Concettualità destinale
I CONFINI DEL SENSO. PERSISTENZA DELLA DOMANDA
METAFISICA
di Ezio Saia
Il discorso sulle teorie si potrebbe chiudere
con due constatazioni parziali.
Da una parte
il trionfo dell'uomo informatico
e assimilatore
e dall'altra, accanto a
questo trionfo, 1)
l'impossibilità di una
tautologia totale
e 2) il prezzo in perdita
del mondo che il
teorizzare ci impone.
Il fallimento ci dice che non esiste un albero
del sapere in cui ogni
domanda trovi risposta
e ogni risposta giustificazione.
La teoria
totale, onnicomprensiva
di ogni informazione,
la teoria in cui trovino
posto tutte le teorie,
non si chiude, ma si frantuma
in tante teorie
spesso non comunicanti,
e neppure compatibili.
Se il senso e il significato
dei termini
sono determinati nelle
teorie anche l'univocità
e la determinazione del
senso scompare e
si frantuma in una molteplicità
di sensi
spesso fra loro in contraddizione.
Le stesse
domande che riguardano
la sensatezza della
divisione sensato/insensato
si dissolvono,
come pure si dissolve la
possibilità di percorrere
teoricamente un diverso
cammino che, dal
teoretico, cerchi nel pratico
quell'unità
e quel fondamento non altrimenti
raggiunto.
Su questo sfondo noi constatiamo l'inquieto
rinnovarsi della domanda
metafisica. Una
domanda sempre delusa e
che, solo momentaneamente,
nell'attività di ricerca
di una risposta,
sembra poter trovare pace,
per poi rinnovarsi
dopo la confutazione di
tale risposta. Quasi
che non fosse in gioco
la speranza, ma solo il necessario svolgersi di una routine del
vivere stesso; un movimento
circolare d'inutile,
ma insopprimibile frustrazione.
Noi sappiamo che la forma della domanda è
necessariamente quella
dell'informazione
assimilante: non comunione
di verità, ma
perdita. Né è pensabile
che la domanda possa
esprimersi intelligibilmente
in una forma
che non sia quella del
teorizzare, per cui
è la stessa forma della
domanda a ipotecare
il fallimento delle possibili
risposte; la forma generale del teorizzare ci dice
che non c'è altra forma
con cui esprimere
una qualsiasi domanda e
che quindi la domanda
stessa diviene la condizione
dell'impossibilità
della risposta; un'impossibilità che noi leggiamo come
"non senso".
Un fallimento, dunque, che appare tanto più
grave perché non si intravede
alcun senso
da cui iniziare la ricerca
o che, in qualche
modo, possa essere trovato
lungo il percorso
per cui è ovvia la conclusione
che non da noi e neppure da altri sembra poter
giungere alcun mitico e
prometeico regalo
di senso.
La storia del pensiero è anche il ricorrente
tentativo di fondare il
dominio del senso,
ricercando le frontiere
di questo dominio.
La via per determinare
questa fondazione
è sempre stata quella suggerita
dalla concettualità
verticale, per cui un dominio
del senso esiste
e può essere determinato
solo mediante una
teoria che fornisca criteri
di decisione
e che, nel darli, si ponga
1) al di fuori
di questo criterio e, quindi,
al di là del
senso e del non senso,
oppure 2) si autofondi,
risultando fornita di senso
se sottoposta
al criterio da essa stessa
elaborato.
Delle due ipotesi la prima non risolve, ma
rinvia il problema mentre
la seconda è contraddittoria.
Kant riuscì, almeno in parte, a sfuggire
al paradigma verticale
instaurando un particolarissimo
rinvio circolare.
La strada attraverso cui Kant pervenne alla
sua soluzione, è lunga
e profondamente innovativa.
Del resto l'atteggiamento
con cui guarda
al non senso metafisico è decisamente nuovo. Kant non si limita
a indagare la domanda,
e a liquidarla, dopo
averne dimostrato la mancanza
di senso ma
accetta come strutturale (è questa la prima vera novità) il fatto
che la confutazione di
una risposta metafisica
non acquieti, non fermi
né possa fermare
la corrispondente domanda.
Questo riproporsi della domanda metafisica
non è un riproporsi contingente
poiché è
proprio questa non contingenza
a far sì che
essa trovi sempre nuove
forme per emergere.
Questa è la strutturalità
riconosciuta da
Kant 1) al riproporsi della
domanda, 2) a
quella inquietudine che
spinge l'uomo a ricercare
e organizzare domanda e
risposta; un qualcosa
che costringe ad ammettere
che la domanda
è strutturale, connaturata
con l'"essere
umano" come il vivere
e il respirare:
Vivere è, anche e inevitabilmente, essere
a disagio, interrogarsi
e cercare risposte. L'insoddisfazione, e l'ansia accompagnano
la ricerca, così come la
delusione accompagna
i suoi esiti insoddisfacenti,
per cui vivere
diventa anche la ricerca
di un sovraordine
in cui la domanda possa
trovare, da un punto
di vista teorico, una soluzione
e, da un
punto di vista emotivo,
una situazione di
sollievo.
Per Kant il riproporsi della domanda trovava
una sua giustificazione
in un rinvio di senso
che consisteva in nell'indirizzarci
ad assegnare
alle verità, di cui siamo
già in possesso,
un posto in quella risposta
totale che non
potrà mai arrivare.
Ma può, a questo punto, essere considerato
insensato ciò che, confutato
come insensato,
si ripropone inesorabilmente
sotto forme
solo apparentemente diverse?
Se questo riproporsi
di domanda accompagna la
nostra vita come
il respirare, è forse sotto
questa ottica
che va giudicato il senso
della domanda metafisica?
Il riconoscimento di un
qualche senso alla
domanda non implica forse
uno stesso riconoscimento
a una sua possibile risposta?
Appena si tenta di sciogliere questo nodo,
ci si accorge che il vero
nodo è un altro
e che il senso deve porsi
in riferimento
a tre diverse questioni:
1) se sia sensato in se stesso il porsi della
domanda;
2) se sia sensato il contenuto della domanda;
3) se ci siano possibilità di senso nelle
risposta.
Kant partiva da un modello "scientifico"
che considerava vero e
da innumerevoli modelli
metafisici, le cui contraddizioni
rivelavano
la loro intrinseca falsità.
Dopo aver accertato
l'inconsistenza delle "idee"
metafisiche,
avrebbe potuto fermarsi,
ma non lo fece.
Ritenendo di aver dimostrato
che le idee
metafisiche (dovute a un
uso trascendentale
della ragione) erano errate,
antinominiche
o inconcludenti, perché
continuare?
Il limite della ricerca di Kant sta nel suo
illuminismo eppure, nonostante
ciò, nella
sua risposta c'è una nuova
luce. Riconosce
che la domanda metafisica
è insopprimibile
per l'uomo, non si limita
a registrare questa
circostanza ma, la sottopone
a indagine:
perchè la domanda metafisica?
Perché si rinnova?
Lo spirito con cui Kant
si pone le domande
è quello tutto moderno
di assegnare un senso
a questo comportamento.
Di "senso" si può parlare in varie
maniere; lo si può assegnare
(rinviare a,
riferire) a una finalità
o a una serie di
cause o più in generale
identificarlo con
una posizione entro un
quadro di connessioni.
Kant in questa assegnazione
è sì prigioniero
della cultura del suo tempo,
ma, nello stesso
tempo, affronta la ricerca
convinto che un
"senso" ci deve
essere e che questo
senso deve connettersi
con tutti gli altri
nell'ambito dell'attività
umana. Il problema
che Kant si pone è quello
di una "grammatica"
del senso anche se, disgraziatamente,
la
totalità entro cui cerca
di individuare questa
grammatica è esclusivamente
la sfera intellettuale.
La risposta è, dunque, intellettuale: la
domanda metafisica è un'esigenza
che si pone
per unificare quelle regole
dell'intelletto
sotto le quali si attua
la conoscenza. L'intelletto,
venuto a conoscenza mediante
quelle sue regole,
in virtù delle quali l'"io
penso"
ordina sotto categorie
le intuizioni sensibili,
viene a trovarsi con conoscenze,
che, per
quanto generali, sono pur
sempre limitate
e come sospese nel vuoto.
In questa situazione
non può non nascere un
senso di disagio intellettuale
che spinge verso assoluti.
La ricerca di Kant assume ora la forma di
una ricerca sulla patologia
delle domande
e delle risposte metafisiche.
L'esito di
questa indagine ci dice
che tutte queste
tipologie sono riconducibili
a degli assoluti
che si presentano come
idee che compendiano
ideali: un assoluto oggettivo
(il mondo)
e un assoluto soggettivo
(l'anima) un assoluto
(Dio) che li ricomprende
e a cui sono entrambi
subordinati. Questa tipologia
di risposte,
unificate sotto un assoluto,
sono a loro
volta provocate da una
tipologia di domande
anch'esse riconducibili
a quell'unica "malattia"
che fa si che non ci si
possa fermare e trovare
pace se non quando si sia
raggiunta una risposta
definitiva e totale.
E' la stessa necessità di assoluti che ci
spinge per ogni legge fenomenica
a chiederci
quale sia il posto di quella
legge nella
totalità delle conoscenze,
la stessa che
ci spinge a cercare le
cause, le cause delle
cause ecc. fino alla causa
che è causa di
se stessa. La domanda non
si placa fino a
che la risposta non si
ricomprende, fino
a che non viene raggiunta
una fondazione
che, essendo autofondante,
non necessita
a sua volta di fondazione
e chiuda la catena.
In riferimento alle tre domande di senso
poste in precedenza, Kant
non dà una risposta
diretta, ma, dagli esiti
raggiunti dalla
sua ricerca, si può dire
che avrebbe dato
risposta negativa alla
terza e positiva,
almeno condizionatamente,
alle prime due.
La prima domanda può essere intesa in due
maniere: secondo la prima
il senso va riferito
al fine, secondo la seconda
al causa (alla
sopravvenienza, al sorgere,
al perché di
questo sorgere). La prima,
che può essere
riformulata circa il fine
per cui noi ci
domandiamo, è il quesito
a cui risponde Kant.
Un Kant che neppure si
pone, neppure prende
in considerazione, l'origine,
alla genesi
della domanda. I due sensi
si inseriscono
in due grammatiche differenti
e divergenti.
In sostanza Kant indaga non sul perché del
generarsi di questa domanda,
ma sulla sua
funzione, funzione che
individua nell'attività
unificante della ragione.
Ma qual è la funzione
di queste idee che, ricapitolando
questa
attività unificante, vengono
sostanzializzate
erroneamente nelle idee
del mondo, dell'anima
e di Dio? Queste grandi
illusioni vengono
ad assumere, secondo Kant,
uno scopo positivo
perché, esercitando una
spinta verso l'unità
della ragione, indirizzano
e stimolano la
ricerca. Questa funzione positiva si verifica, non
in opposizione all'errato
uso trascendentale
della ragione, ma in virtù
di questo uso.
Questa conclusione ci dice che solo perseguendo l'insensato possiamo ottenere il sensato e che senza questa problematica (non importa
se solo ricercata e illusoria)
unità della
ragione noi non otteniamo
quell'unità dell'intelletto
fonte della scienza, della
verità e del senso.
Questa concezione, questo circolo virtuoso che dà una fondazione alla
verità "sensata",
ma la dà fondando
il "sensato"
sul "non sensato", anche se su "un non sensato" problematico, è l'idea rivoluzionaria di Kant,. Non si
ottiene l'uno senza l'altro.
Non si ha senso senza attività di non senso, non si ottiene scienza senza attività di
domanda metafisica e di
tentata risposta
metafisica.
Qui sta l'eccezionale modernità di Kant.
La filosofia tradizionale
non trovava altra
strada di fondazione che
la declinazione
del paradigma della causa
incausata, del
motore immoto ossia in
quelle arbitrarie
interruzioni delle catene
di fondazioni per
mezzo di vere e proprie
entità contraddittorie
a cui veniva data una realtà
ontologica,
Kant rifiuta tale fondazione
e non solo riconosce
la non eliminabilità dell'insensato,
ma individuando
in esso il principio problematico
del senso,
fonda il sapere esprimibile ed espresso,
depositabile e depositato
come terminale
statico di un'attività
che nulla deposita
che non sia insensato e
di cui nulla si può
dire che non sia problematico.
Kant non va oltre. Non si chiede perché l'uomo
dovrebbe perseguire questo
sapere, perché
lo persegue, chi gli ha
insegnato o come
è giunto a perseguirlo.
Il vizio, il peccato originale di Kant riguarda
l'attività stessa dell'uomo
in quanto teorizzante.
L'attività teorizzante
dell'uomo nella filosofia
trascendentale non trova
motivazione né giustificazione,
ma cade dal cielo. Questa considerazione vale sia per la domanda
che Kant giudica metafisica
e "insensata"
sia per quella giudicata
fisica e sensata.
Ciò che Kant non coglie è che l'indagine
sulla domanda metafisica
va rinviata al senso
della domanda in se stessa
indipendentemente dalla distinzione tra il
metafisico e il non metafisico e, più in generale, al senso del teorizzare.
Diamo per scontato che sia l'uomo a interrogarsi,
ma di certo sappiamo solo che la domanda si pone e si
ripropone, che sicuramente
risuona dentro
di noi singoli individui,
che noi sentiamo
questa domanda e ne comprendiamo
il senso. Diamo per scontato che coercitivamente dobbiamo
ascoltarla e affaticarci
per dare una risposta
e non ci spingiamo oltre.
Il fatto che questo
comportamento sia "utile"
appare
contingente e il fatto
che l'uomo l'abbia
adottato appare un regalo
del cielo. Non
sappiamo chi è il soggetto
che s'interroga,
non sappiamo chi pone la
domanda. Non sappiamo se è essa stessa a porsi, se
siamo noi a porcela o qualcuno
esterno a
noi. Ma, soprattutto, non
conosciamo il "senso"
della domanda. Crediamo di capirla e questo lo chiamiamo
"senso", ma questo
"senso"
lo è solo per noi, legato
al paradigma stesso
secondo cui noi interroghiamo
noi stessi
sul nostro senso d'interrogarsi.
Non lo capiamo
anche perché abbiamo isolato
la sfera intellettuale
della domanda e adottato
un comportamento
strabico verso il vivere
che accompagna la
domanda.
L'uomo di Kant, il luogo in cui si pone la
domanda, è pur sempre l'uomo
intellettuale
dell'illuminismo. E' quell'uomo
illuminista
e discendente dall'umanesimo
che ha convogliato
nella ragione come valore
supremo, come ultimo
tribunale la rinata fiducia
in se stesso.
Eppure questo nuovo principio,
non potendo
che poggiare su un se stesso
che fluttua,
dovrà obbedire a precedenti
e ben più potenti
costrizioni di verità e
risulterà formidabile
paradigma demolitore di
ogni fede, anche
della propria.
Ma in Kant la "Ragione" non ha
ancora percorso il lungo
cammino autodistruttivo.
Il suo uomo è quello che
ha imparato a vincere,
che ne ha tratto fiducia
e che sa di poter
tutto aggredire e ricondurre
a informazione,
anche le condizioni del
conoscere, anche
le leggi del senso. L'uomo
di Kant si riduce
all'uomo trascendentale,
che, per un verso,
è stirpe, ma lo è solo
in quanto omologata
dalla ragione in quanto
ragione. Ciò che
non convince è il clima
asettico dell'attività
unificatrice, ma non assimilatrice,
conoscitiva,
ma non violenta. Non convince
lo schema funzionale
di categorie e forme pure
concepite come
rigide, eterne, immodificabili,
ma, soprattutto,
non convince il suoi "io
penso".
L'incompletezza dell'analisi
del significato
del "non-senso"
non sta nella soluzione,
ma ha le sue radici nell'inumanità dell'uomo di Kant.
L'uomo di Kant non è l'uomo con cui veniamo
a contatto tutti i giorni,
ma una sua parodia
intellettuale; è un uomo
violentato e visto
sotto la funzione dell'uomo
pensante: non
solo un uomo a una dimensione,
ma un uomo
rigidamente ed eternamente
a una dimensione,
un uomo sezionato, assimilato
e poi congelato.
L'uomo di Kant è certamente l'uomo storico,
ma la sua storia è quella
dei documenti scritti
dell'uomo civilizzato,
quella delle ultime
migliaia di anni. Solo
questa cultura, ancora
ignara di ogni concetto
di evoluzione, gli
permette di inferire, vedendo
in essa una
costante uniformità, un'immutabile
ed eterna
uniformità. Kant scambia
il simulacro dell'uomo
con l'uomo stesso e l'eternizza.
Gli manca,
né poteva essere altrimenti,
quella dimensione
storica dell'evoluzione
biologica che si
perde nella storia dell'uomo
mammifero, rettitele
e cellulare.
Così una dimensione dell'uomo, quella conoscitiva,
diviene l'unica. "Un"
modello diventa
"il" modello
totale, l'informazione
diviene verità: verità
parziale, ma pur sempre
verità. Non viene colta
la dimensione verità-informazione
in connessione con la dimensione
assimilatrice.
Kant non riconosce, accanto
alla conquista,
la perdita, non vede che la funzione informatica non
è spirituale, ma di sopravvivenza, come la respirazione. L'uomo kantiano non è un uomo che vive
e respira.
Di fatto noi viviamo non in un solo mondo
dei fenomeni, ma in innumerevoli
modelli
stratificati, di modelli
di questi modelli
ecc. Noi assimiliamo il
mondo secondo le
teorie e contemporaneamente
ci affacciamo
su un mondo che non è altro
che la sedimentazione
più o meno organizzata
di tutte quelle assimilazioni
che sono accadute vincenti
nell'opera di
orientare l'azione degli
uomini. Uomini che
in questo coacervo di teorie
chiamate "il
mondo" hanno vissuto
e sono sopravvissuti,
assimilandolo in teorie.
Non prendendo in esame l'attività del modellizzare,
Kant irrigidisce la struttura
della conoscenza,
non cogliendone l'attività
che lavora, seziona
e assimila, cade nel tranello
che esista
un mondo, (che diviene
problematico), che
esista un modello di mondo
dei fenomeni (che
diventa il tutto conoscibile).
In Kant è
presente ambiguamente una
preconoscenza che,
secondo lui, è la forma,
la possibilità,
la condizione logica della
conoscenza, ma
questa forma non è la sedimentazione
di quell'agire
teorico, di quell'agire
che crea le vie di
accesso al mondo, di quell'agire
vivo perché
è rivelato vitale.
I limiti sono in quello schema Io Trascendentale
-Teoria vera - mondo che
diviene paradigma
concettuale da declinare
verticalmente. Kant
prende in considerazione
solo la patologia
della domanda metafisica
e non della domanda
in generale. Proprio questo
esame parziale
impedisce a Kant di vedere
che una domanda
di questo genere che, confutata
nel suo essere
domanda, continua a porsi
non può essere posta da noi. In realtà noi possiamo solo registrare
che la domanda risuona,
agisce, s'impone
dentro di noi come soggetto
autonomo e attivo.
Rispetto al nostro essere di abitatori del
mondo la domanda è un soggetto autonomo. Un soggetto che s'impone, un soggetto che
ci costringe a comunque
a udire il suo domandare
e a comprendere ciò che
domanda. La domanda
prevale come soggetto che
supera la nostra
ostilità, come altro da
noi, come alieno..
Ma, allora, chi pone questa domanda dentro
di noi? Chiamiamolo dio,
chiamiamolo stirpe,
chiamiamolo Essere, la
sostanza non cambia:
quella domanda è aliena
a quel "noi"
che la confuta e la riconosce
insensata.
Eppure la tradizione filosofica ci dice che
siamo noi a interrogarci.
Ma interrogare
se stessi non è forse schizofrenico?
Sembra
quasi che qualcosa ci imponga
questa conclusione
e che questo qualcosa sia
la forma linguistica
della domanda. Sembra che
sia il linguaggio
a imporci un paradigma
da cui non possiamo
uscire e ci conduca come
soggetto autonomo
lungo un solco già tracciato.
Il contesto
semantico esige che, essendoci
una domanda,
ci sia, oltre il contenuto
della domanda,
un essere che domanda e
un essere a cui la
domanda è posta. Ma è proprio
questo paradigma
a portarci nel circolo
vizioso; noi domandiamo
nella forma della nostra
domanda, noi rispondiamo
in quella stessa forma
di cui solo siamo
capaci e l'oggetto della
domanda è proprio
quell'essere inscindibile
e unitario che
non può essere né domandato
né afferrato
dalla risposta. E' più
semplice pensare che
non siamo noi a riproporre
la domanda, e
che questa si ripropone
da sola con incredibile
autorità. Constatiamo che
non siamo liberi
di rinunciare e cacciarla,
che la domanda
risuona in noi e c'interroga
con prepotenza;
che si pone con determinazione,
INDIFFERENTE
all'inquieto disagio che
essa stessa ci infligge.
Ma - e questo è fondamentale
- se la domanda
è soggetto, se il linguaggio
ci conduce a
un soggetto schizofrenico,
non possiamo attribuire
quella schizofrenia a quel
singolo mortale
che è ognuno di noi, quando
sia la domanda,
sia il linguaggio lo precedono.
Domanda e linguaggio agivano prima che ogni
"noi" singolo
mortale venisse vissuto
dal linguaggio e dalla
domanda.
LA DOMANDA TOTALE
La domanda che risuona non è solo quella
metafisica che giudichiamo
insensata, ma
il tessuto in crescita
delle domande. Una
domanda rivolta verso sempre
nuovi territori
di conquista; un autovalore,
strutturale
con il vivere, che si pone
vincente come
realizzazione del destino
dell'impossibilità
di permanere in vita se
non come conquistatori.
E' il successo della risposta, la sopravvivenza
della risposta e dell'essere
in cui s'è posta,
a legittimare la sensatezza
della domanda,
del suo paradigma e del
suo metodo. Anzi,
è il successo della risposta a riconfigurare
la forma della domanda che viene così assimilata ai precedenti
successi e fornita di quel
'senso'; è questo
paradigma vincente a proporsi
come norma
del sensato e come orizzonte
del senso.
La strategia dell'Essere informatico è la domanda a tutto campo spinta con quella
determinazione e volontà
pari alla volontà
di vita. Si potrebbe dire: è sopravvissuta la propensione
della domanda in maniera
tanto forte da non
poterla confinare nel sensato,
ma sarebbe
un errore: il cosiddetto
domandare "insensato"
non è un sopravanzare del
sensato.
La domanda a tutto campo precede ogni distinzione
fra senso e non senso,
perché questo è il
tipo domanda che si è dimostrata
vincente
e sopravvivente. Una domanda
multipla che
precede tutte le determinazioni
di senso
perché ignara di tutte
le determinazioni
di senso.
E' un sentimento di domanda che risuona,
che si agita, che spinge,
come se l'essere
interrogante, che si è
selezionato, non avesse
di per sé un oggetto, ma
fosse un programma
affamato di un oggetto.
Un essere senza domandare
non sarebbe un essere vivente
come uomo.
La domanda a tutto campo con l'ansia che
l'accompagna quando non
riesce a porsi in
maniera articolata o quando
vaga alla ricerca
di un oggetto, è la domanda
vittoriosa, quella
di cui il dire: "E'
non senso"
oppure il dire "E'
senso" è di
per sè insensato.
La domanda si pone e si fa udire e comprendere.
La comprendiamo anche quando
l'oggetto è
lo stesso domandarsi e
il senso dello stesso
interrogarsi. Il bisogno
di domandarsi trova
il suo estremo di senso
nelle forme i cui
prototipi sono proprio:
"Perché l'essere
è?", "Qual è
il suo senso?".
Le domande sul senso e sui suoi confini fanno
parte della domanda totale
e esprimono un'esigenza
normalizzatrice e d'ordine.
Esprimono un
accadere di sopravvivenza
nel conosciuto
della casa simbolica. Un
tentativo di costruire
il futuro su regole sperimentate
nel passato,
affinché il ricercare e
il domandare non
siano un inutile e vano
agitarsi. Esprimono
un disagio verso un domandare
percepito come
un disordinato, inutile,
rumoroso disorientamento
e chiedono una disciplina
al tipo di domande.
La domanda sul senso è sempre conservatrice,
normalizzatrice, repressiva.
Questo non vuol
dire che sia "negativa"
perché
anch'essa è parte della
vincente domanda
a tutto campo. E' un'attività
di retroguardia,
ma fondamentale per costruire
una casa simbolica
rassicurante. La domanda
fa parte del nostro
uso del mondo e la richiesta
d'ordine e di
quiete è parte di quella
casa protettrice
simbolica che con le domande
e le teorie
opponiamo a un mondo sentito
come indifferente,
ostile o minaccioso, perché
sconosciuto.
Da una parte la domanda si espande come varietà,
come innovazione, come
conquista mentre dall'altra
chiede di organizzare il
già noto, di normalizzare
quest'organizzazione e
di estendere l'organizzazione
così normalizzata alla
domanda che ancora
si propone. La domanda
di senso è una richiesta
d'anestesia verso ogni
nuova inquietudine
la cui identificazione
non sia già in forme
rese canoniche dal loro
successo.
In questa accezione normalizzatrice, la domanda
si interroga sul senso
e sul non senso, sui
confini e sulle procedure.
Ma ponendosi in
questo modo anche la domanda
normalizzatrice
fa, di per sè, parte della
domanda generale
a tutto campo e non si
presenta come opposizione
conservatrice. Semplicemente
si registra
che nelle forma del linguaggio
d'informazione
accade con successo di
assegnare un senso
a una distinzione innovazione-normalizzazione
che di per sè è posteriore
alla domanda circa
la classificazione della
domanda.
In definitiva potremmo dire con Popper che
ciò che ieri era metafisica
oggi è fisica,
che la fisica è nata, si
è evoluta, sulle
basi della domanda metafisica
e che il senso
è nato dal "non senso";
potremmo
dire con Kant che il non
senso problematico
fonda il senso certo, ma
non è questo il
punto. Tutto questo non
ha a che fare con
il risuonare della domanda.
Ha senso come
riflessione informativa
per l'utilizzo della
domanda.
La domanda a tutto campo:
1)rinvia al di là del senso e del non senso
e in questo senso risuona in noi come soggetto primario indifferente
a ogni nostra inquietudine
e a ogni nostro
rifiuto;
2) rinvia al di là della codifica delle teorie
scritte, al di là della
trasmissione per
simboli, al di là dell'uomo
pietra, dell'uomo
rettile e mammifero;
3) rinvia alle teorie che non abbiamo mai
conosciuto, ma abbiamo
adottato lungo la
lenta e difficile trasmissione
genetica;
4) rinvia alla lotta e alla selezione delle
teorie e delle domande;
rinvia ad un accadere
che s'impone a tutti i
nostri tentativi di
estinguerla, imponendo
le nostre determinazioni
di senso.
6) rinvia a quella schizofrenia fra quell'essere
singolo e mortale che siamo
noi e l'Alieno,
vincente, indifferente,
cieco immortale che
la fa risuonare in noi.
LA DOMANDA COME SOGGETTO
L'oggetto del problema non è dunque la domanda
metafisica, ma la domanda
a tutto campo o
meglio il domandare in
se stesso, quel sentimento
che si pone in noi e crea
i presupposti perché
il domandare si espliciti
in forme informative,
si faccia udire e comprendere.
Noi colonizziamo il mondo, rispondiamo alla
domanda, respiriamo con
essa, perseguiamo
il nostro destino di perdita
e di dominio,
c'interroghiamo su questo
risuonare e moriamo.
Ma la domanda non muore
con noi, si ripropone
in altri-noi-singoli-mortali
specializzandosi
e tuttavia rimanendo integra.
Il nostro destino di informatici, di perdita,
di tirannia, di domanda
si prefigura al di
là del nostro vivere e
del nostro morire
di essere singoli, al di
sopra del nostro
essere viventi mortali.
La domanda, come
la vita, come l'umanità,
ci vive, imponendo
il suo destino di eterno
domandare sull'essere,
che è in tutti i sensi
un essere immortale
di cui noi siamo le specializzazioni
mortali
sulla cui selezione si
attua quel destino
di sopravvivenza e di dominio.
Chiamiamolo umanità, chiamiamolo specie,
chiamiamolo stirpe, chiamiamolo
mondo, linguaggio
o Essere, l'Essere immortale
è Soggetto.
Una volta riconosciuto
questo primato, questa
alienità, questa sfasatura
di senso, è riconosciuto
il nostro destino schizofrenico
di senso.
Il parlare di Essere immortale e di essere
mortale, come il parlare
di mondo, di essere,
di soggetto, può apparire
una mostruosità
ontologica viziata di metafisico
"non
senso", ma a parte
l'insensatezza stessa
di esprimere un giudizio
in tal forma, noi
capiamo questo "parlare".
Lo capiamo
come tutto il resto del
nostro parlare: è
un camminare su un binario
consolidato ed
è pure un messaggio: noi
ci troviamo in un
accadere in cui noi figuriamo
come soggetti
in un mondo che si contrappone
come oggetto
di conoscenza. Questa è
la strategia vincente
dell'accadere dell'essere
informatico. Questo
è il paradigma ontologico
(vincente) del
vivere dell'Essere che
si prefigura come
immortale sulle generazioni
del nostro morire
come singoli. Il nostro
vedere così il mondo
è il testimone vivente
della conquista come
specie e della perdita
come singoli. Il nostro
dolore dell'esistere è
il vivere un destino
di non senso che si afferma
come destino
d'interrogarsi informatico.
L'essere immortale ci vive anche nella libertà
della morte, anche nel
superamento del nostro
dolore e della nostra disperazione.
Disperazione
e dolore che non sono suoi,
ma nostri. Su
questi lui ci vuole ciecamente
vivere. La
struttura dell'Essere immortale
che è noi,
ognuno di noi, ma è anche
l'alieno che abita
in noi, una cieca organizzazione
che ha il
suo senso che non è il
nostro senso. Un senso
il cui paradigma noi singoli
stiamo imparando
a decifrare in tutto il
suo cieco e ottuso
procedere.
IL DESTINO DI SCHIZOFRENIA.
Il nostro interrogarsi è un serpente di senso
che si morde la coda. L'essere
che è in noi
si è costituito come immortale
come essere
informatico di conquista.
Il destino che
ci impone è la domanda
a tutto campo nella
forma vincente dell'informazione.
E questa
domanda, dolorosamente
e a disagio, si ripiega
su se stessa, interrogandosi,
sempre nella
forma assimilatrice dell'informazione,
sul
proprio senso e quindi
sul "senso"
del vivere del singolo.
E' l'essere immortale
a porre la domanda, ma
questa domanda non
può che risuonare dentro
il singolo perché
l'essere immortale non
ha altra cassa di
risonanza che l'essere
mortale.
La domanda sul senso e la sfasatura del senso
sono il vivere questa schizofrenia.
La domanda sul senso del nostro vivere è,
di per se stessa, un risuonare
doloroso per
noi singoli mortali. Essa
è, in se stessa,
folle perché si pone un
problema di senso,
che è il problema del senso
del nostro vivere,
in una forma e secondo
certe norme, che sono
il risultato stesso del
suo sopravvivere
come immortalità. Questa
domanda risuona
nel singolo come un tipo
di agire che è malattia
per l'essere immortale.
Una malattia riconosciuta
dai due esseri, necessaria
per l'essere immortale,
dolorosa e tragica per
il singolo che riconosce
il suo essere vivente insensato.
Questo fatto è generale. Il singolo è vissuto
come destino dell'essere
immortale e lo è
nel suo essere vissuto
come perpetuarsi di
questo destino di malattia dell'essere.
L'Essere non può non interrogarsi perché
la sua domanda è a tutto
campo e il suo destino
di dominatore sopravvivente
è proprio in
quel domandare a tutto
campo, senza limiti.
Così la domanda sul senso
del proprio vivere
non può essere evitata.
Il domandare totale
e cieco è il programma
di sopravvivenza,
la fonte del vivere come
dominanti e questo
destino di sopravviventi
dominanti ci dice
che se la domanda non ci
fosse e non fosse
in quella forma che si
disgrega fra le mani,
non ci sarebbe neppure
l'uomo in quel suo
Essere immortale. Se l'accadimento
fosse
stato limitato, semplicemente
la domanda
non ci sarebbe stata e
l'uomo non sarebbe:
la domanda è di per sè
totale e non può che
essere tale.
L'essere non può che continuare a perseguire
il suo destino di interrogare
informatico
e il luogo di questo accadere
e risuonare
non può che essere il singolo.
Questo accadere
è, in questa concatenazione
destinale, l'essere
singolo mortale come luogo
della malattia
dell'essere.
ES - 17 maggio 2013
moses - marzo 2013
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| CONCETTUALITA' DESTINALE
Pensatori citati
Kant, Popper
Concetti citati
Domanda metafisica, confini di senso, possessione,
domanda a tutto campo, domanda come soggetto
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