Matematica: nascita e sviluppo di un Modello-Metagfora
del Mondo - prima parte
di Ezio Saia
La metafora
Il problema della metafora interessa
tanto
il campo scientifico conoscitivo
quanto quello
letterario e va comunque ben
al di là del
mero sfavillante esercizio letterario.
Dove
coinvolge l’evasione dal mondo,
la creazione
di mondi e il ritorno al mondo,
il processo
di creazione della metafora letteraria
pare
avere una funzione opposta a
quella della
metafora conoscitiva. La seconda,
consumandosi,
perde l’alone metaforico e consolida
la conoscenza,
la prima, consumandosi, pare
chiudere l’accesso
ai mondi che aveva aperto.
Parliamo di onde della sabbia, di onde del
deserto e s’innesca il meccanismo dell’analogia,
una delle figure madri della metafora che
ci spalanca un nuovo e misterioso mondo di
fantasia e di meraviglie, vengono evocati
nuovi mondi con nuovi e favolosi animali
come i pesci della sabbia, le balene della
sabbia, i polipi della sabbia. Queste esistenze
ci fanno sognare e ci trasportano in mondi
sconosciuti orrendi o meravigliosi.
Quando l’analogia sfuma nella metafora il
meccanismo di generazione è lo stesso. Otteniamo
le balene della sabbia applicando le leggi
dell’analogia che fanno corrispondere a ogni
oggetto ‘configurazione del mare’ un corrispondente
oggetto ‘configurazione del mare di sabbia’
così come le onde del mare corrispondono
alle onde della sabbia.
Accade come se fosse stata stabilita
una
legge di corrispondenza applicando
la quale
vengono fatti corrispondere ad
individui
(noti) appartenenti ad un mondo
“dominato”,
individui (ignoti e irreali come
i sopra
citati pesci della sabbia) appartenenti
ad
un mondo fantastico.
Ho brevemente parlato di metafore
per presentare
non una tesi ma un sospetto.
Il sospetto
che molte entità strane partorite
dall’aritmetica
e in generale dalla matematica
e talvolta
sentite come eresie non siano
balene della
sabbia ma partecipino della vita
delle balene
della sabbia.
Eresie
Ho parlato di eresie. Ma perché
eresie?
Il termina ricorda Borges e molti
protagonisti
dei suoi racconti le eresie di
cui voglio
parlare riguardano numeri. Numeri
eretici
Lo sono in un certo senso i numeri
interminabili,
i numeri irrazionali, i numeri
immaginari,
gli indivisibili, gli infinitesimi,
gli infiniti,
i mondi non standard. Perché
eretici e perché
‘balene della sabbia’? Certamente
le denominazioni
sono suggestive. Evocano l’irrazionalità,
i mondi fantastici, gli abissi
dell’infinito,
i mondi anomali. Ma perché eretici.
Contemporaneo di Galilei, Bonaventura
Cavalieri
inventò un metodo di calcolo,
in cui una
linea era una somma infinita
di punti, un’area
una somma infinita di segmenti
e un volume
una somma infinita di piani.
La sua opera,
nota come geometria degli indivisibili,
fu
giudicata come un tentativo di
raccogliere
l’acqua con un setaccio. Dice
Borges, vero
nume tutelare di tutte le eresie.
La vasta biblioteca è inutile.
A rigore,
basterebbe un sol volume, di
formato comune,
stampato in corpo nove o in corpo
dieci,
e composto d’un numero infinito
di fogli
infinitamente sottili. ( Cavalieri,
al principio
del secolo XVII, affermò che
ogni corpo solido
è la sovrapposizione d’un numero
infinito
di piani).
Cavalieri incredibilmente ottenne
grandi
risultati. Oltre che confermare
risultati
già noti, calcolò lunghezze,
aree e volumi
mai prima calcolati. Nonostante
questi successi
non riuscì a convincere i contemporanei:
quegli strani indivisibili puzzavano
troppo
di zolfo. Inutilmente si difese
sostenendo
i suoi indivisibili erano solo
scorciatoie.
Gli indivisibili, queste fantomatiche
entità
che erano e non erano, ma dei
quali si doveva
comunque parlare, furono presto
abbandonati.
Con la nuova geometria algebrizzata
di Fermat
e di Cartesio, gli indivisibili
scomparvero,
ma nacquero gli infinitesimi
loro stretti
parenti. La geometria era cambiata,
ma anche
nella nuova si tornò a parlare
di quantità
infinitamente piccole e di aree
calcolate
come somme di infiniti segmenti.
Il sospetto
che aveva afflitto gli indivisibili
si trasferì
sui non meno eretici infinitesimi;
un sospetto
che durò almeno due secoli fino
a che Causchy
e Weierstrass non inventarono
una procedura
che otteneva gli stessi risultati,
ma non
parlava di infinitesimi. L’analisi
poté essere
trascritta e redenta dal rigore
che il nuovo
metodo permetteva.
Nonostante ciò, molti manuali
d’ingegneria
continuarono spesso a lavorare
con i troppo
comodi infinitesimi fino a che,
nella seconda
metà di questo secolo, quegli
stessi infinitesimi,
che secondo Leibniz costituivano
la grana
fine dell’universo accessibile
solo all’intelligenza
infinita di Dio, si presero la
rivincita,
divenendo legittimi e non eretici
cittadini
nei mondi dell’analisi non standard
inventata
( o scoperta o costruita, o fondata)
da Robinson.
La controversie degli infinitesimi
non fu
solo logica matematica ma coinvolse
anche
l’emergente concetto di razionalità
vantato
dagli illuministi nei confronti
nella ‘non
razionale dottrina della fede’
Furono gli illuministi a contrapporre
al
dogma delle religioni rivelate
e alle loro
crudeltà monopoliste del sapere,
i diritti
della ragione. Una ragione che
col dubbio,
la critica, il pensiero rivendicava
il diritto
di sottoporre le teorie, i dogmi,
le credenze
al suo tribunale. Questa rivendicazione
ricompare
nella successiva Rivoluzione
Francese come
Dea Ragione ed è ancor oggi un
fondamento
del pensiero laico che pur non
appellandosi
alla dea Ragione, rivendica comunque
i diritti
dell’uomo a stabilire canoni,
sensi e metodi
per decidere ciò che si può accettare
e in
che misura.
Ma è possibile definire il senso
di termini
quali ‘razionalità’, ‘ragione’,
‘razionale’?
Cercheremo ora la varietà dei
relativi campi
di senso, non in generale, ma
in relazione
alla ragione illuminista e al
rapporto con
la ‘ragione’ scientifica.
A questo scopo esamineremo brevemente ad
alcune situazioni paradigmatiche e altamente
significative quali la riforma del sistema
di misura e la controversia sugli infinitesimi,
in quanto casi esemplari accanto all’ambiguità
di certe sopravvivenze magiche nella stessa
scienza, lungo un percorso ‘critico’ della
ragione illuminista in contrapposizione a
un altro percorso più ‘duro’ e dogmatico
che da Leibniz e Rousseau, porta a Hegel
e Comte.
Gli infinitesimi e Berkeley
Contemporaneo di Galilei, Bonaventura
Cavalieri
inventò un metodo di calcolo,
in cui una
linea era una somma infinita
di punti, un’area
una somma infinita di segmenti
e un volume
una somma infinita di piani.
La sua opera,
nota come geometria degli indivisibili,
fu
giudicata come un tentativo di
raccogliere
l’acqua con un setaccio.
Cavalieri incredibilmente ottenne
grandi
risultati. Oltre che confermare
risultati
già noti, calcolò lunghezze,
aree e volumi
mai prima calcolati. Nonostante
questi successi
non riuscì a convincere i contemporanei:
quegli strani indivisibili puzzavano
troppo
di zolfo. Inutilmente si difese
sostenendo
i suoi indivisibili erano solo
scorciatoie.
Gli indivisibili, queste fantomatiche
entità
che erano e non erano, ma dei
quali si doveva
comunque parlare, furono presto
abbandonati.
Con la nuova geometria algebrizzata
di Fermat
e di Cartesio, gli indivisibili
scomparvero,
ma nacquero gli infinitesimi
loro stretti
parenti. La geometria era cambiata,
ma anche
nella nuova si tornò a parlare
di quantità
infinitamente piccole e di aree
calcolate
come somme di infiniti segmenti.1
Il sospetto
che aveva afflitto gli indivisibili
si trasferì
sui non meno eretici infinitesimi;
L’Analisi ottenne un grandioso
sviluppo,
nonostante l’incomprensibile
e oscura irrazionalità
di quegli “infinitesimi” che
costituivano
la sua base concettuale. La situazione
era
così ‘razionalmente’ disastrosa,
che fu facile,
anche per un non addetto ai lavori
come il
vescovo Berkeley, provocato dall’astronomo
Halley “sull’inconcepibilità
delle dottrine
cristiane” ritorcere quelle stesse
accuse
contro il celebrato Calcolo e
rispondere:
“Chiederò per me il privilegio
del Libro
Pensatore e mi prenderò la libertà
di ricercare
sull’oggetto, sui principi, e
sul metodo
di dimostrazione ammessi dai
matematici del
tempo presente, con la stessa
disinvoltura
con cui voi presumete di trattare
i principi
e i misteri della religione.”
E, dopo questo esordio, passare
subito al
punto dolente del concetto di
infinitesimo.
Che senso ha affermare che 9,8
+ 4,9dt è
la stessa cosa che 9,8?
“4,9dt è qualcosa o è nulla;
se è nulla tutto
il calcolo salta, se è qualcosa
le due espressioni
non sono uguali. Forse i matematici
intendono
che 4,9dt è così piccolo da essere
trascurabile?”
Si chiede Berkeley “Ma, se è
questo che intendono,
dove va a finire quel rigore
inflessibile
che li inorgoglisce e che li
induce a sostenere
che in rebus mathematicis errores
quam minimi
non sunt contemnendi?”.
Insomma conclude Berkeley nessuna
dottrina
teologica è così razionalmente oscura e inconsistente come queste teorie matematiche.
Se la teologia richiede la fede
perchè è
inconcepibile, allora che dire
delle teorie
dei matematici?
Leibniz vide nella ragione lo
strumento infallibile
per arrivare a dirimere ogni
questione e
a risolvere ogni problema. Non
solo nutrì
questa fiducia ma individuò nella
logica
formale fondata da Aristotele
e dagli stoici
lo strumento da riformulare e
perfezionare
fino al raggiungimento di quello
scopo. La
sua fiducia nella logica come
strumento di
calcolo era tale da fargli affermare
che
gli uomini in futuro di fronte
a una disputa
avrebbero potuto sedersi in pace
e calcolando
risolvere la disputa discriminando
il vero
dal falso.
Con Hume, come è noto, la ragione
illuministica
si fa scettica e la lettura di
Hume causò
in Kant un totale cambio di prospettiva
che
lo stesso Kant caratterizzò come
un “Risveglio
da un sonno dogmatico.” Si potrebbe
pensare
in base a queste parole, a un
precedente
Kant sottomesso ai dogmi della
religione,
ma già prima di leggere Hume,
Kant, attraverso
gli epigoni dell’illuminista
Leibniz (come
Wolff), abbracciava una visione
illuministica
del mondo. Ma allora perché Kant
caratterizza
questo periodo del suo pensiero
come sonno
dogmatico, se non considera dogmatico
quel
tipo di illuminismo? L’episodio
mostra chiaramente
come l’illuminismo viaggiasse
per strade
molto differenziate. Kant lo
testimoniò chiaramente
interpretando la sua conversione
da un illuminismo
da lui definito ‘sonno dogmatico’
a un altro
che riservava alla ragione non
compiti di
costruzione razionale ma piuttosto
compiti
di demolizione di concetti consolidati,
che,
come il concetto di causa, erano
considerati
veri e propri di dogmi filosofici.
La successiva speculazione di Kant è dunque
ancora illuminista. Lo è per la centralità
dell’uomo come fonte di acquisizione della
verità, per le capacità dell’uomo di ordinare
i dati sensibili, e per la funzione critica
assegnata all’attività filosofica volta a
determinare i limiti della conoscibilità
umana, al fine di evitare ogni forma di dogmatismo
sia quello di stampo tradizionale e teologico
sia quello razionalista di impronta illuminista.
Con la Critica della Ragion Pura vengono abbattute la possibilità di pervenire
con la ragione al mondo, all’anima a Dio
e si demolisce l’idea che con la ragione
si possa pervenire a risolvere ogni problema.
La questione di Newton
Il meccanicismo di Cartesio pareva aver eliminato
tutte le ‘azioni a distanza’ tipiche delle filosofie naturali precedenti.
Con la sua legge sulla conservazione della
quantità di moto, Cartesio poté offrire una
spiegazione ‘razionale’ tanto degli eventi
fisici osservabili sulla terra che del funzionamento
e della formazione dell’universo. Una stessa
legge era sufficientemente esplicativa e
valeva nel microcosmo come nel macrocosmo;
una stessa legge valida per tutto l’universo
diveniva quel principio di ‘razionalità’
che permetteva agli scienziati di dichiarare
sconfitto l’animismo della magia, dell’alchimia,
dell’occulto delle forze invisibili benigne
o maligne a cui si ispiravano ‘l’irrazionalità’
delle precedenti filosofie della natura la
cui caratteristica era proprio la mistica
‘azione a distanza’.
Quando Newton pubblicò i suoi
risultati,
il mondo scientifico dovette
constatare che
tutta la capacità esplicativa
del suo sistema
si basava sulla legge della gravitazione
universale che presupponeva l’esistenza
di
una forza (quella di gravitazione)
che agiva
a distanza.
La fisica di Newton era assai
più esplicativa
di quella di Cartesio; tutti
i fenomeni meccani
dal moto dei pianeti, alla caduta
dei gravi
potevano essere ‘calcolati’ ma,
ripristinando
l’azione a distanza, la legge
di gravitazione
universale, pareva riportare
la spiegazione
fisica all’irrazionalità della
magia e delle
‘influenze’ che a molti parve
un regresso
verso l’occulto.
Per questa ragione per molti
anni la fisica
di Cartesio riuscì a conservare
fautori accaniti.
Più in avversione al ‘magico’
della gravitazione
di Newton che in adesione alla
sua fisica
dell’urto.
Il tentativo di rendere accettabile
la fisica
di Newton passò dunque attraverso
una ‘razionalizzazione’
intesa come via di unificazione
sotto un’unica
legge, prima tentando di ridurre
la seconda
(di Newton ) alla prima (quello
di Cartesio)
e solo in un secondo di ridurre
la prima
alla seconda.
Il tentativo di ridurre la fisica
dell’urto,
del meccanicismo dell’orologio
a quella dell’azione
a distanza era significativo
perché in un
certo senso ci dice che l’accettazione
di
una certa idea, anche quella
mostruosa dell’azione
a distanza sia in gran parte
determinata
dal tempo e dall’abitudine. Se
un’idea ci
sconvolge, la difficoltà di confutarla
e
il tempo ci aiutano a metabolizzarla
e ad
accettarla.
E’ significativo il tentativo
di Boscovich
(1711- 1787) che testimonia quanto
ormai
la nuova forza newtoniana dell’azione
a distanza,
prima giudicata irrazionale magica
e incomprensibile,
era divenuta ormai l’unico vero
paradigma
di comprensione mentre, al contrario,
il
‘comprensibile’ e laico urto
suscitasse dubbi
di razionalità. Nello svolgersi
dell’urto
fra due bilie, come sottolinea
Boscovich,
si può passare per entrambe di
colpo e con
discontinuità dall’immobilità
al movimento.
Più in generale la bilia A che
colpisce passa
di colpo da una velocità V1 a
una V2, e la
B, che è colpita, passa di colpo
da una velocità
V3 a una V4 e questo costituisce
un’evidente
violazione di quel principio
di ‘comprensibilità’
secondo il quale la natura in
generale e
la velocità della biglia in particolare
non
fa salti.
Ciò induce Boscovich a suggerire
che ogni
corpo agisca sugli altri secondo
una doppia
forza di attrazione e repulsione,
entrambe
a distanza. La prima diminuisce
con la distanza
mentre la seconda, sempre con
la distanza,
aumenta ma in maniera molto più
forte. Quando
una bilia si dirige contro una
un’altra la
sua forza di repulsione aumenta
progressivamente
vincendo prima la forza di attrazione
e poi
diventando così forte man mano
che si avvicina
da spostare l’altra bilia. Quando
la distanza
fra le due è piccola viene percepita
come
un urto, mentre in realtà il
contatto non
avviene.
Il decrescere e l’incrementarsi
della velocità
in modo continuo veniva poi spiegato
in coerenza
con le idee dello spazio e del
tempo, ma
questo esula in parte dalla nostra
discussione.
Il modello matematico: modello
e metafora
del mondo?
La geometria e l’aritmetica nacquero
da problemi
pratici, di conteggio, di contabilità,
di
misura di altezze, di angoli,
di distanze.
La loro verità nasce dalla prova
e la prova
è inizialmente pratica, tanto
in aritmetica
che in geometria: conteggi, merci,
pesi,
debiti, crediti, lunghezze, superfici.
E’
probabile che embrioni d’aritmetica
e di
geometria nascessero convalidati
dalla verifica
empirica ma tutto cambiò con
Pitagora e la
sua scuola quando il numero assunse
una funzione
metafisica, scientifica e religiosa:
non
solo di essenza delle cose ma
di principio
generatore ed esplicatore della
realtà capace
di svelare la struttura nascosta
del mondo.
Il sistema dei numeri assunse
lo statuto
di fondamento e di modello del
mondo. Il
modello, inizialmente aritmetico,
fu certamente
accompagnato da una crescita
delle conoscenze
geometriche. Certamente uguaglianza,
scomponibilità
e combinabilità delle figure,
similitudine
tra i triangoli, operazioni usuali
nel calcolo
di terreni, di altezze ecc. passarono
gradualmente
al rango di problemi sulla carta
con figure
idealizzate. Questa idealizzazione
fu un
passaggio fondamentale per l’emancipazione
della future scienze aritmetiche
e geometriche.
La possibilità in base ai criteri
di similitudine
di ricavare relazioni e quindi
valori di
misura che non dovevano essere
convalidati
dall’esperienza, fornì, ad esempio,
un embrione
di dimostrazione e del concetto
di dimostrazione,
consentendo una prassi, nata
nelle conferme,
in virtù della quale nacque la parola “dimostrato” da affiancare
e/o identificare con “vero”. Fu l’inizio di una confusione che dura
ancor oggi.
Con Pitagora la funzione del sistema dei
numeri come modello del mondo sta già nel
concetto: capisci le relazioni fra i numeri
e capirai la relazione fra le cose del mondo,
capisci i numeri e capirai i cieli e le stelle.
Il credo pitagorico sarà ripreso
da Platone
che dedicherà, con la sua scuola,
massima
cura allo studio della geometria
e al mondo
dei numeri, un mondo che costituirà,
nel
suo sistema filosofico, il livello
immediatamente
precedente al mondo delle idee.
Senza la
conoscenza delle figure, dei
numeri e delle
loro proprietà l’accesso alla
vera conoscenza
è impossibile e l’uomo rimane
incatenato
alla caverna, al mondo delle
ombre, ai sensi,
alle apparenze senza mai approdare
a quel
regno di perfezione, verità e
bellezza che
è il mondo delle idee.
Le teorie dei pitagorici furono
fondanti
per la civiltà occidentale e
se, per un verso,
Omero ne fu un padre, un altro
padre, non
meno importante, fu Pitagora.
Il modello di Pitagora, benché
molto astratto,
implica il concetto di misura
numerica e
quindi la completa descrizione
e conoscenza
del mondo.
Il numero, misura di tutte le
cose, serve
per contarle, paragonarle, sommarle,
misurarle.
Interrogando i numeri interrogheremo
il mondo
perché il mondo è fatto di numeri,
perché
il numero è l’essenza metafisica
del mondo.
Coi numeri si misurano aree,
lunghezze, volumi.
Coi numeri si misurano quantità
e valore
delle merci, tempi e percorsi,
debiti e crediti;
coi numeri si progettano case
e fortificazioni.
Nulla pare sfuggire al loro potere
conoscitivo.
Pitagora e i suoi allievi furono
probabilmente
influenzati da questa grande
potenza. Se
tutto, animali, vegetali, pietre,
manufatti,
volumi, superfici, poteva essere
misurato
dai numeri, se uno stesso numero
caratterizzava
il numero delle cipolle in una
cassa, la
lunghezza di un cammino, i passi
fra due
case, la superficie di un campo
e tutte le
possibili cose, allora il numero,
capace
di rappresentare un’infinità
di cose depurate
di tutti quei predicati che li
rendevano
quelle cose, non poteva che essere
l’anima
delle cose.
Numeri che potevano, essere addizionati,
moltiplicati, sottratti al mercato
di Atene
o a quello di una qualsiasi altra
città,
applicati alle stelle in cielo
come ai campi
di Argo, scritti sulle tavolette
di cera,
ma anche nella mente di ognuno,
quasi che
quel campo, quella cassa del
mercato, quel
gruppo di stelle fossero spiritualmente
presenti
sul tavolo di casa e accompagnassero
l’evolversi
degli eventi dal loro nascere
al loro morire
come durature e stabili essenze
generatrici.
Il sistema dei numeri divenne
così il sistema modello per il mondo. Le leggi
dei numeri, le leggi del mondo. Un’essenza capace di essere evocata a rappresentarle
in ogni situazione. Ma il modello
non tardò
a ribellarsi
La ribellione del numero
I primi dubbi sulla “verità”
del modello
dovettero nascere già con la
divisione fra
due numeri che a volte generavano
numeri
interminabili. 10/3 dà come risultato
un
infinitivo serie di numeri tre
senza alcuna
speranza che la serie abbia un
termine. Cosa
rappresentava questo mostro?
Come appariva
ai Pitagorici un numero interminabile
che
nessuna vita, che nessuna infinità
di vite
poteva sperare di portare a compiutezza?
Un mostro che evidentemente nella
realtà
non pareva essere l’essenza di
alcunché.
Ma i Pitagorici per cui il numero
era misura
e relazione, quel numero interminabile
potevano
comunque essere visto come relazione
esprimibile
come rapporto di due interi che
avevano l’unità
come comune unità di misura anche
se, comunque,
quegli strani interminabili numeri
che germinavano
da normali operazioni dovettero
suscitare
qualche perplessità. Che senso
può avere
il fatto che la lunghezza di
un segmento
sia misurata da un numero senza
fine? Questi
numeri interminabili sono già
pesci della
sabbia?
Il peggio – un peggio irrimediabile
– arrivò
quando i pitagorici si imbatterono
in quella
vera assurdità, dimostrabile
come vera, secondo
la quale non esisteva alcuna
unità di misura
comune fra il lato e la diagonale
del quadrato.
Che fare di questi nuovi mostri?
La situazione
era tragica e i pitagorici la
sentirono come
tale perché il modello cadeva.
Cadeva davvero? L’Aritmetica
intesa come
modello del mondo era solo un’immensa
metafora
che aveva generato non solo pesci
ma addirittura
mostri di un altro mondo? Certamente
rappresentò
sia il crollo di una fede sull’onnipotenza
dei numeri che il crollo del
mondo dei numeri
come modello del mondo, un modello
che si
spostò alle figure dei geometri.
Numeri immaginari
Cavalchiamo i secoli e facciamo
un salto
in pieno Rinascimento quando
gli algebristi
si imbatterono in operazioni
del tipo
che, ovviamente, non avevano
alcun senso
né potevano generare un risultato
perchè
non esistono numeri che hanno
per quadrato
numeri negativi. Poiché alcuni
di questi
mostri si presentavano in calcoli
di cui
già si conoscevano soluzioni,
i nostri baldi
algebristi non si scoraggiarono
e, indicato
col simbolo J2 il valore di
dove il simbolo J significava immaginario,
proseguirono nei loro calcoli.
Sapevano che JxJ ossia J2 era uguale a -1 e impararono presto a sommarli, a moltiplicarli
a dividerli fra loro e coi numeri
reali,
constatando che spesso questi numeri immaginari
sparivano e permettevano di portare
regolarmente
a termine i calcoli.
Avevano trovato altri pesci della
sabbia?
Uscivano dal nostro mondo per
entrare in
un mondo immaginario in cui i
pesci e le
balene della sabbia sguazzano
allegramente
nei deserti?
L’espressione
Ax + jy somma di un numereo reale
con un
numero immaginario (ad esempio
3+j2) viene
chiamato numero complesso.
La teoria dei numeri complessi
ha esiti sconcertanti.
Una circonferenza e una retta
s’intersecano
o non s’intersecano. La circonferenza
di
raggio 1 e la retta parallela
all’asse delle
ordinate che passa per P(2, 0)
come rappresentato
in figura 3,
non s’intersecano e non hanno,
quindi, punti
in comune; ma se consideriamo
le loro equazioni
1) e 2)
1) X2 + y2 = 1
2) X= 2
Risolvendo il sistema scopriremo
che ha le
due soluzioni immaginarie J
e - j e quindi due punti in comune ci sono. Ma
si incontrano o non s’incontrano? Il teorema
di Gauss ci garantisce che immaginari o no
questi punti in comune esistono. Dove, in
quale universo, esistono questi punti in
cui s’incrociano la circonferenza e la retta
in figura?
Secondo Mach la razionalità non
riconduce
“la non intelligibilità ” a “intelligibilità”, ma piuttosto “si riconducono inintelligibilità insolite
a intelligibilità usuali”.(2)
Siamo così abituati alle intelligibilità
insolite dei numeri interminabili,
degli
incommensurabili, degli immaginari,
siamo
così distratti dalle proficue
applicazioni
di questi numeri da averli resi
intellegibilmente
usuali mascherando il loro aspetto
di balene
della sabbia del nostro modello-metafora
di comprensione e percezione
del mondo?
Se per un attimo identifichiamo
il nostro
mondo con quello del modello,
come in effetti
ci siamo abituarti a fare, allora
dire che
usciamo dal nostro mondo per
entrare in un
altro equivale a dire che siamo
giunti ad
un limite della nostra capacità
di comprensibilità
utilizzando quel modello come
mondo?
Cosa vuol dire che siamo usciti
dal nostro
mondo e siamo entrati in un altro
in cui
l’incontro tra quella circonferenza
e quella
retta avviene? Che quei punti
sono inesistenti?
Quei punti esistono. Il problema
sta nel
significato di quell’’esistono’.
Come e dove
esistono?
Ma a parte le considerazioni
d’esistenza
molte possibili metafore ci colpiscono.
Anche
noi talvolta abbiamo bisogno
di uscire dal
mondo e entrare nell’immaginario.
E’ un mondo
così difficile, duro insopportabile
da indurci
a evadere a rifugiarci più o
meno permanentemente
in altri mondi che non stessi
forgiamo nell’universo
dell’immaginario. La poesia,
il romanzo ecc.
sono armi formidabile tanto per
questa attività
vivificatrice di ripristino quanto
per insegnarci
a vedere ciò che non siamo mai
riusciti a
vedere nel nostro. La cultura
allarga, dilata
i nostri orizzonti. Non è solo
telescopio
ma anche microscopio.
Quando noi leggiamo autori Kafka,
Tolstoj
ecc. colloquiamo con loro in
uno spazio immaginario,
da loro stessi aperto quando
scrivevano per
i futuri lettori, quando s’affaticavano
per
rendere migliori i loro testi,
più comunicabili
le loro emozioni, più seducenti
le loro scritture.
Ancora gli infinitesimi
Facciamo un altro salto in avanti
e approdiamo,
agli inizi del calcolo infinitesimale,
a
quelle vere bestie nere che furono
per filosofi
e matematici gli infinitesimi.
Una filigrana di eresie percorre
la storia
canonica della matematica.
Contemporaneo di Galilei, Bonaventura
Cavalieri
inventò un metodo di calcolo,
in cui una
linea era una somma infinita
di punti, un’area
una somma infinita di segmenti
e un volume
una somma infinita di piani.
La sua opera,
nota come geometria degli indivisibili,
fu
giudicata come un tentativo di
raccogliere
l’acqua con un setaccio. Dice
Borges, vero
nume tutelare di tutte le eresie:
La vasta biblioteca è inutile.
A rigore,
basterebbe un sol volume, di
formato comune,
stampato in corpo nove o in corpo
dieci,
e composto d’un numero infinito
di fogli
infinitamente sottili. (Cavalieri,
al principio
del secolo XVII, affermò che
ogni corpo solido
è la sovrapposizione d’un numero
infinito
di piani).
Cavalieri incredibilmente ottenne
grandi
risultati. Oltre che confermare
risultati
già noti, calcolò lunghezze,
aree e volumi
mai prima calcolati. Nonostante
questi successi
non riuscì a convincere i contemporanei:
quegli strani indivisibili puzzavano
troppo
di zolfo. Inutilmente si difese
sostenendo
i suoi indivisibili erano solo
scorciatoie.
Gli indivisibili, queste fantomatiche entità
che erano e non erano, ma dei quali si doveva
comunque parlare, furono presto abbandonati.
Con la nuova geometria algebrizzata di Fermat
e di Cartesio, gli indivisibili scomparvero,
ma nacquero gli infinitesimi loro stretti
parenti. La geometria era cambiata, ma anche
nella nuova si tornò a parlare di quantità
infinitamente piccole e di aree calcolate
come somme di infiniti segmenti. (1) Il sospetto
che aveva afflitto gli indivisibili si trasferì
sui non meno eretici infinitesimi; un sospetto
che durò almeno due secoli fino a che Cauchy
e Weierstrass non inventarono una procedura
che otteneva gli stessi risultati, ma non
parlava di infinitesimi. L’analisi poté essere
trascritta e redenta dal rigore che il nuovo
metodo permetteva.
Nonostante ciò, i manuali d’ingegneria
continuarono
a lavorare con i troppo comodi
infinitesimi
fino a che, nella seconda metà
di questo
secolo, quegli stessi infinitesimi,
che secondo
Leibniz costituivano la grana
fine dell’universo
accessibile solo all’intelligenza
infinita
di Dio, si presero la rivincita,
divenendo
legittimi e non eretici cittadini
nei mondi
dell’analisi non standard inventata
( o scoperta)
da Robinson.
E che dire delle geometrie non
euclidee?
Questo tormentone proveniva da
un dubbio
tanto antico quanto irrisolto
circa la validità
dell’assioma3 delle parallele
formulato da
Euclide. L’assioma, che recita
che se P è
un punto e a una retta, per P
passa una sola
parallela ad a, apparve subito
sospetto.
Altrettanto sospetto doveva apparire
a Euclide
che lo aveva introdotto, non
con gli altri
assiomi, ma dopo aver dimostrato
una trentina
di teoremi. Questa strana collocazione
fu
subito interpretata come se lo
stesso Euclide
volesse far capire di averlo
introdotto solo
perchè non poteva più farne a
meno.
L’idea che il mondo non fosse
euclideo era
così eretica che non venne neppure
presa
in considerazione. La dimostrazione
dell’assioma
divenne, così, un’ossessione.
Nei secoli
si accumularono oltre mille ufficiali
e inutili
tentativi di soluzione e non
furono pochi
i matematici che dedicarono alla
soluzione
del problema la loro vita. Wolfang
Boylai,
padre di quel Giovanni che diede
una svolta
definitiva all’enigma, fu fra
questi.
Una mezza svolta l’aveva già
impressa il
matematico Gerolamo Saccheri
di Pavia. Questi
negò l’assioma delle parallele
e sviluppò
un nuovo sistema. Saccheri sperava
di imbattersi
in un “assurdo” che dimostrasse
che Euclide
aveva ragione e lo volle così
tanto che finì
per trovarlo anche dove non c’era.
Ciò che Saccheri aveva iniziato era una geometria
non euclidea. Dopo di lui, altri, tra cui
Lambert, fecero intravedere brandelli di
questo nuovo universo e Gauss lo costruì
effettivamente, ma non volle renderlo pubblico.
Bolyai, infine, nel 1825 e Lobacevskiy nel
1826, esposero una nuova geometria che partiva
dall’assunzione dell’esistenza di due parallele
a una data retta. (4)
Bolyai comunicò le sue scoperte al padre
commentando: “Aggiungo solo questo: Ho creato
un universo completamente nuovo dal nulla.”
Il padre invio il lavoro all’amico Gauss
che in risposta, dopo aver dichiarato di
non aver mai pubblicato nulla sull’argomento
per timore delle “strida dei beoti” scrisse
“Se inizio dicendo che non posso lodare quest'opera,
tu resterai meravigliato per un istante.
Ma non posso fare altrimenti, lodarlo sarebbe
infatti lodare me stesso; tutto il contenuto
dell'opera spianata da tuo figlio coincide
quasi interamente con quanto occupa le mie
meditazioni da trentacinque anni a questa
parte [...] È dunque con gradevole sorpresa
che mi viene risparmiata questa fatica [di
pubblicare], e sono contento che il figlio
di un vecchio amico mi abbia preceduto in
modo così notevole”
Le geometrie iperboliche ed ellittiche
descrivevano
mondi diversi da quello classico.
Ma erano
mondi o sterili esercitazioni
intellettuali
per il diletto delle menti matematiche?
Per
molti geometri il mondo rimaneva
euclideo
perché nel mondo euclideo si
viveva e con
la sua geometria si eseguivano
misure e calcoli
che funzionavano. E poi anche
negando Euclide
quali delle infinite geometrie
ellittiche
e iperboliche era quella vera?
Einstein si servì degli strumenti
matematici
elaborati da Gauss, Riemann,
Levi-Civita
e Ricci-Curbastro per elaborare
la teoria
della relatività generale. Nella
conferenza
di Kyoto del 1922, affermò:
Se tutti i sistemi sono equivalenti
allora
la geometria euclidea non può
valere in ciascuno
di essi. Abbandonare la geometria
e conservare
le leggi fisiche è come descrivere
i pensieri
senza parole. Bisogna cercare
le parole prima
di poter esprimere i pensieri.
Che cosa si
doveva cercare a questo punto?
Tale problema
rimase insolubile per me fino
al 1912, quando
all'improvviso mi resi conto
che la teoria
di Gauss delle superfici forniva
la chiave
per svelare questo mistero. Compresi
che
le coordinate di una superficie
di Gauss
avevano un profondo significato.
Non sapevo
però a quell'epoca che Riemann
aveva studiato
i fondamenti della geometria
in maniera ancora
più profonda. [...] Mi resi conto
che i fondamenti
della geometria avevano un significato
fisico.
Quando da Praga tornai a Zurigo,
vi trovai
il matematico Grossmann, mio
caro amico:
da lui appresi le prime notizie
sul lavoro
di Ricci e in seguito su quello
di Riemann.
I “nuovi” ed eretici mondi furono accettati
dagli accademici con inconsueta calma (o
rassegnazione). Ciò accadde perché il problema
era ormai maturo e perchè Gauss li approvò
con entusiasmo. L’autorità e il genio di
Gauss (5) erano così grandi da poter imporre
ai dotti custodi dell’ortodossia (pur fra
amare masticazioni) anche una simile rivoluzione.
Le implicazioni matematiche,
filosofiche,
fisiche dell’eresia non euclidea
furono enormi
e nuove furono tanto l’apertura
mentale che
lo spirito di libertà che una
simile rivoluzione
riuscì a suscitare. Com’era effettivamente
il mondo? Euclideo o non euclideo?
Come si
doveva interpretare questa pluralità
di geometrie?
Come si doveva concepire lo spazio?
Le geometrie
non euclidea non aprirono solo
una porta
nei muri dell’ortodossia, ma
li sfondarono.
Mentre la geometria veniva così
rivoluzionata,
l’analisi stava procurando non
pochi grattacapi
ai suoi adepti. L’elaborazione
della neonata
teoria delle classi proposta
da Cantor procurava
più sospetti che certezze. Un’inquietudine
che sfociò in una vera guerra
che aveva per
oggetto la stessa natura degli
enti e dei
ragionamenti matematici. Quali
ragionamenti
potevano essere ritenuti sicuri?
Quali entità
potevano essere accettate? Non
fu solo una
guerra tra normalizzatori e rivoluzionari.
Fu una guerra fra filosofie rivali
e fra
mentalità irriducibili. Rinviamo
per ora
lo spinoso problema per affrontarne
un altro
che paradossalmente nasce dall’aritmetica
elementare della cui assiomatizzazione
si
occupò Peano.
Verità e dimostrazione
A questo punto prima di continuare
a girovagare
nel modello matematico nato con
Pitagora,
possiamo affrontare un’importante
questione:
è possibile limitare la nostra
fantasia almeno
artificialmente? Almeno in quella
matematica
ritenuta, a torto o a ragione,
la disciplina
del rigore?
Si è visto come l’ambigua coincidenza
in
matematica fra vero e dimostrato,
nasce soprattutto
dalla trasportabilità analogica
su foglio
e con essa dall’idealità di numeri
e misure.
Nasce la dimostrazione su carta
come pura
operazione di pensiero e, con
essa, si fa
strada l’identità dimostrabile
= vero. Una
identità che aveva piena ragion
d’essere
se si aderiva a una concezione
platonica
secondo la quale, la verità testimoniava
una corrispondenza fra realtà
e descrizione
linguistica di quella realtà,
che per Platone
era il puro, perfetto mondo delle
idee, un
mondo visibile, secondo una metafora
di successo,
con gli occhi dell’intelletto
dopo un’ascesa
di una scala di quattro gradini
di cui la
matematica dimorava al terzo.
Per Aristotele la verità è, dire di ciò che è, che è e, di ciò che non
è, che non è. Questa definizione non è in linea di principio
diversa da quella di Platone.
La ragione
del contendere non è nella definizione
ma
nel separare ciò che è da ciò
che non è,
che per Platone è separazione
tra mondo intellettuale
delle idee e apparenza illusoria
dei sensi.
Euclide, occupandosi di numeri
e di figure
non solo unificò il sapere matematico
del
tempo ma introdusse un’idea rivoluzionaria
destinata a mutare, complicare,
affinare
la concezione della natura della
matematica.
Con lui nasce l’assiomatica e,
anche se i
suoi assiomi vengono giudicati
verità evidenti
e non convenzionali, (il che
non presuppone
un mondo platonico ma perlomeno
un mondo
oggettivo), su di essi viene
edificato tutto
l’edificio matematico; un edificio
che parte
dalle fondamenta (assiomi) e
si eleva piano
dopo piano, teorema dopo teorema.
L’edificio di Euclide si basa:
1) su un certo numero di enunciati
(assiomi)
presentati come indubitabili,
evidenti di
per sé,
2) su un certo numero di regole
d’inferenza
non esplicitamente enunciate
che derivano
tanto dalla sillogistica aristotelica
che
dalla logica stoica. Mediante
le regole dagli
assiomi vengono inferiti i teoremi.
La verità dei teoremi dipende,
così, da quella
degli assiomi e delle regole
d’inferenza.
Cambiando gli uni o gli altri,
muta l’edificio.
Ciò che è vero con un sistema
di assiomi
e regole può essere falso con
un altro sistema.
Se si cambia il sistema si cambiano
sia il
mondo e gli enti che popolano
il mondo. Ma
qual è il vero mondo e quali
i veri enti
che popolano il vero mondo? Qual
è il criterio
con cui dobbiamo avvalorare un
mondo e i
suoi enti? Nel momento in cui
viene messo
in dubbio uno dei postulati di
Euclide il
problema è posto per sempre.
Per molti la risposta sarà la coerenza. Come
già riportato, a pagina 66 del suo trattato
La scienza e l’ipotesi Poincarè afferma “Mill pretende che ogni definizione contenga
un assioma, poiché per definirlo, si afferma
implicitamente l’esistenza dell’oggetto definito…..non bisogna dimenticare che la parola ‘esistenza’
non ha lo stesso significato
quando si tratta
di un essere matematico o quando
si tratta
di un oggetto materiale. Un essere
matematico
esiste a condizione che la sua
definizione
non implichi contraddizione,
sia in se stessa,
sia con le proposizioni precedentemente
ammesse.”
Verità ed esistenza, quindi,
subordinate
alla coerenza? Ma cosa c’entra
la verità
con la coerenza?
La coerenza divenne con Hilbert il primo
presupposto di verità. Hilbert ritenne indispensabile
la dimostrazione della coerenza dell’aritmetica
e iniziò un percorso che riconduceva la coerenza
di una branca della matematica all’altra.
Col suo lavoro sulla geometria non solo dimostrò
che se l’aritmetica era coerente allora anche
la geometria euclidea lo era ma rivoluzionò
la concezione degli enti in assiomatica,
rivoluzionando così la stessa assiomatica.
Enti ‘primitivi’ come il punto la retta,
il piano non venivano più definiti a priori
intuitivamente e indipendentemente dagli
assiomi ma contestualmente dagli assiomi. Retta,
piano, punto divenivano gli enti compatibili
e coerenti con gli assiomi. Ovviamente le
retta e i piani della geometria euclidea
non erano, le rette e i piani delle geometrie
ellittiche e iperboliche.
Si fa strada nel pensiero occidentale
fino
ad emergere con chiarezza l’idea
di una molteplicità
di forme di verità. Leibniz aveva
distinto
le verità di ragione dalle verità
di fatto.
Le verità di fatto esprimerebbero
un pensiero
che va verificato nell’esperienza
(questa
tavoletta è rossa) mentre le
verità di ragione
(Il triangolo rettangolo è un
triangolo)
sarebbero vere di per sé, in
virtù della
loro forma. La distinzione pare
avvalorata
dal fatto che non le verità di
ragione ma
le verità di fatto ci trasmettono
informazioni.
Il Tractatus propose la teoria secondo cui tutte le leggi
logiche sono vere in quanto tautologie. L’enunciato
“Piove o non piove” è sempre vero perché
esprime tutte le possibilità; ma proprio
perché esprime tutte le possibilità non ci
dice nulla.
Che non ci dica nulla non è certamente vero.
Intanto ci dice che esiste la pioggia, poi
che a volte può piovere a volte no. Wittgeinstein
era tanto consapevole di questo informare
da considerare la tautologia l’armatura del mondo. Consideriamo il gioco degli scacchi a cui
Wittgenstein amava riferirsi. Un’unica tautologia
potrebbe esprimere sotto forma disgiuntiva
tutte le possibili prime mosse tutte le possibili
prima contromosse e così via. Tutta questa
enorme tautologia che esprime tutte le possibili
mosse non ci informa con la massima precisione
circa le regole e le possibilità del gioco?
Non ci dice metaforicamente qual è l’armatura
del mondo degli scacchi?
Russell fu subito consapevole
dell’importanza
della tautologia e suppose che
tanto la logica
che la matematica si reggessero
sulla tautologia.
Ramsey ne tentò una presentazione
ma il suo
tentativo si arenò di fronte
all’assioma
del’infinito.
Quello di Ramsey fu l’ultimo tentativo realista
e logicista di costruzione dell’edificio
matematico ma non per questo i matematici
cessarono di essere platonici. Come spesso
si sente dire, i matematici sono Platonici
nei giorni feriali e convenzionalisti la
domenica quando parlano coi filosofi ma Goedel
era platonico anche la domenica e tentò, come confessa in una lettera, di dimostrare
con un teorema matematico la verità del platonismo.
L’abbandono del logicismo platonico significava
la resa a una visione assiomatica matematica?
Cosa comportava tutto ciò nel rapporto mondi
esistenze, verità, dimostrazione, metafora?
Lasciamo cadere per ora l’argomento e chiediamoci se un sistema assiomatico riesce,
almeno per l’aritmetica, a vincolarci nel
mondo standard dei numeri, ossia al mondo di quei numeri che tutti
utilizzano ogni giorno per fare i conti della
spesa. Chiediamoci in seconda istanza: se
si cambia il sistema e si cambiano gli enti,
si cambia il mondo? Se sì, qual è il vero
mondo e quali sono i veri enti che lo popolano?
Il problema dal nostro punto di vista si
può condensare in una domanda: E’ possibile
mettere le catene alla nostra fantasia? E’
possibile, ad esempio per la matematica,
scrivere delle regole, fissare degli assiomi
e, col rigore della formalizzazione, impedirci
di scivolare via e, vincolando la nostra
fantasia produttiva, mantenerci saldamente
ancorati al mondo, entro quei confini che
di solito e ambiguamente vengono contrassegnati
come di verità? E’ possibile in sostanza, almeno in aritmetica,
produrre un sistema di assiomi su cui edificare
l’edificio vero delle nostre dimostrazioni
senza produrre romanzi (pur rigorosamente
formalizzati) di fantascienza?
La prima domanda può assumere
dunque la forma:
riusciamo con un sistema di assiomi
a definire
una volta per tutte un mondo
coi suoi enti?
Rivolgiamo la nostra riflessione
ad esempio
all’aritmetica elementare. Riusciamo
con
un sistema di assiomi a caratterizzare
il
suo mondo e i suoi enti?
Peano cercò di riuscirci e ricostruì
la matematica
su tre idee primitive (Zero,
numero, successore)
e sui seguenti cinque postulati:
1. 0 è un numero,
2. il successore di un numero
è un numero,
3. due numeri non hanno lo stesso
successore,
4. 0 non è il successore di alcun
numero,
5. qualsiasi proprietà che appartenga
sia
a 0 che al successore di qualsiasi
numero
che la possiede appartiene a
tutti i numeri.
Purtroppo i cinque assiomi e i tre concetti
primitivi non costituiscono un sistema categorico.
Questo vuol dire il sistema i numeri naturali
soddisfa agli assiomi ma anche altre innumerevoli serie (un’infinità) lo soddisfano. In definitiva con quegli
assiomi e con quei teoremi non si sa di cosa
si parla o, detto in altro modo, la teoria
ammette infinite interpretazioni.
Si potrebbe pensare di raggiungere questa
categoricità aggiungendo altri assiomi, ma è stato dimostrato che nessun numero finito
di assiomi è in grado di raggiungere l’obiettivo;
possiamo aggiungere quanti assiomi vogliamo
ma non sapremo mai di che serie di oggetti
stiamo parlando. Non sapremo mai di che mondo stiamo parlando.
Un linguaggio capace di parlare di numeri
è e sarà infinitamente ambiguo.
La precisione e la formalizzazione lungi
dal chiudere porte e delimitare mondi, ci
indicano vie per accedere ad altri. Il mondo dei numeri (ma in generale qualsiasi
mondo con qualsiasi sorta di oggetti o individui)
non ci sta a essere delimitato e cintato.
Cosa contengono questi mondi non standard, quali balene nuotano nei loro mari di sabbia?
Si è parlato dei problemi associati all’invenzione
del calcolo infinitesimale, in particolare
in relazione a quelle entità indigeste che
erano gli infinitesimi, nati come indivisibili
che nel mondo geometrico di Bonaventura Cavalieri,
che nel mondo della fisica e dell’ingegneria
divenivano lamine, movimenti, superfici e
volumi elementari. L’Analisi del diciannovesimo
secolo soprattutto ad opera di Weierstrass
con l’invenzione del concetto di limite,
eliminò gli ambigui infinitesimi e rese l’analisi
rigorosa, ma tecnici e ingegneri non si conformarono
alla riforma avviata attraverso il concetto
di limite; una riforma che, come si è detto,
elimina dal vocabolario la parola infinitesimo
e la concettualità associata. Nei politecnici
si è sempre studiato e si studia tutt’ora
l’analisi nella sua nuova rigorosa veste,
ma in discipline tecniche come la termodinamica
l’elettrotecnica, l’idraulica, la meccanica
ecc. si continua dopo più di un secolo e
mezzo a parlare, dimostrare, ragionare concludere
tranquillamente con infinitesimi, con lamine
elementari di liquido, con variazioni elementari
di campo ecc. come se nulla fosse accaduto.
Lo si fa non perché si contesta
o non si
accetta la nuova più rigorosa
concettualità,
ma solo perché il ragionamento
procede più
speditamente e più intuitivamente
e perché
il supporre la reale esistenza
di queste
lamine elementari, di queste
variazioni infinitesime,
facilità la comprensione.
Dunque tutto procede come se
il mondo fosse
effettivamente fatto di quella
quantità infinitesime
di liquido, di solido, di movimento,
di energia
ecc. anche se fisicamente si
conosce non
solo la loro insostenibilità
fisica ma anche
la loro insostenibilità logica.
Eppure si parla del nostro mondo e si va
avanti con dimostrazioni e applicazioni come
se fosse vero ciò che non lo è. Dimostriamo con dimostrazioni false su ipotesi
false e alla fine arriviamo a risultati veri?
Ma di quale mondo, di quale verità
parliamo?
L’idea di Pitagora che il mondo
sia fatto
di numeri, che è l’idea di Galileo,
che è
l’idea che soggiace e nutre molte
delle nostre
possibilità di comprendere, è
tutt’altro
che disattiva e morta. E’ stata
ed è tuttora
così produttiva nella conoscenza
e nella
trasformazione delle nostre vite
da poter
considerare nel bene o nel male
Pitagora,
come Omero, il padre della nostra
civiltà
. Ma quando entriamo in quei
labirinti è
il caos.
Il logico americano Robinson dimostrò che
esiste un mondo non standard in cui alloggiano
oltre i normali numeri che usiamo tutti i
giorni anche quei maledetti, benedetti, ambigui,
inintelligibili infinitesimi. Non solo: in
questa analisi non standard possono essere
dimostrati tutti i teoremi dell’analisi tradizionale,
come hanno sempre fatto i tecnici e gli ingegneri
senza tutta la complicazione dell’apparato
epsilon delta. Ma cosa sono questi mondi
non standard? (6)
Gli infinitesimi sono le sarde
del deserto
di sabbia? Anche qui entriamo
in un mondo
immaginario fatto (metaforicamente)
di un’altra
pasta per poi rientrare nel nostro.
Come
si configura il rapporto tra
vero per dimostrazione,
vero in sé stesso, sempre vero?
Come si rapporta
il dimostrabile col vero?
I mondi non standard.
In ogni caso i mondi non standard
sono la
testimonianza della impossibilità
d’incatenare
gli oggetti e gli ambienti di
una teoria
a un mondo, (al nostro mondo)
e dell’impossibilità
di vietare l’evasione verso altri
universi:
una pluralità di mondi e di abitanti
di quei
mondi non standard, che marcano
la loro alienità
rispetto alla realizzazione standard
più
usuale, e aprono vie insospettate
verso l’insolito
e l’immaginario.
Ci chiediamo quali siano le vie
per liberarsi
dalle catene e la storia della
geometria
non euclidea già ci da una risposta.
La modifica
dell’assioma delle parallele
generò, oltre
al mondo euclideo, mondi ellittici
e mondi
iperbolici altrettanto coerenti
con l’aritmetica
e altrettanto interessanti. Mondi
in cui
la verità veniva sballottata
e relativizzata.
Ciò che era vero in un mondo
poteva essere
falso in un altro. Mondi così
diversi da
quello standard euclideo da poter
essere
considerati alieni.
La scoperta di Goedel di proposizioni indecidibili apriva un ulteriore falla nelle illusioni
di contenimento.
Se, infatti, una proposizione a è indecidibile
in una teoria coerente K , a è indipendente dagli assiomi di K e può essere quindi aggiunto agli altri
assiomi di K per formare un’altra teoria K1 anch’essa coerente ma differente da K. Inoltre se a è la nostra proposizione indecidibile anche
la negazione di a lo è ed ecco che abbiamo un’ulteriore teoria
K2 diversa da K e da K1.
A loro volta anche K1 e K2 avranno proposizione indecidibili e così.
Il processo di moltiplicazione delle teorie
non ha fine. Si apre quindi altri accessi
a infinità di mondi non standard.
Perchè questo breve escursus?
Per tanti motivi.
Innanzitutto per introdurre un
discorso per:
1) parlare della capacità delle
teorie formalizzate
di definire individui e mondi,
2) gettar sospetti sulla natura
degli enti
matematici,
3) insinuare non in maniera generica
che
il campo delle metafore è molto
più vasto
e profondo di quanto si crede.
Cos’è la matematica? É riducibile
alla logica
e alla teoria degli insiemi come
ritenevano
Frege e Russell? È un sistema
formale come
riteneva Hilbert? Un mero insieme
di regole
circa segni tracciati sulla carta
a cui è
possibile dare un senso solo
uscendo dalla
matematica per salire a un piano
superiore?
Oppure un tentativo di coprire
il mondo dandone
un modello, che una volta impostato
cammina
per suo conto e dalla progettata
copertura
analogica passa alla metafora,
dal mare di
sabbia alle balene della sabbia?
Coerenza
Neppure la coerenza è immune
da dubbi.
La coerenza diventa con Hilbert
il concetto
base dell’edificio matematico.
Criterio di
esistenza e di verità.’ Non possiamo
evadere
dalla coerenza? Non si danno
mondi non coerenti?
Certamente non solo esistono
ma sono davanti
ai nostri occhi tutti i giorni.
Limitiamoci
a considerare che nel mondo sociale
un comportamento
coerente è spesso considerato
ideologico
e ottuso. Se dovessimo mantenere
coerente
il nostro comportamento (le nostre
idee,
ecc) non potremmo mai cambiare
opinione.
Non potremmo riconoscere gli
errori. Non
ci sarebbero né scienza, né mutamento
né
democrazia. L’uomo che è vissuto
e sopravvissuto
così com’è perché ha saputo riconoscere
e
prendere coscienza dei propri
errori. Ma
anche la coerenza ‘orizzontale’
sarebbe inconcepibile.
La nostra società è formata da
tanti mondi,
credi religiosi, istituzioni,
associazioni
ecc. ciascuna con le sue regole
di verità.
Sarebbe assurdo, illegale, antidemocratico
esigere la conservazione a tutti
i costi
della coerenza in chiesa, a scuola,
nella
vita democratica, in tribunale.
Detto ciò, dobbiamo constatare
che anche
dogmi di fede cristiana come
quello della
trinità, sono contradditori,
ma non per questo
i fedeli cessano di credere,
che in fisica
il doppio stato corpuscolare
e ondulatoria
della luce è altrettanto incoerente,
con
l’aggravante che per la fisica,
fondata sui
principi logici e matematici,
un simile stato
di cose è intollerabile. In ogni
caso, pur
intollerabile. viene accettato
in attesa
che una teoria più articolata
possa eliminare
le contraddizioni (ammesso che
sia un giorno
possibile). Anche l’atomo di
Bohr non era
certo un modello di coerenza
ma non per questo
venne buttato nel cestino. Anche
i nostri
mondi di favole e di fantascienza
rivelano
incoerenze ma non per questo
smettiamo di
leggerli.
Potremmo dire e potremmo ancora
fare molti
altri esempi ma ciò non toglie
che il problema
della coerenza continui a preoccupare
logici,
matematici e pensatori. Perché
in una favola
la coerenza può non preoccuparci
e in logica
sì? Potremmo rispondere che esiste
un teorema
di logica (di Scoto) secondo
il quale da
una contraddizione derivano sia
tutte le
proposizioni che le loro negazioni
ma altrettanto
potremmo constatare che, se facciamo
finta
che il teorema di Scoto non esista,
logica
e matematica continuano tranquillamente
a
fare la loro funzione.
Molti matematici, in effetti,
non si curano
del teorema di Scoto e continuano
a far matematica.
Molti ma non tutti. Hilbert,
giudicando la
situazione generata dalle antinomie
intollerabile,
pose tra i problemi fondamentali
proprio
quello della coerenza della matematica.
Ma anche per la matematica - anzi sempre
per mantenerci ai livelli più semplici- l’aritmetica
di Peano sorgono problemi. E mica problemi
da poco visto che neppure per l’aritmetica di Peano si può
dimostrare la coerenza con metodi finitari. Una frase infelice che andrebbe riformulata
come. E’ dimostrato che la coerenza dell’aritmetica
di Peano è indimostrabile con metodi finitari. Il termine ‘finitario’ è ambiguo anche
per i matematici ma questo non deve impressionare
perché non si è molto lontani dal vero considerando
finitari tutti i tipi di ragionamento accettati
dalla pressoché totalità degli addetti ai
lavori.
Nel 1941 Skolem scopre un teorema paradossale
che recita: se un sistema di espressioni
possiede un modello esso ne possiede anche
uno numerabile. Un esempio di conseguenza
di questo sistema è che, a meno che la teoria
ZF(7 )sia contraddittoria, l’insieme potenza
dell’insieme dei numeri naturali contemporaneamente
è e non è numerabile.
Lo stesso Skolem fornì un’interpretazione
nello stesso tempo tranquillizzante
e inquietante
del paradosso; tranquillizzante
perchè non
è una nuova antinomia, inquietante
perchè
il paradosso si può interpretare
come se
nel linguaggio della teoria degli
insiemi
si dimostrasse la non esistenza
di un certo
insieme di cui dimostriamo l’esistenza
nel
metalinguaggio. Il che è come
dire che esistenza
o non esistenza di un insieme
non è assoluta,
ma dipende dal linguaggio con
cui ne parliamo.
Con un linguaggio possiamo affermare
ciò
che con un altro neghiamo.
In effetti, non pochi interpretarono
il paradosso
come la condanna del platonismo
matematico.
Il mondo dei concetti, delle
teorie, delle
parole irrompe in una realtà
che, come dice
Borges, “anelava a cedere”.
Nel 1930 Goedel comunicò due
inquietanti
scoperte. La prima afferma che
la coerenza
di un sistema comprendente la
teoria dei
numeri non può essere dimostrata
(Weyl commentò
che Dio esiste perchè la matematica
e coerente
e il diavolo pure perchè questa
coerenza
non può essere dimostrata), la
seconda che
una qualsiasi teoria se è coerente
e comprende
il sistema dei numeri, ha almeno
un enunciato
vero e non dimostrabile.
Ma perché tanta insistenza sulla
coerenza?
Il problema della coerenza si
infiammò di
colpo con la scoperta delle antinomie
e su
questi veri, disastrosi, autentici
buchi
neri della coerenza e della verità
non si
può più rimandare il discorso.
Le antinomie e i rimedi autocontradditori
Quando le antinomie misero in
crisi le costruzione
di Frege e di Cantor, le reazioni
furono
varie. Poincarè le addebitò all’infinito
attuale dei cantoriani e alle
definizioni
impredicative: definizioni vere
per i matematici
platonici ma problematiche per
chi platonico
non è.
Russell edificò nei Principia un complesso palazzo a infiniti piani generati
da infinite gerarchie di tipi (ontologici)
e ordini (concettuali) che non potevano essere
mescolate. Ma i Principia introducevano un
principio, quello di riducibilità, estraneo
alla logica e non riuscivano a introdurre
il principio dell’Infinito se non assumendo
l’ipotesi del tutto metafisica dell’esistenza
di infiniti oggetti.
Nel 1908 lo stesso anno in cui Principia presentò quella che Wittgeinstein chiamava
la “bestiale teoria dei tipi”, Zermelo propose
una soluzione assiomatica, e Brower una dottrina
intuizionista. A Ramsey si deve la suddivisione
delle antinomie in antinomie linguistiche
e matematiche. Tarsky, un anno dopo i teoremi
limitativi di Goedel, invitò a risolvere
le prime con metodi semantici formalizzati
che prevedevano una gerarchia di linguaggi
e di verità.
Tutte queste soluzioni prevedono
gerarchie
indefinitamente estese verso
l’alto (anche
la teoria assiomatica di Zermelo
- è stato
notato - prevede una gerarchie
di ranghi).
In particolare quella di Tarsky
che stabiliva
che ciascun linguaggio dovesse
delegare la
sua verità di gradino in gradino
senza mai
raggiungere un ultimo piano capace
di autoveritarsi.
Se gli assiomi non sono evidenti,
se la verità
si scarica sempre a livelli successivi
come
si può parlare di verità?
E’ vero che Tarsky parla dei linguaggi formalizzati
e non del linguaggio naturale, è vero che
riesce in tal modo a stabilire una netta
separazione fra strutture sintattiche e strutture
semantiche che le realizzano ma già la pluralità
di realizzazioni per ogni struttura sintattica
ci apre verso una pluralità di mondi in cui
la verità è relativizzata alla realizzazione.
Per gli scolastici la verità era adaequatio rei et intellectus ma che facciamo se manca la res o se la res è multipla?
La teoria sulla verità di Tarsky poté e può
sembrare una brillante soluzione come, a
suo tempo, poté era sembrata brillante la
teoria dei tipi e degli ordini di Russell
ma tutte queste soluzioni hanno una struttura
che rinvia gerarchicamente a un nuovo tipo,
a un nuovo ordine, a un nuovo linguaggio
in una ascesa senza fine.
Non è un problema nuovo in filosofia.
Chi muove una cosa? Un’altra
cosa dotata
di motore? E chi muove il motore
di quella
cosa? Un altro motore. E chi
muove quel motore?
Chi ha creato il mondo? Dio creatore.
E chi
ha creato il dio creatore?
Perché il male? Perchè è mancanza
di bene.
E perché è mancanza di bene?
Anche Aristotele e Tommaso delegavano verso
l’alto ma affinché la delega non fosse infinita
e inconcludente dovevano bloccare l’infernale
meccanismo con entità divine, illogiche e
autocontradditorie come il motore immobile
e il dio creante e increato. Così nei processi:
il giudice giudica ma chi giudica il giudice
sul giudizio? Un altro giudice? E chi l’altro
giudice? Ovunque c’è giudizio, selezione,
scelta nasce l’ascesa che si può troncare
soltanto col giudice ingiudicabile che giudica
se stesso sul giudizio. Questioni di questo
tipo si risolvono nella prassi ma non in
via teorica, dove il problema di principio
rimane: le antinomie, per essere risolte, richiedono
gerarchizzazioni infinite inaccettabili.
Per troncarle riproduciamo antinomie o contraddizioni.
Coerenza della coerenza
Il concetto stesso di coerenza
non sfugge
al meccanismo perverso. Per dimostrare
la
coerenza della geometria dimostriamo
non
la sua coerenza assoluta ma la
sua coerenza
relativa all’aritmetica, che
ci consente
di dire che la geometria è coerente
solo
se l’aritmetica è coerente. Se
vogliamo dimostrare
la coerenza dell’aritmetica di
Peano cerchiamo
di dimostrarne la coerenza relativa,
ad esempio,
al sistema di Zermelo. Che significa
tutto
ciò se non che anche la coerenza
è avviata
verso un altro regresso all’infinito?
Che
possiamo fare per fermare questo
meccanismo
diabolico se non ricorrere alla
auto coerenza
indimostrabile?
Sappiamo, infatti, che se l’aritmetica
di
Peano è coerente allora è dimostrato
che
non può dimostrare la propria
coerenza. Se
chiamiamo COE la stringa finale
di questa
dimostrazione, allora COE è indecidibile.
Ma se è indecidibile allora possiamo
aggiungere
senza problemi la negazione di
COE come assioma,
ottenendo un nuovo sistema che
dichiara l’incoerenza
di COE.
Si legge spesso che le antinomie
sono ed
erano un problema per i logici
e per i filosofi
della matematica ma non per i
matematici.
Questo è solo parzialmente vero.
E’ vero
che le antinomie non disturbavano
né intralciavano
l’operare dei matematici nei
loro calcoli
e nelle loro ricerche, come ebbe
a pronunciarsi
anche Goedel, ma è altrettanto
vero che accanto
a Russell, Frege, Couturat, che
erano logici
e non matematici, altri matematici
come Hilbert,
Brouwer, Herman Weill considerarono
strutturali
i problemi sollevati dalle antinomie.
Anche
Poincarè non si sottrasse alla
polemica.
E proprio le tesi di Poincare
(vedi la sua
condanna delle finizioni impredicative
e
delle teorie cantoriane) ci mostrano,
se
mai c’era stata necessità, che
i problemi
non erano affatto limitati alle
antinomie
ma riguardavano in generale la
natura della
matematica, degli enti e dei
ragionamenti
ammissibili.
Ma in che senso disturbano o
non disturbano
i matematici? Che non li disturbino
è evidente.
Sia coloro usano l’aritmetica
per calcoli
commerciali o per contabilità
domestica,
sia coloro che la usano per la
ricerca, continuano,
come ha sempre fatto con successo,
il loro
operare matematico senza essere
minimamente
disturbato dalle antinomie. Il
senso di fallimento
che colpì Frege, quando venne
informato da
Russell circa la scoperta dell’antinomia
che porta il suo nome e che lo
indusse a
pensare che tutto l’edificio
matematico stesse
crollando, non li tocca minimamente.
Al massimo
possono pensare che ciò che crolla
non è
la matematica ma quella barocca
costruzione
con cui Frege pensava di fondare
la matematica.
E’ poi così importante fondere
in un’unica
costruzione matematica, logica
e teoria degli
insiemi? Il sistema di Zermelo
sembra raggiungere
l’obiettivo senza incappare nelle
antinomie,
ma servono a qualcosa tanta fatica
e tanta
complicazione? E per ottenere
cosa? In definitiva
sembra il mondo dei numeri e
la sua manipolazione
possa fare a meno degli insiemi
come teoria
fondante dell’aritmetica. Oltretutto
non
è insensato cercare di fondare
il mondo dei
numeri su quello degli insiemi
quando il
concetto di insieme sembra più
nebuloso di
quello di numero?
Di nuovo dobbiamo dire che le
cose sono più
complesse, che non tutti i problemi
sono
risolubili con un colpo di spada
come fece
Alessandro col nodo di Gordio.
Con le antinomie sembra che non
solo si sia
giunti a un qualche limite d’espressività
e di dimostrabilità ma ai limiti
di un universo
concettuale che offre scappatoie
oltre le
quali ci siano solo abissi e
labirinti. Un
limite comunque relativo che
possiamo sempre
ampliare aggiungendo tipi di
ragionamento
e entità per giungere, però,
con l’ampliamento,
ad analoghi problemi. A questo
punto non
resta che appellarci ad antiche
nomenclature
di auto evidenza, di prassi,
di utilità,
di funzionalità, di certezza
intuitiva rinunciando
alla dimostrazione.
Antinomie e rimedi paradigma
verticale
L’angoscia (8) della domanda non è solo linguistica
ma propria del paradigma verticale vincente.
La domanda: “Dio ha creato noi
chi ha creato
dio?” è con parole diverse la
stessa di Heidegger:
“Perché l’essere e non il nulla?”
Ma è il paradigma verticale vincente, un
paradigma che ci costituisce, a portarci
l’angoscia. Noi possiamo porre fine alla
catena con la causa incausata ma non è questo
uno dei tanti artifici autocontradditori
del paradigma per placare l’angoscia? Perché
la violazione della coerenza non ce la rinnova,
rinnovando ciò che chiamiamo ‘mistero’? (9)
Come ci poniamo verso questo mistero? Riponiamo
lì il senso complessivo della nostra vita?
Nel nostro paradigma linguistico
è naturale
dare il nome alle cose di cui
vogliamo parlare.
Ma il ‘mistero’ è un oggetto,
un organizzazione,
una struttura? Non lo sappiamo
ovviamente
noi diamo nome anche ai limiti,
ai confini
fra dicibile e indicibile, al
referenziale
e al non referenziale, anche
se termini come
referenziale, senso, ecc. hanno
significati
plurimi e non esplicitamente
condivisi. Potremmo
al posto di mistero dire: “Ciò
di cui non
si sa nulla e che c’inquieta”
Ma non diciamo
già qualcosa di troppo con quel
‘ciò’? Esiste
quel ‘ciò’? Se è una variabile
per indicare
qualcosa che non conosciamo;
non si sa neppure
in quale universo vari la variabile.
Addirittura
sentiamo che il mistero non è
qualcosa che
possiamo svelare ma un qualcosa
di insvelabile.
Se le cose stanno così, ci troviamo
alle
prese con l’uso improprio di
un nome per
indicare un limite. Col nostro
linguaggio,
col nostro paradigma d’interpretazione
non
siamo in gradi di spingere oltre
l’indagine.
Riprenderemo l’argomento parlando
del linguaggio.
Antinomie, paradossi
Siamo nelle stesse condizioni
di chi si propose
di riprodurre su carta, ossia
su una superficie
piana, la superficie sferica
del mondo.
Proiettando dalla sfera su un
piano tangente
al polo lungo rette parallele
si ottengono
rappresentazioni piane verosimili
nelle vicinanze
del polo e sempre più false man
mano che
ci si allontana.
Non diversamente nel linguaggio
man mano
che ci inoltriamo verso l’esterno,
man mano
che abbandoniamo l’avvenuto convergere
delle
lingua sul mondo, degli oggetti
sui nomi
e delle proposizioni sui fatti
e ci inoltriamo
oltre e dentro questa convergenza,
ci addentriamo
in confini che sono la stessa
descrizione
del linguaggio e del suo funzionamento,
inciampiamo
nei paradossi di un linguaggio
che non riesce
a seguire il mondo e si perde
nell’eternità
di un numero di una diagonale,
di un Achille
inseguitore di una tartaruga,
di in cretese
bugiardo, di una classe di tutte
le classi
impropria se propria e propria
se impropria.
E questo non sono che le punte
storiche.
Come se avessimo eretto, per
superare gli
scogli, meravigliosi castelli
in cui però
né i numeri né la logica né i
concetti né
il linguaggio riescono ad abitare
a meno
di rinunciare ad essere ciò che
sono o a
meno di accogliere in quel castello
altri
infiniti castelli denominati
significativamente
‘non standard’ i cui abitanti
sono infiniti
e sorprendenti. E’ il limite
invalicabile
del paradigma verticale che pur
ha avuto
tanto successo nella nostra evoluzione.
Antinomie verità
Si dice che l’antinomia è solo
un incidente
ai confini; un incidente di cui
possiamo
non prenderci cura come fanno
tanti matematici.
C’è un’antinomia? Lasciamola
in pace, teniamoci
lontani. Lo stesso raccomandava
Wittgenstein
che riteneva la filosofia una
malattia, una
chiacchiera di s’ammalano ostinatamente
i
filosofi. Un ostinarsi che di
per sé, al
di là di non portare da nessuna
parte, non
danneggerebbe nessuno se non
intralciasse
con la chiacchiera e la presunzione
quei
matematici che fanno matematica
e non chiacchiera
matematica.
Ma si può dire che le antinomie
sono in periferia,
e basta guardare dove si mettono
i piedi?
Altre considerazioni spingono
in questo senso.
Dato un sistema assiomatico che
fonda una
teoria è probabile che esistano
altri sistemi
assiomatici in cui ciò che è
assioma in un
sistema è teorema in un altro
e viceversa.
A questo punto dov’è il centro,
dov’è la
periferia, dove l’edificio, dove
le fondazioni?
C’è poi il teorema di Scoto che
invalida
tutta una teoria che genera una
contraddizione
poiché ci dice che una teoria
affetta da
morbo antinominico accetta tutte
le proposizioni
e le loro negazioni. Ma sono
veramente invalidate
logica e insiemistica dal teorema
di Scoto?
Evidentemente no, se basta non
utilizzare
l’antinomia. Se così fosse non
riusciremmo
neppure a parlarci.
Gran parte dei matematici, dei
ricercatori,
dei geometri, dei ragionieri
non sanno che
esistono antinomie né che esiste
il teorema
di Scoto e, anche se lo sapessero,
continuerebbero
tranquillamente a praticare i
loro calcoli
senza porsi problemi se siano
fondati o no.
Grandi matematici come Poincarè
non sopportavano
neppure l’idea di una formalizzazione.
Lo
stesso Goedel ebbe a puntualizzare
che nella
pratica matematica non esistevano
quei problemi.
L’atteggiamento di questi matematici
praticanti
e diffidenti verso ogni assolutismo-fondazionismo
matematico inventò e praticò
una filosofia
senza fondamenti assai prima
che gli ermeneutici
sulle orme di Nietzsche e Heidegger
la proclamassero.
Si potrebbe rispondere con Hilbert
che una
matematica incoerente non è assolutamente
accettabile. Si può aggiungere
che il rigore
e la coerenza naturalmente devono
valere
per le regole con cui si manipolano
le proposizioni
e per gli enti che si introducono,
ma tutto
ciò non implica che il concetto
di coerenza
e di forma diventino fondanti?
Per cosa?
Per la verità? Su cosa possiamo
giudicare
sui tipi di inferenza visto che
ad esempio
l’eresia intuizionista ha gettato
dubbi sul
principio del terzo escluso,
sulla doppia
negazione, sullo stesso procedere
in matematica?
Non è meglio rinunciare all’edifico
compatto
coerente che tutto abbraccia
senza nulla
tralasciare? E le antinomie e
i falsi rimedi
per le antinomie illusori o addirittura
contradditori
come la causa incausata, il motore
immobile?
Il sistema di Russell con la
sua moltiplicazione
di enti, di numeri, di gradini
complicava
enormemente un edifico senza
portare vantaggi
ai matematici alle prese con
veri, autentici
problemi matematici.
J. R. Weinberg nella sua Introduzione al
Positivismo Logico (1950 Einaudi) condensò in tre punti i difetti
dei Principia: esprimevano 1) troppa teoria, 2) non sufficiente
teoria, 3) assoluta mancanza di teoria. Questi
non sono solo i difetti di Principia ma di tutto il paradigma verticale e del
linguaggio in cui il paradigma si articola.
Da una parte Principia si presentava, sì, come un sistema formale
espresso in linguaggio formale ma doveva
essere spiegato ad ogni passo con istruzioni
espresse nel linguaggio comune. Una teoria,
che richiede un linguaggio non formalizzato,
non testimonia un deficit di teoria e contemporaneamente
un eccesso di teoria?
Il sistema di Russell come tutti
i sistemi
formalizzati siano essi logicisti
o formalisti
hanno in definitiva necessità
di essere illustrati
spiegati, introdotti dall’imperfetto,
impreciso,
non formalizzato linguaggio comune.
Una fondazione
fragile per un palazzo robusto.
Il certo
fondato sull’incerto, il preciso
sul confuso.
Ma le cosa stanno veramente così?
Per ora
limitiamoci a rilevare che lo
studio dei
linguaggi formalizzati della
loro sintassi
e semantica fornisce strumenti
per migliorare
l’espressività del linguaggio
comune indirizzandolo
in definitiva verso uno statuto
logico che
da un lato tende a esprimersi
con rigore
e dall’altra a mantenere una
capacità esplicativa
e quel tipo di significatività
che lo rende
comprensibile come linguaggio
comune. Questo
naturalmente nelle intenzioni.
E’ comunque
indubbio che un’analisi del linguaggio
comune
spinge in questo senso e che
gli studi linguistici
non possono che risultare utili
strumenti
di chiarificazione. Altrettanto
evidente
è il continuo movimento circolare
dal linguaggio
comune a quello formalizzato
e viceversa.
Verità coi numeri
Ha senso chiedersi se si può
parlare di verità
o falsità aritmetiche? Ha senso
ampliare
la domanda su cosa sia la verità
e la falsità?
Forse l’idea che verità e falsità
abbiano
oggettivamente una molteplicità
di significati
al variare dell’ambiente, della
teoria, della
concettualità, è la più adeguata.
L’idea
di verità come un abitare, un
essere cambiati
dalla verità in un esperienza
estetica, ad
esempio guardando un quadro,
leggendo un
racconto così come proposto dai
seguaci di
Heidegger e Gadamer coglie qualcosa
di importante,
ma non è certo esauriente: tante
sono le
esperienze estetiche e non estetiche
che
possono cambiarci. Ma ciò a cui
siamo indotti
a pensare in riferimento al comune
sentire
la verità non è altrettanto plurisignificante.
Tarski nella sua ricerca volle richiamarsi
ad Aristotele e significare che la verità è dire di ciò che è vero, che è
vero, e di ciò che è falso che è falso. Cosi “La neve è bianca” è vero se la neve
è bianca dove il primo enunciato “La neve
è bianca” è citato fra virgolette come puro
susseguirsi di gruppi di lettere per cui
potremmo tradurre “l’enunciato formato dal
termine ‘la’ seguito dal termine ‘neve’ seguito
ecc. ecc.” è vero se la neve è bianca.
Una prima osservazione e un primo
dubbio.
Da una parte abbiamo una realtà
empirica
di cui abbiamo esperienza dall’altra
l’enunciato“la
neve è bianca” la verità scaturisce
dal confronto
della realtà con l’enunciato;
se c’è corrispondenza
diciamo che l’enunciato è vero
se non c’è
diciamo che è falso. Ma nel caso
di un enunciato
sui numeri fra quali due entità
avviene il
paragone che consente di parlare
di verità
o falsità? E’ chiaro che non
esiste una realtà
dei numeri nelle stesse modalità
con cui
esistono la neve e il colore
bianco.
Possiamo dire che “La neve è
bianca” è vera
o falsa soltanto se ne comprendiamo
il significato.
Lo stesso per l’enunciato “5
+ 1 = 6”.
Se ammettiamo con Goedel e col
primo Russell
un’esistenza platonica dei numeri
è chiaro
che i due termini di confronto
ci sono. Se
ammettiamo che le origini delle
verità matematiche
sono empiriche con Stuart Mill
anche in questo
caso i termini di confronto ci
sono. Ma se
la nostra impostazione è assiomatica,
concettualista
o intuizionista?
In ogni caso da una parte l’enunciato linguistico
dall’altro la realtà, da una parte la struttura
sintattica in cui si può parlare di decidibilità,
di dimostrazione, ma non di verità. dall’altro
la ‘realizzazione’ nel senso di Tarski in
cui può parlare di verità. Una struttura
sintattica molte possibili realizzazioni,
in ognuna delle quali un enunciato della
struttura può ‘realizzarsi’ come vero o come
falso.
Note:
1) Un sospetto che durò almeno
due secoli
fino a che Cauchy e Weierstrass
non inventarono
una procedura che otteneva gli
stessi risultati,
ma non parlava di infinitesimi.
L’analisi
poté essere trascritta e redenta
dal rigore
che il nuovo metodo permetteva.
Nella seconda metà di questo
secolo, quegli
stessi infinitesimi, che secondo
Leibniz
costituivano la grana fine dell’universo
accessibile solo all’intelligenza
infinita
di Dio, si presero la rivincita,
divenendo
legittimi e non eretici cittadini
nei mondi
dell’analisi non standard inventata
( o scoperta
o costruita, o fondata) da Robinson.
2) Mach 1872, p.31. La citazione
proviene
da un articolo di A. G. Gargani
contenuto
in Filosofia ’90 a cura di G.
Vattimo.
3) Uso “assioma” anche per i
postulati.
4)
5) Gauss non doveva credere certamente
alla
sua autorità se, avendo lui stesso
elaborato
una geometria non euclidea (nel
senso di
Boylay), non la pubblicò perchè,
come ebbe
a dire, temeva le urla dei beoti.
6) Potremmo benissimo chiamarli
immaginari
o veri, perché non esiste alcuna
base che
ci garantisca una qualsiasi forma
di preminenza
del mondo cosiddetto Standard
rispetto ai
mondi denominati Non Standard:
semplicemente
per convenzione e per abitudine
il mondo
Standard è quello usuale, quello
a cui siamo
abituati, quello che è sempre
stato considerato
in una qualche maniera quello
‘vero’
7) Sistema assiomatico per la
teoria degli
insiemi.
8) Vedi appendice sul concetto di destino.
9) È in parte l’argomento trattato nel capitolo
delle parole vaghe.
ES - 27 marzo 2013
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Concetti citati
Modello, metafora, aritmetica, geometria,
enti, numeri, Immaginari, interminabili,
infinito, infinitesimo, incommensurabili,
Zero, numero, successore, dimostrazioni,
mondi non standard, Coerenza,
Pensatori citati (non in ordine di apparizione)
Cavalieri, Boscovich, Borges; Halley,
Berkeley;
Saccheri, Lobacevskiy, Lambert, Einstein,
Gauss, Riemann, Levi-Civita, Cauchy, Fermat,
Descartes, Newton, Ricci-Curbastro, Euclide,
Poincarè, Peano, Omero, Hegel, Comte, Rousseau,
Robinson, Bolyai padre e figlio,
Hilbert, Gödel, Skolem, Weyl, Brower,
Ramsey, Aristotele, Tommaso, Scoto, Heidegger,
Weinberg, Frege, Russell, Stuart Mill, Bohr,
Cantor, Zermelo
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