confucio e Lao Tzu esiste ormai una letteratura
sterminata, e non sempre attendibile.
Per
iniziare conviene quindi rivolgersi
alla
Storia della filosofia cinese, di Leonardo Arena, edito da Mondadori.
La storia della filosofia, curata da M.Del Pra per Vallardi, dedica
ampio spazio sia alla filosofia indiana
che
a quella cinese.
Sul pensiero ebraico, il citato La filosofia prima dei Greci contiene un saggio molto interessante (e
sintetico) di William A. Irwin.
Infine, su Pitagora ed il pensiero
filosofico
greco, molti spunti interessanti si
possono
trovare anche su questo sito.
A favore della tesi di una derivazione del
pensiero greco da quello mediorientale
si
espresse, a suo tempo, K. Joël in un
libro
del 1903 che non mi risulta tradotto
in italiano: Der Ursprung der Naturphilosophie aus dem
Geiste der Mystik.
Com'è noto, di opinione del tutto opposta
era stato Hegel, che aveva parlato
di "miracolo
greco".
Su una via più problematica si colloca il
classico scritto di Rodolfo Mondolfo Sui rapporti tra la cultura e speculazione
orientale e la scienza greca. Tale testo si trova nel primo volume di
Zeller-Mondolfo, La filosofia dei greci nel suo sviluppo
storico.
Mondolfo rigettò la trionfalistica
spiegazione
hegeliana della storia della filosofia
come
sistematica costruzione dello spirito,
e
propose una più cauta interpretazione
della
storia del pensiero come "problematicità."
Le letture qui proposte non vanno considerate,
ovviamente, come una bibliografia essenziale.
Sulla storia delle origini della filosofia
greca, infatti, esiste ormai una letteratura
sterminata e specialisti.
Daniele Lo Giudice - 25 maggio 2002 -
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